COMPAGNI DI HARVARD di Paola Pietrosanti

“Caspita, si tratta di un gesto veramente generoso. Non è vero, tesoro?”

Daphne odiava ogni singolo mattone di cemento della villa estiva dei Remington. Ogni fessura sul vialetto pavimentato, ogni foglia ingiallita nel suo elegante giardino all’inglese. 

“È sempre stato un uomo così caritatevole Astor… ancora non riesco a credere che non ci sia più. Dovremmo intitolargli qualche fondazione filantropica in suo onore, che ne pensi? Lui amava tanto fare beneficenza”

Mentre il signor Abbott lasciava le parole correre come cavalli impazziti, Daphne sentiva risalirle dentro un conato di vomito. Come poteva dire certe cose di una creatura così orribile?

“Direi che si potrebbe regalare la villa allo Stato per farne un sepolcro delle sue memorie” gli rispose allora, con l’acido ormai in gola.

E il signor Abbott, troppo matto nel suo cordoglio, l’assecondò e adesso blaterava qualcosa sul valore dei siti culturali d’interesse nazionale. Solo dopo realizzò che questo avrebbe comportato lungaggini burocratiche e tasse di cui non si sarebbe voluto preoccupare.

Ma Daphne non lo ascoltava già più.

L’esecutore testamentario che le stava di fronte avrebbe detto che avesse appena visto un treno ad altissima velocità venire contro.

“Mi scusi, signor Emmons, può ripetermi ancora una volta come hanno trovato Astor?”

La signora Abbott percepiva il marito singhiozzarle al suo fianco, ma osservava la scena dall’esterno, come se ormai quel treno infuriato l’avesse trapassata e di lei non rimanesse che l’anima.

“Sul fondo di un burrone vicino Hartford. Strangolato.”

L’esecutore non era un uomo di molte parole, si sentì tuttavia di aggiungere, dopo un breve silenzio tombale, poche altre essenziali informazioni:

“Ed evirato.”

Il signor Abbott scoppiò in un ancora più forte singulto. Fece pena anche al laconico signor Emmons, che per calmarlo pensò di chiedergli come conoscesse il de cuius.

“Ci incontrammo ad Harvard. Primo giorno, primo banco. Non ci siamo mai abbandonati da allora.”

Fu allora che tirò su col naso e sorrise.

“Ricordo i tornei di biliardo e le grigliate di granchi nella mia casa di famiglia negli Hamptons. Non posso credere che sia tutto finito.”

“Bene, non si disperi, signor Abbott. Verranno nuove gioie e nuovi ricordi. Magari ne potrete creare altri nella villa. Per commemorare Astor, ovviamente.”

Quello fu il massimo della loquacità che l’esecutore fu in grado di sfoggiare. Dopodiché, si incupì nuovamente e aggiunse frettolosamente:

“Beh, adesso mi serve che accettiate o meno l’eredità della residenza.”

La signora Abbott era ancora fuori dal suo corpo, quando suo marito aveva già proceduto a dare il suo assenso. Il Signor Emmons si premurò dunque di controllare con un’antiquata lente da taschino le ultime volontà scritte con inchiostro nero a mano su una pergamena chissà dove raccattata.

“Più precisamente, qui c’è scritto che la villa verrà lasciata alla signora Daphne Williams, coniugata in Abbott…”

La signora Abbott tornò dunque bruscamente alla sua vita, come se quelle parole l’avessero fatta risorgere.

“Io sono l’erede della tenuta? E mio marito?”

“Sicuramente, si sarà trattato di una svista. Questo era l’ultimo foglio delle volontà del signor Remington, deve non aver fatto in tempo di aggiungere il signor Abbott. Legalmente, mi serve solo il suo assenso signora Abbott, successivamente potrà decidere di far rientrare la donazione nella comunione legale con suo marito.”

Dire di no alla volontà del signor Abbott di acquisire la casa, la più grande memoria del suo più caro amico, sembrò di una brutalità inaudita perfino per Daphne. Perciò, due giorni dopo, i coniugi Abbott erano già nella loro nuova tenuta.

La villa era di proprietà dei Remington da otto generazioni e si trovava nel sud-est della Pennsylvania, circondato da alberi e da un esiguo bosco. Ed essendo un viaggio così lungo da Providence, il signor Abbott aveva ben proposto alla consorte di concedersi un fine settimana amoroso a catalogare le centinaia di libri e mobili antichi contenuti nella villa. La signora Abbott accettò controvoglia, ma sembrava non voler dare prova della sua insolenza al marito.

La villa si stagliava di fronte ai loro occhi elegante e algida come una montagna islandese, una di quelle al cui interno si agita il magma e nessuno sa quanto in fretta possa disastrosamente risalire.

Guizzando gli occhi, a Daphne sembrò di riscoprire il volto di Astor nella sua facciata: la cortina bianca, i vetri delle finestre azzurri, il tetto spiovente castano, il sopraluce triangolare e sporgente, il portone d’ingresso color vinaccia. Doveva essere il chiaro segno che l’anima inquieta del rampollo dei Remington dimorava ancora in quella casa, la quale, in gesto materno, si era plasmata negli anni come cupo e lugubre riflesso del suo padrone.

Entrando, la tenuta sembrava non aver mai visto una ditta di pulizie nella sua storia centenaria: eppure, Daphne sapeva bene che ogni venerdì una schiera di donne delle pulizie inondavano il posto, dando il tormento ad ogni zozzeria e polvere potesse celarsi negli angoli più lontani e piccoli di ciascuno dei tre piani che la componevano. Da quando Astor Remington era scomparso e poi morto, non c’era stato più nessuno a pagare le addette alle pulizie e perciò anche quelle dovevano aver deciso infine di abbandonare le cure della tenuta. Dita su dita di polvere e ragnatele presidiavano l’arredamento delle camere, come se fossero diventate loro le eredi assolute della casa.

“Orbene, c’è un bel po’ da fare qui dentro” affermò il signor Abbott con il suo instancabile entusiasmo.

Sembrava che egli non facesse mai nulla nelle sue giornate se non aprirsi bonariamente in un sorriso larghissimo, che lasciava trapelare una splendente mezzaluna di denti bianchissimi nel cielo scuro della sua carnagione.

Ma d’altronde il signor Abbott era fatto così: un tenace ottimista, un docile romantico. Era fatto in questo modo anche nella sua vita professionale, quando aveva lasciato lo studio di famiglia come avvocato per iniziare un’attività imprenditoriale nella costruzione delle barche a vela.

Il suo sogno era quello di poter circumnavigare un giorno le Americhe come aveva fatto Magellano nel Cinquecento, ma questa volta a bordo di una di quelle “decappottabili del mare”, come le chiamava lui.

Ma il sogno rimaneva sogno e i debiti per far partire l’impresa rimanevano debiti e così l’eredità di quella villa era per il Signor Abbott la cosa più prossima che gli fosse rimasta alla circumnavigazione delle Americhe. Era un tuffo nel passato, l’occasione per rivivere quelle esperienze giovanili, trascorse con un amico ormai defunto. E la signora Abbott temeva proprio quello, temeva di ritrovare – ancora una volta – suo marito complice della follia di quel posto.

I lampadari, ora opachi e smorti, sembravano ancora danzare sulle note delle periodiche feste che il signor Remington ospitava nella sua tenuta: quelle di Capodanno, del 4 luglio, quelle di Halloween, del Ringraziamento e, come dimenticarle, quelle di Natale.

Nei cinque anni di matrimonio con il signor Abbott, Daphne aveva provato a boicottarle tutte, riuscendo a scamparne solo qualcuna per finta malattia o impegno di famiglia. Erano maestose, eccessive e terrificanti.

Lei e quelle feste, lei e quella dimora, erano amiche di lunga data, compagne di avvenimenti segreti, testimoni di orrende vicissitudini.

La signora Abbott, quando costretta a presentarsi, trattava quei party come se fossero parenti che non vedeva da una vita: se ne stava lì con un calice di Dom Perignon in mano, girando per le sale, scrutando con tenerezza se qualcosa nei mesi fosse cambiato, se le porcellane stessero ancora nella loro posizione di sempre. Quando notava un orologio di Meissen fuori posto o un’anticheria in un’altra camera, le riportava, in grande riserbo, nella loro collocazione originale, quasi in un gesto di gentilezza e di compassione per quegli oggetti.

Il signor Remington l’aveva beccata solo una volta, ma non le aveva detto nulla, anzi, l’aveva guardata con uno sguardo logorato, seppur sempre orgoglioso, e l’aveva lasciata proseguire, spostandosi di sala. Daphne avrebbe potuto richiamare alla memoria quello sguardo, il non detto nei suoi occhi. Li avrebbe definiti gli occhi di un lupo affamato, ma stanco e vecchio, che aveva rinunciato a rincorrere la preda, forse perché era certo che in quel caso non sarebbe riuscito ad acchiapparla. E così aveva abbandonato la battaglia e aveva lasciato che quel piccolo cerbiatto indifeso spossasse pure i suoi posacenere dove meglio credeva.

Ciononostante, la signora Abbott aveva percepito in quella occasione che si era trattata soltanto di una tregua e non di un armistizio. Quel Capodanno, doveva averle consentito la libertà, stordito dai fumi del vino e nient’altro.

Questo gli parve evidente già della volta dopo, quando per l’annuale grigliata della festa dell’Indipendenza, egli aveva intimato al signor Abbott di portare con sé anche la consorte. Non lo faceva mai, l’invito era sempre e solamente per il signor Abbott, a cui era semplicemente estesa la generica possibilità di portare un “più uno”.

Quell’anno, invece, Astor Remington disse letteralmente:

“E questa volta, la tua signora non faccia storie per non venire.”

Era un tono colloquiale e ridente, Daphne l’aveva udito per sbaglio dal volume troppo alto del telefono del marito, mentre camminavano insieme per Union Street. Ma sapeva essere un tono amichevole rivolto al signor Abbott, per lei valeva come un avvertimento. Un monito che aveva intenzione di interrompere una tregua biennale e la signora Abbott subito ne fu terrificata. Era l’artiglieria pesante schierata sul confine, l’ultimatum rivolto al governo nemico.

Come primo colpo di mortaio, il padrone di casa richiese ai camerieri che i coniugi Abbott fossero fatti sedere ai suoi lati.

“Mi sono reso conto di aver trascurato il nostro legame troppo a lungo” si giustificò, quando il signor Abbott lo abbagliò con il suo sorriso a trentadue denti, ricolmo dalla felicità.

E continuò:

“Sai, con gli impegni dello studio legale e i miei innumerevoli viaggi all’estero, non riesco sempre a chiamarti. Questa sera sediamo insieme, come ai bei vecchi tempi di Harvard.”

Continuava a parlare al singolare, come se la signora Abbott non esistesse, come se ella fosse una semplice intrusa, una collega di corso che per sbaglio aveva profanato il loro territorio. Tuttavia, il segnaposto lo diceva chiaramente: Daphne Williams. Quello era il suo posto, aveva persino usato il suo cognome da nubile. Ma ecco, che quello doveva costituire il secondo colpo di mortaio, voleva essere la tacita minaccia che Astor non avrebbe più avuto intenzione di abbandonare la caccia della preda. Daphne Abbott, Williams, o come diavolo si chiamasse, avrebbe potuto strozzarsi con l’acqua della fonte.

“Ma tu guarda che carino, si è ricordato il tuo cognome!” concordò il signor Abbott, felice come Lancillotto alla corte di Re Artù.

L’affermazione non fu sanzionata, se non da uno sguardo dall’alto, terribile e fugace, del signor Remington nei confronti di Daphne, impietrita, già seduta a fianco del grande ospite di casa.

“Se non ti dispiace, vorrei tutti in piedi per un brindisi” sussurrò tra i denti il signor Remington.

Nessuno lo sentì eccetto Daphne, sembrava essere stato un ladro di gioielli, veloce e invisibile.

Ella scattò in piedi, il bicchiere già serrato nella mano, un soldato di prima linea che non osa disobbedire. Quelle erano state le prime parole di Astor Remington nei suoi confronti in due anni di matrimonio con il signor Abbott e dal modo in cui le aveva pronunciate non pareva essere passata neanche un’ora dall’ultima volta che si erano parlati.

“Vorrei offrire un brindisi per questa meravigliosa tavolata” cominciò Astor, con un’oratoria da re medievale, così sacrale e pomposa.

“Qui, in mezzo alla natura del mio giardino, dove mi piace passare le sere d’estate come questa, oggi vi voglio ringraziare della vostra amicizia e della vostra presenza. E nel farlo, vi faccio un piccolo regalo per divertire la vostra serata: prima di cenare, ho organizzato una caccia al tesoro.”

Ci fu un attimo di generale esultanza, tutti battevano le mani, facevano rumore con i piedi, facevano tutti tintinnare le posate sui calici.

“E va bene, va bene” cercò di calmare i commensali il signor Remington, ridendo con grande compiacenza di sé.

“Ho capito che la proposta è stata apprezzata. Ma non ho detto cosa succede per chi vince.”

“Si prende la tua villa!” disse qualche bonaccione dal fondo della tavola.

“Ehm, la mia villa, no” si ritrasse per un attimo il signor Remington, poi continuò:

“Ma chi lo trova si terrà il tesoro. Ed è un tesoro di gran valore. Si tratta di un posacenere in porcellana di Meissen del 1820, appartenuta al capostipite della mia famiglia, Reymond Remington.”

La signora Abbott si trattenne, ma dentro di sé il cuore le batteva all’impazzata.

Ecco, il terzo colpo di mortaio, fatale, capace di sfondare gli schieramenti avversari. Nel collettivo giubilo, la donna non riuscì a reggere la pressione e alla fine si allontanò. La notò solo il marito, che si alzò anch’egli e le chiese dove stava andando. Lei gli risposte che andava in cerca di un bagno. Non c’era nulla che il signor Abbott potesse fare per trattenerla e così tornò al suo posto.

Daphne sapeva molte cose di quella villa, eppure non sapeva dove fosse una toilette. Anche se quella era una scusa, voleva sottrarsi a tutti i costi da quella trappola della fanatica caccia al tesoro. Così, mentre orde di invitati si accingevano a scandagliare il posto, la signora Abbott corse su per la scalinata coronata da ritratti a mezzi busti di tutti gli antenati Remington e si avventurò per il secondo piano della villa.

Adesso, che lo rivedeva dopo tanto tempo e che Astor era morto, quel piano della tenuta le sembrava il corridoio di un ex manicomio. Le tende di velluto blu reale oscuravano le finestre e la moquette a rombi turchesi era coperta di pelucchi grigi.

Dovette farsi luce con la torcia del telefono per non intruppare sugli antichi mobili di ebano. Forse, quello era il piano della dimora che aveva più timore a rivedere. Non vi aveva messo più piede da mesi. Per questo, aveva insistito con il signor Abbott a volerlo perlustrare da sola, convincendo il marito a rimanere nel piano inferiore così “avrebbero fatto prima a controllare che tutto fosse stato apposto”.

Nel silenzio del corridoio, al rumore ovattato dei suoi passi sulla moquette, si insinuò uno cigolio improvviso. Ma nel bagliore di quel misero faro, qual era la torcia, la signora Abbott non vide nulla, se non una porta che le sembrò socchiusa rispetto alle altre.

Tra l’attesa e il timore, affrettò il passo e si fermò davanti a quella.

Era lì, ancora una volta, riconobbe la maniglia di ottone diversa dalle altre, con il muso di un leone scolpito sopra.

 Non poteva essere soltanto una coincidenza, che di tante stanze, l’unica porta che non era rimasta chiusa era quella della camera da letto del signor Remington. Non c’era bisogno che Daphne vi entrasse perché ne conosceva le pareti foderate di broccato bordeaux e quel pavone bianco impagliato che tetramente il signor Remington aveva disposto sopra il comò, che tanto stonavano con il resto della casa e sicuramente con l’esterno della villa in stile georgiano.

Poi, si ricordò dello specchio, sporco e usurato sui bordi, nel quale si era riflesso il volto falsamente rammaricato di Astor quella sera.

“Così, adesso non parliamo più, io e te?”

“Per “adesso” intendi negli ultimi otto anni?” aveva risposto la signora Abbott, finalmente trovando del coraggio, anche se le mani le tremavano.

Le nascose accuratamente dietro la schiena, cercando di celare quella sua agitazione. Al secondo piano, le porte erano tutte uguali ma sperava che quel leone ruggente della maniglia dovesse indicare una toilette. Non era comunque sorpresa che Astor doveva averla seguita alle spalle con passo felino.

Vide il signor Remington fare un ghigno di accordo e successivamente chiudere la porta dietro di sé.

“La chiudo perché gli ospiti non dovrebbero venire fin qui su” disse Astor, come a voler tranquillizzare la sua interlocutrice che non avrebbe fatto nulla di avventato.

“E io non sono un’ospite?”

La guardò come un attore che a fine dello spettacolo si leva il trucco, il costume di scena e torna nel suo monolocale di Brooklyn, una tana di mozziconi di sigarette e bollette sul tavolo della cucina. E Daphne Williams era la stupida operetta da quattro soldi che doveva recitare ogni sera in qualche teatro off Broadway.

“Sembra che niente sia capace di fermarti. Perciò…” si interruppe brevemente, abbassando gli occhi e passandosi le dita sul mento, ponderando e rigirando le parole che avrebbe voluto dire nella sua testa. Continuò:

“Perciò, neanche una serratura potrebbe arrestare il tuo corso”

“Non capisco se ti riferisci al posacenere o al fatto che sia finita in questa camera” commentò Daphne, scuotendo la testa in gesto di rassegnazione.

“Mi riferisco ad Abbott”

Fu inevitabile, il sangue tornò a gelarsi nelle vene della donna. Abbassò lo sguardo, era terrorizzata, avrebbe voluto calarsi dalla finestra fin nel giardino, dove il signor Abbott l’aspettava ancora, dirgli di accendere il motore e partire per Providence immediatamente, non facendo più ritorno in quella casa maledetta.

“Mio…?” non fece in tempo a terminare di parlare, che il signor Remington era scoppiato in un’ira bestiale: “No, il mio compagno di Harvard. Segui il labiale: il. mio. compagno. Tu e questo vizio di intrometterti nelle vite altrui. Otto anni fa, ti avevo ammonita, ti avevo detto:

“Rimetti un piede in questa casa e ti uccido”. Te lo ricordi oppure no?”

Daphne era in lacrime, ma più per la frustrazione che per le urla del signor Remington. Cercò di singhiozzare sommessamente, si portò una mano agli occhi, poi si riprese, respirò profondamente e pregò che Dio quella sera l’avrebbe lasciata uscire incolume da quella stanza.

“Io non avevo idea di chi fosse. Io non avrei voluto tutto questo, io…” sbuffò e scosse il capo ancora una volta.

“Se non avessi avuto una vita tranquilla con mio marito, nella mia casa con giardino a Providence, me ne sarei andata via. Io non sapevo nulla, Astor, devi credermi”

Ma al signor Remington questi discorsi poco importavano e passandosi una mano tra i capelli cercò di calmarsi, di riprendere le redini della conversazione. Iniziò a camminare compostamente avanti e indietro per la stanza, poi decise di fermarsi e di tornare a guardare la donna con odio.

“Gli hai messo in testa quelle tue stronzate?”

“Lui non sa niente” lo tranquillizzò.

“Non sa che hai cercato di violentarmi” aggiunse la signora Abbott, allontanando gli occhi, come se quelli fossero una scollatura troppo profonda, una gonna troppo corta. Istintivamente sentì di doversi comportare in maniera modesta e, in quel caso, anche i suoi occhi avrebbero potuto attirare l’attenzione del suo interlocutore e allora glieli voleva sottrarre per non turbarlo.

Sorprendentemente, il signor Remington non si scompose, quasi fece finta di non averla sentita.

“D’accordo, d’accordo. Almeno lui non sa. Ma se ti azzardi a dirgli qualcosa, il mio avvertimento rimane valido” sentenziò velocemente.

Marciò verso la porta, soddisfatto della sua rappresaglia.

“Guarda, che io lo dico per te. Se tu glielo dicessi a chi crederebbe: al suo amato compagno d’università o a quella pazza di sua moglie?”

Alla fine, quell’anno, il posacenere di Meissen lo trovò una new entry dei party del signor Remington, una certa modella giovanissima, la quale era stata difesa da Astor in una causa legale. Sembrarono fare coppia fissa fino ad Halloween, al Ringraziamento di lei non se ne sapeva più nulla.

A Daphne un po’ dispiacque non vedere più quel pezzo di porcellana, era un oggetto a cui era legata, le ricordava la volta in cui il signor Abbott gli aveva presentato Astor. Era stato pochi mesi dopo il loro matrimonio, per Natale. Il signor Remington non era stato invitato alle loro nozze perché aveva passato un anno sabbatico in Thailandia. Il signor Abbott le disse dell’invito solo all’ultimo, aveva colto di sorpresa perfino lui.

“Cara, per il 22 dicembre non prendere impegni” le aveva annunciato con suspence.

“Come mai?”

“Siamo stati invitati ad una festa” le aveva detto gongolando, mentre stavano mangiando insieme di fronte al camino.

“Uh, ma che bello. E chi ci invita?”

All’epoca, la signora rispondeva con maggiore spensieratezza ad inviti del genere.

“Un mio carissimo amico di Harvard. Tu purtroppo non l’hai mai conosciuto perché sono due anni che non lo vedo, perché da quando si è laureato è sempre in giro. Ma l’avrei voluto davvero invitare al nostro matrimonio se non fosse stato in Thailandia”

“Quindi un altro avvocato.”

“Sì, ma è il migliore della sua contea in Pennsylvania. Si chiama Astor Remington.”

La signora Abbott aveva lasciato cadere le posate sul tavolo.

“C’è qualcosa che non va?”

Da lì, era iniziato il silenzio della signora Abbott riguardo ad Astor. Aveva pensato che per un’occasione, per una banale festa di Natale, non valesse la pena causare così tanto dolore a qualcuno che amava così profondamente. Il tema di quell’anno era il blu e per onorarlo il signor Remington aveva chiesto ai camerieri di tirare fuori tutte le sue porcellane di Meissen.

Alla signora Abbott fu un colpo al cuore tornare nella villa, ma allo stesso tempo le sembrò un allestimento favoloso: per distrarsi si convinse di trovarsi da Macy’s oppure a Bloomingdale.

L’ingresso era vuoto, ancora non erano arrivati altri invitati eccetto loro. Daphne era imbalsamata in un abito di velluto blu reale e a stento riusciva a seguire il marito che, tenendola per mano, le faceva da guida in quella villa che ella conosceva bene, come se ne fosse stato lui il proprietario.

“Vieni, vieni” le diceva, mentre i camerieri ancora sfilavano da una parte all’altra per allestire la tavola.

“Ma possiamo girovagare così senza il proprietario di casa che ci accompagni?” cercò di improvvisare la signora Abbott, più che altro per evitare di ritrovarselo di fronte come un fantasma.

“Astor, mi ha sempre permesso di venire nella sua villa quando volevo. Sai, questa una volta era la tenuta estiva della sua famiglia, ma lui ha deciso di vivere qui dopo Harvard.”

La condusse in un salottino riparato, dove c’era un grande tavolo da biliardo al centro e un puttino che danzava sui cristalli del lampadario.

“Siedi, pure lì” e le indicò un divanetto ricoperto di raso celeste.

“Tu immaginami qui a giocare con Astor, Charles, John e William.”

Il signor Abbott dava dei colpetti sconclusionati alle palline con l’asta, come se stesse giocando con le sue diverse personalità.

“Io e Astor eravamo quelli che perdevano sempre. E poi, c’erano le ragazze, le ragazze che venivano a vederci…”

Il signor Abbott si fermò subito e ci tenne a specificare:

“Tutte bruttissime, amore. Orribili. Piacevano per lo più ad Astor, comunque. Non avrà avuto una frequentazione seria quel ragazzo per tutto il college. Ma Astor lo devi conoscere, è un tipo. Se vedevi una nuova ragazza alla partita di biliardo, significava che di sicuro ci andava a letto insieme.”

La signora Abbott si guardava intorno e di quello che diceva il marito poco si curava. Ma non per cattiveria, perché piuttosto tentava di ricordare, la sala da biliardo non le era estranea per nulla, anche a sei anni di distanza. Il signor Remington doveva aver cambiato la moquette che adesso appariva più brillante, ma era tutto come anni prima. Un posacenere, forse, non c’era stato in precedenza. Un posacenere blu, porcellana di Meissen senza dubbio.

“E questo?” chiese la signora, esternando ad alta voce la sua curiosità. Afferrando quel piccolo pezzo d’antiquariato, lo scrutò con fare indagatorio.

“Tesoro, non saprei. L’ho sempre visto lì. Lo usava sempre Astor per i suoi sigari.”

“Lo usa sempre Astor per i suoi sigari” lo corresse una voce sull’uscio della porta.

“Astor!”

La signora Abbott impallidì e quasi non mollò la presa sul posacenere. Quando si voltò, trovò Astor Remington, invecchiato, non rasato, più impallidito di lei non appena la vide.

“Astor, ho il piacere di presentarti la mia signora, Daphne Abbott.”

Daphne si alzò impassibile e gli porse una mano, non troppo convinta di ciò che dovesse fare. Dal canto suo, Astor la guardò seriamente, con il disprezzo e il disappunto che solo un gioielliere, intento a valutare uno zircone spacciatogli per diamante, potrebbe avere.

“E bravo, il mio Botty. Ti sei accasato, vile furfante” si limitò a dire al suo compagno con fare sarcastico, badando poca attenzione alla mano tesa della signora, che allora ritrasse con grazia, senza dare nell’occhio.

Questo avvenimento fu ricordato più volte quel sabato del romantico weekend nella tenuta. Una volta compiuta la ricognizione, moglie e marito erano andati nella vicina cittadina di Mohnton a pranzare. Nella tenuta, com’era prevedibile non c’era nulla da mangiare e le cucine erano così attrezzate da sembrare quelle di un ristorante stellato, non avrebbero saputo neanche usarne i fornelli.

“E se ci trasferissimo qui?” propose il signor Abbott, addentando una patatina fritta.

“No, tesoro” gli aveva risposto la signora, ancora masticando.

“Hai la tua impresa di barche a vela a Providence, come fai? In Pennsylvania non c’è neanche il mare.”

“Hai ragione. Potremmo venire nei weekend.”

La signora Abbott continuò a mangiare facendo finta di niente. A volte, del sano silenzio faceva schiarire le idee al marito. Non quella volta.

“Sarà carino, così ci prenderemo del tempo per noi. Potremmo prendere un cane, portarlo a spasso nei boschi vicini.”

“E prenderesti un cane solo per portarlo qui?”

“Penso solo che è una casa stupenda e che la natura dei dintorni è mozzafiato”

La signora Abbott posò il suo panino sul piatto e prese un grande respiro.

“Amore, la tenuta è in rovina. E non possiamo permetterci di ristrutturarla. Sai che abbiamo pochi fondi e tuo padre non ti concede un prestito da anni, da quando hai smesso di praticare. Quei pochi risparmi che abbiamo li vogliamo investire per fare decollare la tua azienda, o no?”

 “Daphne, sono stanco della mia azienda.”

Per la signora Abbott era un fulmine a ciel sereno. Non solo perché le barche a vela erano state il sogno del consorte negli ultimi tre anni del loro matrimonio, ma anche perché in questo modo le toglieva l’alibi di ferro per non potersi trasferire nella tenuta.

“Ma cosa dici?”

“L’azienda non va e non vedo miglioramenti. Un’impresa di Newport vorrebbe rilevarla e dalla vendita ci potremmo fare un po’ di soldi. Quelli, uniti ai nostri risparmi e i soldi ricavati dalla vendita della casa a Providence, possono essere un buon punto di partenza per dare una pulita alla casa, sostituire qualche mobile tarlato, trasferirci qui e aprire così un bed and breakfast. Pensaci: questa potrebbe essere una buonissima attività.”

Daphne, per la seconda volta quella settimana, sentiva come se un treno l’avesse investita in pieno. Questa volta era più pesante, doveva trattarsi di un treno merci.

“E tu hai preso accordi con quest’impresa di Newport senza dirmelo?”

“Te ne avrei parlato questo weekend e lo sto facendo appunto adesso.”

Si fermò un attimo, poi aggiunse:

“Sai, è che con la morte di Astor… mi dispiace non avertene parlato prima. Mi è completamente sfuggito. Credo che anche questo evento abbia contribuito a farmi prendere questa decisione. Insomma, una cosa del genere fa riflettere. La vita è un attimo.”

“Non riesco a crederci” disse la signora Abbott, alzando gli occhi al cielo.

“Ti prego, Daph, dimmi qualcosa.”

Daphne tornò a fissarlo con i suoi occhi di ghiaccio, esausta, torchiata.

“E cosa vorresti farci con questo bed and breakfast, sentiamo? Dare feste a destra e a manca come faceva lui?”

“È un’idea stravagante, ma potremmo provarci. Richiamerà molta gente nella zona. Potremmo portare avanti la tradizione delle feste di Astor.”

“Okay, ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza.”

La signora Abbott si alzò di scatto dal tavolo, afferrò la borsetta al volo e uscì immediatamente dal fast food. Quello sembrava essere un inferno senza fine. Astor Remington doveva aver finalmente realizzato il sogno che non era riuscito a portare a termine in vita. Il sogno di farla finalmente crollare, sputare il rospo, ammettere quello che era successo. Del resto, era quello che aveva provato a fare proprio poco prima di scomparire.

Erano passati quattro mesi da allora, i coniugi Abbott l’avevano visto per l’ultima volta in via straordinaria per il compleanno di Astor.

Astor Remington non festeggiava mai i compleanni e molto spesso piuttosto se ne partiva, viaggiava chissà dove per riflettere sui suoi anni che avanzavano.

Ma quella volta era diverso, dichiarò che per qualche acciacco avuto nelle settimane precedenti, avrebbe avuto voglia di passare la giornata circondato soltanto dagli amici più intimi di Harvard. Su cinque amici, solo un altro loro compagno, William, si era sposato e la signora Abbott contò di poter conversare almeno con qualcuno che non appartenesse al loro circolo.

Dopo quel fatidico 4 luglio di tre anni prima, tra la signora Abbott e il signor Remington si erano intrattenute poche altre conversazioni:

“Oggi il tempo sembra essere delizioso.”

 “Direi perfetto.”

“C’erano molti ospiti gradevoli oggi, è stata veramente una bellissima serata.”

“Lo apprezzo. Tornate presto.”

Niente di più, niente di meno. Ma del resto, il signor Remington l’aveva detto:

“Se avesse rimesso piede in quella casa, sarebbe morta.”

E la signora Abbott, dopo quell’incontro, se lo ripeteva come una preghiera ogni qual volta lei e il signor Abbott suonavano il campanello dell’ingresso. Perché ricordò che esattamente, Astor, cacciandola dalla sua tenuta quell’estate prima dell’inizio del college, le aveva detto quelle esatte parole;

“Se rimetti piede in questa casa, sei morta.”

Non le aveva detto:

“Rimetti piede in questa casa e ti uccido”, come erroneamente le aveva ricordato quella sera in camera sua. “Se rimetti piede in questa casa, sei morta.”

Era vero: per la maggior parte del tempo, la signora Abbott era stata uno spirito inquieto in quella villa. Uno spettro che vagava, un poltergeist molesto che spostava le porcellane di Meissen.

Intrappolata per uno scherzo del destino a rivivere ancora e ancora e ancora quella crudeltà non consumata a Capodanno, giorno dell’Indipendenza, Halloween,

Ringraziamento e Natale. Forse, Astor lo sapeva, per questo aveva incominciato la frase con:

“Se rimetti piede in questa casa”. Doveva sentire che il suo lavoro non era finito.

D’altronde, chi potrebbe mai pensare che una ragazza della sua estrazione sociale potesse mai più mettere piede in una villa del genere senza un espresso invito.

Il giorno dell’ultimo compleanno di Astor non era stata imbandita una tavola, ma si sarebbe trattato di un aperitivo “per onorare i vecchi tempi”.

Fece preparare dei bicchieri di scotch e tutti si sistemarono nell’angusta stanzetta del biliardo. Sui divanetti sedevano solo la signora Abbott e il signor Hastings, il marito di William, che osservavano da lontano quella combriccola scalmanata di giocatori.

Il signor Remington sembrava aver un diavolo in corpo più dell’usuale, buttava giù un bicchiere dopo l’altro di scotch come se fosse acqua minerale.

“Quindi, dimmi, tu e tuo marito dove vi siete conosciuti?” aveva chiesto il signor Hastings.

“Dopo il college, sono stata segretaria nell’ufficio suo padre. All’epoca aveva appena iniziato a lavorare per il suo studio. Ci siamo frequentati per un anno e poi mi ha chiesto di sposarlo.”

“Quindi non l’hai conosciuto ad Harvard?”

“No, no, ho studiato anch’io Legge, ma la mia famiglia non poteva certo permettersi Harvard. Ho frequentato la Temple University a Filadelfia, era vicina e più economica.”

“Sei di questa zona allora!” esclamò meravigliato il signor Hastings.

“È curioso, perché non ricordo di averti mai vista”

Era una voce nasale che veniva dal tavolo di gioco. La signora Abbott si voltò e vide che era Astor.

Il gioco si era fermato ed era calato il silenzio nella camera. Il signor Remington prese lentamente un sigaro da uno scompartimento segreto del tavolo di gioco, se lo accese, poi si allentò il farfallino che gli cingeva il collo. Passava da un’azione all’altra con fare lento, sapeva che tutti gli occhi erano su di lui, grande mattatore di quella pièce teatrale.

“E dire che nelle mie estati ne ho conosciute molte di ragazze di qui. Tu devi essermi sfuggita.”

Ci fu un breve moto di incoraggiamento da parte di Charles, uno dei vecchi scapoli del gruppo, ma l’aria era talmente rarefatta che anche il suo “E lui sì che ne ha conosciute tante”, gli uscì fuori come un sibilo patetico.

La signora Abbott era confusa di quella sua ritrovata vivacità, tuttavia non si scompose.

“Diciamo, che veniamo da due mondi molto diversi.”

“Oh, e non è lo stesso mondo di Botty, il mio?”

“Con mio marito si è trattato di un colpo di fortuna” disse Daphne, incrociando lo sguardo del coniuge. Si sorrisero leggermente, ma non per troppo tempo, sentendosi sotto scrutinio.

“Deve essere stato il destino. Un destino squisitamente crudele, non è vero?” chiese il signor Remington, con un fare che voleva essere ironico, ma gli uscì proprio a modo suo, cinico e arido. Per correggere il tiro, diede una leggera pacca sulla spalla del signor Abbott, il quale lo guardò sorridente, anche se un po’ meno del solito, non riuscendo bene a capire dove volesse andare a parare con quei discorsi.

“Sai…” ricominciò Astor, emettendo un’enorme nuvola di fumo grigia.

“Adesso che ci penso, forse mi ricordo di te.”

La signora Abbott perse in maniera impercettibile la sua compostezza e sgranò un poco gli occhi.

“Già, non facevi la hostess l’estate al country club di Mountville?”

La signora Abbott si guardò intorno, d’un tratto le sembrò che tutti l’osservassero con sospetto, eccetto suo marito che, dal canto suo, credeva che quello fosse l’ennesimo scherzo del suo amico e intercettando i suoi occhi, scosse la testa intimandola di lasciarlo perdere.

“Non saprei dirti, ho fatto molti lavoretti estivi per permettermi il college.”

“Mmh” mormorò Astor, grattandosi le guance ispide.

La signora Abbott si rassicurò un poco, pensando che doveva aver costretto il signor Remington ad arrendersi. Questa volta, scorgendo un’occhiata fiera di suo marito, gli mandò anche un bacio invisibile con la mano, rapida, invisibile, quasi volesse celare il loro legame dal resto della sala.

“No, no, ricordo perfettamente. Era l’estate prima di partire per il college e tu eri una Junior.”

Astor agitava il sigaro con la mano e per poco non lo passò sul collo dell’amico John.

“Ma sì! Leggevi “Casa di bambola” di Ibsen nelle pause. Mio Dio, se eri lenta a portare i tè freddi! Però, eri in gamba, si vedeva che eri sveglia.”

Il signor Abbott drizzò per un attimo la schiena a sentire il titolo di quel libro. Incrociò nuovamente lo sguardo della moglie, quasi con fare confuso. Come faceva a sapere il titolo del suo libro preferito? Gliel’aveva detto per caso durante qualche festa e Astor si stava inventando tutto il resto sul momento?

La signora Abbott ricambiò, guardandola forse più confusa di lui. Questo lo rassicurò. Purtroppo, il signor Abbott non poteva sapere che stava scambiando la confusione per sorpresa, lo sgomento per paura.

“Penso, che hai bevuto troppi scotch, Astor. Dovresti rallentare” disse Daphne in un momento di panico, incapace di gestire la situazione.

“Forse, perché il mio maggiordomo me li porta più velocemente dei tuoi tè freddi” scherzò il signor Remington.

Questa volta tornò ad agitare il sigaro in aria, ma come in cerca di qualcosa, nel frattempo un grumo di cenere si addossava alla fine del sigaro.

“Diamine, dov’è quel posacenere? Non c’è un cazzo di posacenere in questa stanza?”

Il signor Abbott così gli porse il suo bicchiere.

“Tieni pure, butta la cenere qui. Io ho finito.”

“Bravo, Botty. Tu sì, che capisci il valore della condivisione.”

E mentre faceva cadere la cenere nel bicchiere, gli diede un’altra pacca sulle spalle massicce, questa volta più forte.

La signora Abbott, nel frattempo, non riusciva più a controllarsi, le palpitazioni dentro di lei crescevano ogni secondo di più. Aveva temuto che quel momento potesse accadere per cinque anni e adesso che correva il rischio che potesse succedere per davvero, non poteva permetterlo. Il pensiero che ogni giorno nella sua tranquilla casa con giardino a Providence potesse diventare Capodanno, giorno dell’Indipendenza, Halloween, Ringraziamento e Natale le faceva mancare il fiato.

Quando si alzò di scatto e disse che avrebbe portato al signor Remington un po’ d’acqua, tutti le diedero ragione. Persino lo stesso signor Remington, che l’apostrofò sull’uscio con un “e non metterci troppo”.

Di ciò che si dissero in sua assenza il signor Abbott e Astor, Daphne non indagò mai. Conoscendo suo marito, ipotizzò che con uno dei suoi splendidi sorrisi a mezzaluna avesse cercato di calmare Astor, chiedendogli cosa si stesse inventando per catturare l’attenzione generale. Perché d’altronde era di questo che si cibava il signor Remington: attenzioni, nient’altro che attenzioni.

Ma la signora Abbott sapeva cosa fare questa volta. Prese un bicchiere dal carrello degli alcolici in soggiorno e poi corse su per le scale, assicurandosi di non essere seguita da nessuno, evitando di commettere gli stessi errori di tre anni prima. Raggiunse la maniglia d’ottone con il leone inciso ma questa era purtroppo chiusa. Provò ad aprire tutte le porte del piano finché una non si aprì.

Era una piccola stanza degli ospiti, vi era solo un comò, un letto, una lampada e una porticina, che doveva portare sicuramente ad un bagno di servizio. Quando entrò all’interno, vide anche qui uno spazio angusto, ma perfettamente funzionale al suo piano, siccome vi era un armadietto dei farmaci.

Lo aprì, scrutò la scelta, prese dell’acqua ossigenata e ne riempì il bicchiere per un quarto. Poi, sentendo che l’odore era troppo forte, aprì il rubinetto e vi aggiunse un altro po’ di acqua naturale, sperando potesse camuffarne il tanfo. Rimise tutto a posto e cercò di sbrigarsi quanto più possibile a riscendere di sotto.

“Te l’avevo detto che ci avrebbe messo una vita” commentò il signore Remington al suo ritorno, per poi aggiungere: “Caspita, che schifo quest’acqua”.

“È quella del rubinetto” si giustificò imperturbabile la signora Abbott.

“Non sapevo dove fossero riposte le bottiglie dell’acqua.”

Fu soltanto sulla strada di casa quella stessa sera, che Daphne ragionò di aver probabilmente diluito un po’ troppo il veleno per poterlo rendere efficace. Si tormentò le unghie in macchina per tutto il tragitto, meditando se quella notte sarebbe andata a dormire da assassina o meno.

“Non dovresti dare retta ad Astor. Era ubriaco e sai che è eccentrico” disse il signor Abbott, mentre guidava.

“Scommettevo che l’avresti detto.”

“È la verità. Ormai sai come è fatto.”

Daphne abbandonò per un attimo la sua tortura fisica e si concentrò a fissare suo marito.

“No, non so come è fatto. Dimmelo tu.”

“Cosa intendi con questo?”

“Intendo che è un pessimo amico.”

“E perché lo dici? Perché è ricco e ha studiato ad Harvard? Beh, Daphne per tua informazione ti ricordo che anche io ho una buona famiglia e ho studiato ad Harvard.”

I momenti in cui il signor Abbott era piccato, o peggio, alterato erano momenti che avvenivano con così tanta rarità che spesso la signora Abbott li dimenticava.

“Non volevo dire questo. È che penso sia una mancanza di rispetto parlare così alla moglie di un proprio amico.”

“Su questo hai la mia piena comprensione e sono d’accordo con te. Ma ti ripeto aveva bevuto. Non è sempre così, lo conosci.”

“Sì, sì, lo conosco” mormorò Daphne appoggiandosi con la testa al finestrino. Attorno a lei, gli alberi del Connecticut le sfrecciavano vicino, saette furiose in una nottata glaciale.

Neanche una settimana e mezzo dopo, il signor Remington venne dichiarato scomparso. La notizia passò su tutti i telegiornali locali, i signori Abbott lo vennero a sapere solo tramite una chiamata di William.

“Il suo maggiordomo è tornato lunedì mattina, dopo essere stato ai funerali della zia nel weekend nel Maine” spiegò la voce metallica dell’amico al vivavoce.

“E non l’ha trovato. Ha aspettato quarantotto ore da protocollo e poi ha sollevato l’allarme alla polizia. Adesso, pensa possa essere stato colto da un malore durante una delle sue abituali gite del fine settimana.”

“Ma ha trentuno anni e gode di perfetta salute, è mai possibile?” si diceva con fare sconvolto il signor Abbott, mentre sua moglie lo guardava dall’altro lato del tavolo, questa volta in sincera apprensione, proprio come il marito.

Quel pensiero lo condivideva naturalmente anche lei e fu per questo che ebbe la certezza di essere diventata un’omicida. Il perossido di idrogeno doveva avergli causato qualche problema, qualche ulcera magari. Forse, gli aveva perforato la parete dello stomaco o dell’intestino e provocato un’emorragia interna improvvisa e fatale.

Per mesi, si raccontò questo, ogni volta che il signor Abbott chiamava i suoi compagni di Harvard per avere aggiornamenti o che accendeva la televisione, invano, sperando che dessero la notizia anche sulle reti di Rhode Island: lei aveva ucciso Astor Remington.

Non era una narrativa che le piaceva, ma era una storia che si ripeteva per sentirsi al sicuro, per darsi il conforto che non sarebbe più tornato. Eppure, c’era un sogno ricorrente che faceva ogni notte: una domenica, nella quiete della casa in cui c’erano soltanto lei e suo marito, suonavano alla porta. Aprendola, si ritrovava di fronte Astor, più vivo che mai, con le sue labbra sempre un po’ livide dal freddo della Pennsylvania e il suo cravattino nero al collo. La salutava con un “Oggi il tempo sembra essere delizioso”. Dopodiché, si accomodava nel suo salotto, portandosi appresso una schiera di modelle, avvocati, imprenditori da strapazzo e avventurieri quale era il suo seguito. Si mettevano a ballare sui suoi divani, sul suo tavolo della cucina, alcuni spostavano i suoi vasi di design.

L’incubo solitamente terminava con quello che sembrava essere piuttosto un ricordo vivido, il braccio di Astor che le circondava i fianchi, lentamente, da vero serpente costrittore. Era a quel punto del sogno, che spesso si svegliava d’improvviso respirando a fatica.

Nessuno dei coniugi Abbott seppe del ritrovamento del cadavere di Astor, se non attraverso un messaggio del signor Hastings, in cui comunicava che il marito era stato chiamato dall’obitorio per identificare un cadavere ritrovato in un burrone nel Connecticut. Strangolato e mutilato dei genitali.

“Il tempo e l’umidità del suolo avevano fatto gonfiare il corpo come un palloncino”, gli aveva detto William. Lo aveva riconosciuto solo dalla statura e dal cravattino a scacchi che metteva sempre. Con sé non aveva documenti, né il portafoglio, perciò era chiaro agli inquirenti che si fosse trattato di una rapina. 

Della fama del signor Remington non rimaneva che un trafiletto nel The Philadelphia Inquirer: “ereditiere scapolo, Astor Remington, trentuno anni, trovato morto da un reverendo battista nei pressi di Hartford. La vittima risultava scomparsa da quattro mesi”.

I dettagli della morte del signor Remington non bastarono a cancellare il senso di colpa di Daphne, la quale era convinta che nella dinamica dell’incidente dovesse comunque essere stata coinvolta anche lei in qualche modo. L’autopsia aveva infatti rivelato delle ulcere sospette all’apparato gastrico.

Ma la signora Abbott, aspettando il marito in un parcheggio disperso chissà dove in quel di Mohnton, non poteva ancora sapere che due giorni dopo, finiti gli accertamenti clinici, i medici legali le avrebbero attribuite all’uso sregolato che faceva Astor del ketorolac, a seguito di un periodo di acuta emicrania.

“Le chiavi ce l’hai tu!” aveva risposto la signora Abbott mestamente, facendo spallucce in maniera infantile, appena vide arrivare suo marito alla macchina. Sembrava che il suo nervosismo fosse scomparso, ma il signor Abbott sapeva bene che fosse solo apparenza.

Quando furono di nuovo dentro al loro pick-up, al riparo da quel colpo di coda di freddo che solo gli aprili della Pennsylvania sanno restituire, il signor Abbott non si prese la briga di far partire subito l’auto. Aspettò e Daphne sembrò non opporsi a questa scelta. Se ne stava con il capo chino, sembrava non avere voglia neanche di allacciare la cintura.

“Era l’estate del mio secondo anno di liceo” aveva iniziato la signora Abbott, mantenendo lo sguardo sul tappetino del sedile dell’auto. Il signor Abbott non seppe dire con precisione se stesse piangendo o meno.

“Io lavoravo al Mountville Country Club per mettere su dei risparmi. Mio fratello ci aveva lavorato l’anno prima, così mi aveva scritto delle raccomandazioni per entrare. I Remington erano clienti abituali del Mountville e mentre il signor Remington giocava a golf e la signora Remington stava alla spa, Astor veniva al lounge bar dove ero stata assunta come cameriera” si fermò, ricomponeva ricordi, costruiva le frasi adatte nella sua mente.

“La prima volta che vidi Astor era da solo. Saranno state le dieci del mattino. Si sedette al bancone e ordinò del tè freddo alla pesca. Io non sapevo chi fosse, per me tutti i ragazzi di quel posto erano uguali. Leggeva “Casa di bambola” di Ibsen e per fare conversazioni gli chiesi di cosa parlasse, lui mi rispose che era la trascrizione di uno spettacolo teatrale. Parlava di una donna intrappolata in una casa e in un mondo dominato dagli uomini. Poi, mi disse che avrebbe voluto fare l’attore, ma che sarebbe finito a diventare un avvocato come il resto della sua famiglia. Non so neanche dirti se scherzasse, se fosse una cazzata delle sue. Però a me parve sincero, così mi prestò il libro e diventammo amici.”

Fu interrotta da un singhiozzo, il viso le divenne grinzoso come quello di una maschera greca. Prese fiato e si corresse:

“Almeno, credo lo fossimo fin quando non arrivava la sua comitiva. Era diventata un’abitudine che venisse prima degli altri suoi amici di scuola per fare colazione. Lui mi raccontava delle imprese folli della sera prima, delle partite di football e quelle di basket. Io gli parlavo di quello che avevo visto durante i miei turni al bar, le facce che erano entrate, chi aveva portato le loro amanti. E molto spesso facevamo gossip da brave comari di paese.”

Rise appena.

“Poi, i suoi amici entravano e da prassi si allontanava dal bancone. Allora, per nostro espresso accordo, sapevo che le uniche altre interazioni che avremmo avuto durante la giornata sarebbero state quelle in cui mi chiamava con un cenno della mano per ordinare qualcos’altro. Nonostante questo, pensavo di potermi fidare di lui, era l’unica persona amica che avevo lì dentro.”

Il signor Abbott se ne stava ad ascoltare attento come uno psicologo, gli mancavano il taccuino e gli occhialetti poggiati sul naso. Con fare indagatore passava i suoi occhi stretti e scuri dalle mani di Daphne al suo volto, cercando di cogliere il subconscio, di interpretare quegli elementi di cui neanche lei era a conoscenza.

“Un giorno verso la fine dell’estate” continuò la signora Abbott “Venne da me e mi invitò alla festa in occasione della sua partenza per il college, presso la sua villa di famiglia. Gli dissi che i miei sicuramente non mi avrebbero lasciata venire, così mi propose di servire come cameriera per il catering. Non avrebbero potuto dire di no a un lavoro pagato. Durante la serata, non servii quasi mai, me ne stetti tutto il tempo nella sala da biliardo, con Astor e i suoi compagni di liceo che fumavano e bevevano. Lo vedevo strano, non l’avevo mai visto così su di giri. Veniva spesso accanto a me, mi accarezza il braccio o il viso con una scusa. Io a quel punto facevo finta di essere stata richiamata dal mio capo e mi allontanavo. Facendo parte del catering, dovevo restare fino alla fine della serata, non me ne sarei potuta andare via prima. Terminata la festa, gli ospiti se ne erano andati ed eravamo rimasti nella tenuta solo io, il mio capo e Astor. Passai nella saletta da biliardo per salutarlo, augurargli buona fortuna. “Questa sbornia domani mattina te la fai passare con un bel po’ di acqua tiepida e sale” avevo detto, vedendolo spiaggiato sul divanetto.

“Ah sì? E che rimedio è?”

“Un rimedio di mia nonna.”

Così, mi aveva chiesto di restare a dormire lì quella notte e di prepararglielo io stessa l’indomani.

Declinai l’invito, perché il mio capo, Hector, mi stava aspettando in macchina per darmi un passaggio a casa. Si alzò e richiese allora un abbraccio d’addio. In quella sua condizione, io avrei preferito evitare, ma pensai che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che l’avrei visto e non seppi tirarmi indietro.

Sembrò passare un’eternità. Cominciò ad annusarmi i capelli e nel frattempo cercava di immobilizzarmi, tenendomi le mani forti sulla vita. Lo scansai, gli dissi di “no”. Ebbene, lentamente mi cinse i fianchi di nuovo con un braccio e mi tirò stretta a sé. “Secondo te, veramente avrei potuto essere amico di una pezzente senza ottenerci nulla in cambio?” mi sussurrò all’orecchio.

Io, istintivamente, gli pestai un piede e mi liberai.

Non so ancora neanche come feci ad avere quella lucidità, fu un attimo, avevo inserito il pilota automatico. Gli unici ricordi sfocati che ho sono la mia corsa verso la porta e la voce di Astor che da lontano mi gridava:

“Se rimetti piede in questa casa, sei morta.”

Non parlai a nessuno dell’accaduto. Solo Hector, in macchina, dovette aver capito qualcosa, perché mi disse, davanti casa:

 “Il signorino ha bevuto. Non avrebbe voluto girargli attorno troppo. Ringrazia che non ti è andata peggio.”

Quella fu la notte più brutta di tutta la mia vita”

A quelle parole, non era necessario aggiungere nulla. Il signor Abbott voleva naturalmente chiederle perché non gli avesse mai riferito nulla al riguardo, ma si trattenne. Reputò non fosse necessario. Le accarezzò soltanto i capelli per farle capire che le era vicino, che le offriva conforto incondizionato.

“Ho portato così tanta rabbia nei confronti di Astor per così tanto tempo che poi ho capito si trattasse di un senso di lutto. Avevo perso l’amico che credevo di avere e che non era mai esistito. E nel frattempo, non avevo voglia di parlarne con nessuno perché temevo mi si potesse dare della bugiarda, della puttana. Magari, ero stata troppo ingenua, troppo accomodante.”

La signora Abbott gradualmente si sentì ritornare al presente.

Il sole tiepido illuminava il suo lato dell’auto e lo specchietto rifletteva un fascio di luce proprio sotto i suoi occhi. Ricordò, ricordò gli ultimi quattro mesi, un’epifania attonita, nuova.

Scattò dritta sul sedile e guardò il marito.

“L’ho ucciso io Astor! L’ho ucciso io, capisci? Non volevo farlo, te lo giuro. Volevo solo che si stesse zitto. Quando per la prima volta mi parlasti di Astor, di come eravate compagni ad Harvard, io mi feci la promessa di non dire una parola neanche a te. Non volevo che tu perdessi un amico a te così caro, come era stato per me. Ma poi quei Capodanni, quei Ringraziamenti, erano il simulacro di quello che avevo vissuto. E io morivo un pochino ogni volta. Non volevo ricordare quello che mi era accaduto anche fuori le mura della tenuta Remington, a Providence, a casa nostra. Se tu avessi saputo, te l’avrei letto per sempre nei tuoi occhi, il dolore per quello che mi era successo e il dolore che fosse stato Astor a farlo. Così, quando il giorno del suo compleanno ha cominciato a blaterare sul country club, io gli ho messo del perossido di idrogeno nell’acqua. Capito, amore? Non sono andata in cucina, ma sono corsa su al secondo piano ho aperto una porta a caso e ho pregato Dio che mi facesse trovare un qualche veleno in quella dannata casa. Non era una dose fatale, era diluita con l’acqua del rubinetto. Ma deve avergli causato un’infiammazione, deve averlo mandato in peritonite. Si sarà accasciato a terra e qualche matto del Connecticut deve avergli dato il colpo di grazia. Ti giuro che quando siamo ritornati dalla villa quell’ultima volta, volevo parlartene, confessare il mio misfatto. Ma tu poi sei partito nel weekend per quel raduno di barche a vela ad Atlantic City e non me la sono sentita. C’è stato un momento in cui per davvero ho alzato la cornetta del telefono per chiamarti, Richard, puoi credermi. Ma sono stata vigliacca e ci ho rinunciato.”

Daphne era scoppiata a piangere di nuovo e questa volta era inconsolabile. Batteva i pugni sul cruscotto, era in iperventilazione.

Il signor Abbott si slacciò la cintura dell’auto e la trasse a sé abbracciandola per tranquillizzarla.

“Non ti preoccupare, va tutto bene. Non ero ad Atlantic City quel weekend, tesoro. Sono stato ad Hartford.”

La moglie gli si era accasciata sul petto e adesso respirava con lentezza, come un gattino mansueto.

“Ero ad Hartford, tesoro.”

Post a Comment