IL MENO È COMBUSTIONE di Giovanni La Guardia

Quando il concerto ha termine mi sento svuotato, come se avessi lasciato l’anima sul palco. Le gambe vacillano, il sudore incolla la camicia alla pelle, non sento che un sibilo, le braccia pesano il triplo del normale, ho la bocca secca, gli occhi persi in qualche “altrove”.

Tuttavia, mi tocca al più presto ritrovare volontà negli sguardi profondi dei miei compagni, perché bisogna smontare e caricare tutto: domani suoniamo in un posto a 350 km da qui e si sa, lo ripete sovente Nicola, quando si va di fretta spunta sistematicamente un lentissimo tre ruote davanti al nostro furgone di quarta mano, su una strada a doppio senso di circolazione, con doppia striscia continua. E un traffico pauroso.

Ammiro la forza fisica delle ragazze del nostro gruppo, forse perché sento la mia gracile struttura spezzarsi sotto il peso di casse, chitarre e testate, moltiplicatesi in maniera esponenziale, da quando Fabrizio è con noi.

Per fortuna, abbiamo deciso di cenare in anticipo, così, prima di ripartire, affidando il volante a chi tra noi avrà il volto meno deformato, riusciremo a mettere insieme quattro/cinque ore di sonno nel solito alberghetto sinistro, dove di sicuro ci saranno uno sciacquone rotto che scarica senza tregua, lenzuola macchiate giallo tenue e peli pubici attorcigliati agli angoli del pavimento del bagno.

Eppure non si può spiegare la gioia donataci da chi, mentre ci impastiamo di polvere arrotolando i jack, ci confida il suo ritrovarsi tra le parole di un nostro testo o da chi ci chiede una dedica sulla copertina di un cd appena acquistato, di poter portare con sé un manifesto o la scaletta segnata da impronte di scarpe sconosciute e andate via oppure, ancora, di chi ci porta un drink.

Guardo la custodia del mio basso appena infilata nel portabagagli e penso che nella vita sono pochissime le cose che non deludono o non tradiscono mai.

Talento a tonnellate mi è passato sotto gli occhi, negli orecchi, mi ha attraversato il cuore.

È un pensiero ricorrente, non so perché ma puntualmente quando rientriamo in furgone dai concerti, all’alba, inventandoci discorsi assurdi o surfando tra stazioni radio alla ricerca della canzone giusta, pur di vincere temuti colpi di sonno, sempre più minacciosi, col passare degli anni.

Nessuno ci ha regalato niente e quelli che dovevano essere i soldi dell’albergo, vanno dritti in fondo-cassa, la cui situazione è lontana anche solo dall’idea o sensazione confortante che da questo gioioso amore infinito chiamato C.F.F. e il Nomade Venerabile, pieno di sacrificio e dedizione, si possa campare.

Penso alle tante valide band che ho visto nascere, crescere, entrare in crisi, sciogliersi. Nell’indifferenza più o meno totale.

Una di queste canta “Impiegato dell’arte”, ossia il sogno di avere uno stipendio per il semplice fatto di scrivere, comporre e suonare.

Ve lo immaginate?

Chissà se anche in questo caso ci sarebbero fenomeni di malattie immaginarie. L’uomo è incontentabile ed io non posso escluderlo.

Il ciclo si ripete uguale, costante: per due o tre anni, sulle ali incoscienti dell’entusiasmo più spregiudicato, si fa a capofitto un numero spropositato di concerti, non di rado malpagati e in posti osceni.

Alla fine, si mettono da parte soldi appena sufficienti per registrare un disco, si fa di nuovo il tour, il mordente decresce nei gesti circolari e, alla fine, si inizia a fare giocoforza selezione, puntando alla “qualità”: sette su dieci è una scusa perché non si è ottenuto nulla di veramente concreto.

Ogni volta che dobbiamo organizzare i nostri concerti o entrare in studio di registrazione, ci scervelliamo nella crescente difficoltà di comporre puzzle di ferie e permessi da lavoro, coincidenze di treni e aerei o calendari di esami universitari ripassati nei buchi del sound-check o nelle pause in autogrill.

Peraltro, il nostro progetto travalica i confini della musica, intrecciandola con il teatro-danza e la video-arte.

Ne conseguono problemi organizzativi e logistici particolarmente complessi.

Per non parlare della polizia stradale che ogni tanto ci ferma, allarmata dal manichino che, ammassato sul lunotto posteriore ad occhi sbarrati, deve evidentemente trasmettere qualcosa di sinistro.

L’anagrafe e la pletora di incombenze, pressioni e responsabilità parallelamente alla prima crescenti, non giocano a favore: si aprono bivi in quantità e scoccano orologi biologici.

Questo senso di incertezza, unito alla convivenza forzata, produce naturalmente lo scontro.

Lo si aspetta come la pioggia dopo che le nubi si infittiscono, scurendo il cielo, e si mischiano al suono dei tuoni tutto intorno.

Eppure la tempesta non è mai stata tanto forte da travolgerci.

Anche questa sera, il nostro concerto è andato bene, c’era un pubblico numeroso ed interessato, alla fine in molti si sono trattenuti a parlare nel backstage e c’è stato chi, come al solito, ha proclamato “ma cosa ci fate voi qui, dovreste essere già famosi”, “l’Italia è un paese di merda, dovreste trasferirvi all’estero”… intanto anche noi, ora, puntiamo alla “qualità”.

Tipica caratteristica del musicista è che basta una parola o un solo accadimento per passare dall’esaltazione irrefrenabile, allo sconforto cupissimo ed opprimente.

Alla luce degli eventi di portate radicalmente contrastanti che ci sono capitati, in circa 400 concerti ad oggi, non possiamo che convivere con prospettive bruscamente volubili e nutrire aspettative iridescenti.

Per quanto riguarda i live, basti pensare che i primi tre concerti degni di questo nome hanno coinciso, nel 2002, con la partecipazione all’I-Tim tour di Red Ronnie, a Matera, davanti a decine di migliaia di persone; con un festival in provincia di Caserta il cui staff ci ha garantito alloggio con pensione completa, per l’intera settimana, in un albergo a 4 stelle; con un altro festival in provincia di Napoli, per il quale siamo stati chiamati come ospiti, in cartellone al fianco di nomi quali Elisa, Goran Bregovic, Gotan Project.

Solo due anni dopo, però, durante un tour fittissimo di date lungo tutta l’Italia, isole comprese, tra un’apertura per i Marlene Kuntz e le registrazioni del nostro primo disco “Ghiaccio”, abbiamo dormito sui banchi di una scuola elementare, in una roulotte arrugginita che scoppiava di zanzare fameliche, nella sezione del partito comunista di uno splendido paesino sperduto sui monti molisani, in sei stretti su due letti in una casa privata alquanto spettrale e piena di uccelli impagliati, in una tenda familiare nel bel mezzo di un campo di calcetto in polverosa terra battuta (con annesso tremendo effetto serra, al mattino)…

Ma nel 2005 eravamo al Sziget Festival di Budapest a rappresentare il nostro paese con Prozac+ e Almamegretta; aprivamo i concerti di Giorgio Canali e Rossofuoco, Meg, Moltheni; Elleu Multimedia ristampava il nostro disco d’esordio; Rockerilla, Rolling Stone Italia, Il Mucchio Selvaggio, La Repubblica, Ritual, InSound, Radio RAI 1, Radio Popolare Milano, Radio Onda Rossa Roma, Rockit, Music Club, Rockol… spendevano (e periodicamente continuano a spendere) parole d’elogio ed entusiasmo per noi.

L’anno successivo dormivamo allo Sheraton Golf Parco De’ Medici Hotel & Resort di Roma, in occasione del Premio De Andrè; Anna Maria Stasi, la nostra cantante, era premiata da Paola Turci come miglior voce del Venerelettrica International Female Rock Festival di Perugia; firmavamo il nostro primo contratto discografico con la Otium Records di Bari; il brano “Satori”, tratto da “Ghiaccio”, era selezionato, accanto a brani di Afterhours e Bandabardò, per la compilation “The best of indies in Italy”, distribuita al MIDEM di Cannes e promossa da Audiocoop e dal Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza.

Nel 2007, tra cachet, primi posti in concorsi nazionali e diritti SIAE, almeno per un breve lasso di tempo, abbiamo avuto la gioia vertiginosa di provare cosa significhi vivere di musica.

Nel nostro album “Lucidinervi”, pubblicato nel 2009, ci sono le amichevoli partecipazioni di Yo Yo Mundi, Umberto Palazzo del Santo Niente, Franz Goria dei Petrol / Fluxus, Guglielmo Ridolfo Gagliano e Paolo Benvegnù; quest’ultimo dichiara in un’intervista “I C.F.F. sono per me uno dei migliori gruppi in Italia”; nello stesso anno, giriamo il videoclip di “Un jour noir” con la Vertigo Imaging di Enzo Piglionica, straordinario regista pugliese, già al lavoro con Amor Fou e Caparezza; il brano “Amore” si piazza tra i primi dieci posti della prestigiosa classifica Indie Music Like curata dal Meeting delle Etichette Indipendenti… insomma, un’altalena che avrebbe destabilizzato chiunque.

Di sicuro sono fondamentali lezioni di vita, che nessuna Università impartisce.

Negli anni 2004-2005 ho abitato a Roma, perché mi stavo specializzando a La Sapienza. Avevo affittato una microstanza in quartiere Prati, per 370 euro al mese, rigorosamente a nero. La porta non aveva chiave, era a soffietto: avete presente quelle dei cessi dei piccoli bar anni Settanta? Chiudevo con un lucchetto e una catenella, passata attraverso due gancetti piantati maldestramente nella plastica.

La padrona di casa era una sorta di fattucchiera che gestiva un negozio del tipo “Tutto a mille”. Aveva disseminato la casa di santini e piccoli altari religiosi: unici elementi “puliti”, in senso figurato e no.

L’altro impavido affittuario si chiamava Antonio, era di Napoli, per campare cantava stornelli romani (!) nei ristoranti e, in quella casa a Prati, dormiva nello stanzino delle scope: uno spazio lungo e stretto, tanto che ci entrava giusto il suo letto, per cui non poteva che stendersi o alzarsi. Non aveva finestre: Antonio aveva estratto un mattoncino appena sopra lo stipite superiore della porta, giusto per garantirsi un minimo di circolazione d’aria. Dopo 2 mesi sono scappato.

Ho cercato altre sistemazioni ma, certificata la sfacciata indecenza delle proposte romane, ho preso casa ad Orte, con regolare contratto, tornando a fare il pendolare, come ai tempi dell’università a Bari.

Sono stato lì per 8 mesi, l’affitto per l’intera bellissima casa situata sulla rocca, nel centro storico, ammontava alla metà di quanto pagavo per la sudicia stanzetta romana. Godevo di un terrazzo spaziosissimo affacciato sul Tevere, dove organizzavo cene estive con gli amici. È lì che ho scritto “In cima al nulla”.

La spontaneità di quel piccolo mondo si riempiva di partitelle a calcetto, cene in osteria, pomeriggi sui monti.

Unico inconveniente, gli infissi. Si trattava infatti di una casa poco manutenuta, senza riscaldamento: l’inverno rigido spadroneggiava. Ricordo che, alla sera, spente le stufe a gas, mi infilavo nel letto e il quantitativo di coperte era tale da darmi quasi l’impressione dello schiacciamento della cassa toracica.

In quel periodo avevo imparato a memoria ogni tipo di pubblicità: decidevo il canale televisivo su cui sintonizzarmi e non lo cambiavo mai, fino ad addormentarmi, per evitare di esporre al gelo la mano alla ricerca del telecomando…

Mi sono innamorato della Tuscia: lì borghi medievali ammaliano l’anima e scatenano la fantasia, la natura offre paesaggi straordinari, nella flora e nella fauna.

Peraltro, ho anche assistito a Magliano Sabina, in luglio, ad un ispiratissimo concerto del tour di “Ballate per piccole iene” degli Afterhours. La piazzetta era gremita fino all’inverosimile e Manuel Agnelli ha cantato e suonato come se ci fossimo raccolti tra le soffici confidenze di un salotto.

La musica ha un inestimabile valore terapeutico.

Intercetta qualcosa che sta nei pressi del mistero e mi commuove nel profondo.

“Il meno è combustione”: il minimo che possiamo fare per onorare il dono della vita, è bruciarne.

Ecco cosa voglio dirvi, sempre e nonostante tutto: bruciate di vita, di sogni e di passioni.

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