MAROCCHINATE di Rossella Balsamo

Era il ventuno marzo del duemila sette.

Angela giaceva sotto al portico malandato della sua vecchia casa, in un paesino nelle campagne ciociare. Il dondolo cullava in lei una tempesta che non si era mai placata. Lo sguardo rassegnato puntava l’asta dalla quale un tempo sventolava fiera la bandiera italiana, imbrattata del sangue di suo padre come onda di mare esplosa sugli scogli. L’uomo, che per difendere la sua famiglia si era scagliato contro lo straniero vorace, aveva firmato il suo destino con una condanna a morte.

Era l’equinozio di primavera, il giorno in cui la luce ha la stessa durata del buio, in cui l’inverno si scansa e cede il passo alla bella stagione, che raggiante sorride da est.

Era il periodo dell’anno che Angela preferiva, quello più tiepido, in cui l’aria si fa impalpabile, in cui ogni impulso della natura germoglia e la vista si rinnova della sua armoniosa bellezza.

Presto le fiamme di San Giuseppe sarebbero esplose sulle colline a illuminare la notte, cancellando per un effimero momento, anche le sue angosce.

L’equinozio inneggiava alla rinascita, celebrava la fertilità, festeggiava il compleanno di quella donnina piegata dal tempo e dagli eventi, ma continuava a essere difficile per lei trascinarsi giorno dopo giorno in una lenta agonia.

Migliaia di volte l’aveva sfiorata il pensiero della morte, molte sue coetanee si erano lasciate sopraffare dalla vergogna, ma lei non ci era mai riuscita.

Le truppe marocchine le avevano portato via la voglia di vivere, ma non i ricordi della sua infanzia, dell’innocenza che riaffiorava alla mente per non impazzire.

Gli occhi di Angela splendevano del bagliore di lacrime inespresse, ormai fuoco fatuo estinto da un pezzo. Il volto rugoso non conservava nulla della bellezza di un tempo, ma nei suoi occhi neri e bui, continuavano a sfilare le immagini che avevano decretato la sua infelicità.

Anche l’abito che indossava, lungo ai piedi, era nero. Dalla morte dei suoi cari era l’unico colore che voleva vedere. Dalla sua morte, era l’unico colore che voleva indossare.

 Ma si può essere morti e continuare a vivere?

Se questa è la vita, sono stata raggirata”, pensava Angela con le mani incrociate sul grembo.

Aveva pregato così tanto Dio di prenderla con sé, che ormai non aveva più fiato da sprecare. L’aveva odiato un tempo. Un po’ ce l’aveva ancora con lui. Non gli aveva perdonato ciò che le avevano fatto, né gli perdonava di averla risparmiata.

Quella che aveva vissuto fino ad allora era stata una sterile sopravvivenza. Da quel ventuno maggio del quarantaquattro la sua anima aveva abbandonato il corpo per sempre. Un corpo che le pesava curare, nutrire, accudire.

Quel fazzoletto nero, che aveva legato in maniera frivola in tanti modi diversi, giaceva immobile alla nuca, incapace di scomporsi anche al più imperante respiro della natura.

Angela si alzò a fatica, sotto il peso soccombente dei suoi ottant’anni.

Gli agnelli, pronipoti delle pecore che da piccola aveva portato al pascolo, sgambettano energici nel recinto, belando la loro necessità di ruminare il tenero nutrimento.

Lei aveva spalancato il cancelletto del fienile, che aveva cigolato arrugginito, lasciando le sue venti pecore libere di spadroneggiare nella campagna circostante. Erano i suoi amici fedeli. Da oltre dieci anni, le gambe non rispondevano più alla sua volontà.

Angela, a fatica, tornò al suo dondolo, dal quale teneva d’occhio i manti ovattati dei suoi ovini, affettando una mela bozzoluta come le nocche delle sue dita.

Anche quel venti maggio del quarantaquattro aveva effettuato il medesimo rito mattutino accucciata su una roccia in aperta campagna, quando aveva intravisto un plotone di uomini strani, dalla pelle scura come quella di suo padre dopo la mietitura.

I volti erano coperti di una folta barba nera e riccia, i nasi affilati e le bocche sottili. Il capo era cinto da una lunga fascia arrotolata e dal collo pendeva un lungo mantello di lana. Armati fino ai denti, solcavano agili come capre, sentieri impervi e ostili.  

«Sono uomini spietati, stuprano e massacrano senza pietà. Nascondete le donne!» urlavano i tedeschi in paese.

Angela si era rifugiata in una grotta in cui aveva trascorso la notte. Tanta era la paura che il freddo non l’aveva sfiorata.

All’alba era già sveglia e guardinga a scrutare i dintorni alla ricerca non delle pecore ma di quegli uomini spaventosi.

Muoversi lentamente senza abbassare mai la guardia, non era stato sufficiente.

Una mano l’aveva afferrata dalla treccia lunga e nera, sollevandola come un fuscello. La lingua dello straniero aveva emesso versi raccapriccianti, il richiamo del cacciatore che mostrava la preda catturata.

L’animaletto era piccolo ma avrebbe sfamato tutti.

Frotte di uomini tutti uguali, si erano avventati su di lei.

Le mani sul suo corpo si erano centuplicate. Angela si era sentita mancare. Le orecchie ovattate dalla confusione avevano percepito solo il rumore degli abiti che le si laceravano addosso.

Un’orda di selvaggi stava facendo di lei ciò che gli era stato promesso. Per cinquanta ore sarebbero stati padroni del mondo.

Il suo corpo ancora sospeso si muoveva come carne da macello sballottata in ogni direzione. Gli occhi stretti non avevano ancora lacrime. L’olfatto si era acuito all’intenso odore di ferormoni sprigionati dal desiderio che a breve avrebbero soddisfatto.

Mollata la presa, Angela si era trovata accovacciata nuda, sulle natiche. Aveva spalancato gli occhioni neri come olive mature, ma era stata costretta a richiuderli, terrorizzata da quelle facce fameliche.

Aveva stretto le gambe nelle braccia, una chiusura che implorava pietà. Ma la vulnerabilità del suo corpo minuto e precoce aveva stuzzicato il loro appetito e la voglia di prevaricazione che si era accentuata a ogni suo gesto di ribellione.

Poi l’avevano presa in tre.

Uno le aveva tenuto le braccia, uno le aveva allargato le gambe e il terzo l’aveva stuprata. Nessuno aveva potuto udire le sue urla, né lei aveva percepito quelle di sua madre e sua sorella che in paese subivano lo stesso castigo.

Angela aveva sentito un dolore lancinante, di una brutalità incredibile, come di una lama affilata che le sfilacciava il ventre. Aveva appena perso la verginità. L’imene in frantumi sanguinava tra le risa dei diavoli.

Soddisfatto il primo, era toccato al secondo, poi al terzo, fino all’ultimo uomo del plotone. Angela era solo un corpo che dava piacere, da qualsiasi lato lo si prendesse.

Dopo il decimo marocchino, il dolore era scomparso. Non sentiva più nulla. La sua mente era affollata di Padre Nostro e Ave Maria, nella speranza che quell’atroce tortura finisse al più presto.

Il suo sequestro era durato cinque lunghissime ore, poi l’appetito era cambiato.

Le nuove vittime erano state alcune delle pecore al pascolo, facili prede dopo l’uccisione dei cani.

Ad Angela ci era voluto un po’ di tempo per riprendersi.

Era tornata a casa vagando in uno stato pietoso. Il suo corpo era sporco e livido, il sangue le rigava le cosce tumefatte. Il paese aveva cambiato volto al suo arrivo.

Le abitazioni erano state saccheggiate, molti uomini ammazzati, migliaia di donne stuprate.

Si era rannicchiata sul suo letto sprangando il portone. Era rimasta lì immobile per ore, fino a quando non aveva sentito bussare.

In preda al terrore non si era mossa. Si era sollevata dolorante, solo quando ebbe riconosciuto la voce che la chiamava.

Aveva afferrato il lenzuolo e se lo era arrotolato intorno al corpo come una mummia. Ogni passo perpetuava le violenze subite.

Senza spostare la tenda si era nascosta tra i ricami.

Era Antonio, il suo innamorato, il ragazzo che non l’avrebbe mai più avuta perché il suo corpo di uomini ne aveva conosciuti anche troppi e ciò che cercava adesso era solo un po’ di pace.

Angela si era rifiutata di aprire.

Da quel momento in poi, non si sarebbe più fidata degli uomini e quella sarebbe stata la sua unica risposta al sesso opposto. Un voltafaccia.

Dopo un mese, quando le cicatrici erano quasi del tutto scomparse, la ragazza aveva iniziato a presentare gonfiore e arrossamento degli organi genitali, secrezioni vaginali purulente, intense coliche addominali e febbre.

Era stata ricoverata in una delle case attrezzate ad ambulatorio medico del circondario, sorte per le vittime di quei crimini efferati, la maggior parte delle quali erano ragazze come lei, tra i dodici e i sedici anni.

Angela aveva contratto una malattia infiammatoria pelvica.

Fortunatamente niente di grave, di sicuro le era andata molto meglio di tante altre donne. Era guarita con la penicillina, ma la conseguenza più grave era stata la sterilità.

Aveva cancellato definitivamente l’idea del matrimonio.

Il giorno in cui quel plotone aveva abusato di lei, era morta e ormai viveva solo per inerzia. Dopo alcuni anni, si era sentita nuovamente abusata.

Era stata contattata da un’associazione a tutela delle donne, una di quelle che nascevano e si scioglievano per difficoltà organizzative.

I documenti richiesti per avere giustizia erano talmente tanti che molte donne avevano rinunciato a combattere. La strada per ottenere giustizia diventava un calvario che spesso si concludeva con l’impunità dei colpevoli.

Il governo non era ancora abbastanza forte da tutelare i diritti degli italiani e ottenere giustizia, i debiti contratti eccessivi, in un periodo in cui la priorità era ricostruire.

Ci si riuniva per discutere di indennizzi e assistenza medica.

Angela aveva usufruito solo della seconda, riguardo alla prima ci aveva messo una pietra sopra.

«È la guerra», si ripeteva.

Dopo diversi anni, si era resa conto di aver preso la decisione giusta. Testimoniare davanti a uomini sconosciuti a fronte di risarcimenti ridicoli, si era rivelata per molte donne, un ulteriore trionfo della violenza subita.

Anche quell’anno era giunto il solstizio d’inverno. Il sole viveva immobile la sua morte apparente, la fine di un ciclo vitale.

La nascita di Gesù era alle porte.

Angela era ancora seduta sul dondolo, sotto al suo portico. Vestita dell’abito nero e uno scialle leggero, osserva la neve cadere soffice, ovattando la campagna e i brutti ricordi.

Il principio e la fine iniziano a convergere.

La benedizione di Dio era imminente, così come la visita dello spirito dei morti.

Angela pregava con il rosario stretto tra le dita, mentre l’oscurità da cui nasce la vita, sopraggiungeva rapida.

La pace, subentrata, aveva acceso l’anelito della sua anima, lasciando che una nuova fiamma la incendiasse.

Angela stringeva gli occhi.

Stavolta Dio la stava ascoltando.

Il ciclo delle sue stagioni si è concluso.

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