DI LÀ C’È IL DETECTIVE di Paolo Geros
Genere: Thriller
Prefazione
Questi racconti, più che altro autobiografici, sono divisi in tre parti:
- il periodo dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza;
- il periodo universitario a Bologna;
- la mia esperienza di investigatore privato e di uomo.
«Sono uno scrittore!» ho deciso di definirmi così il giorno del mio ultimo compleanno.
Scrivo da quando avevo i calzoni corti. Non all’inglesina come, in un certo periodo, avrebbe voluto mia madre. Dei calzoni tubolari che arrivavano al ginocchio. Mio padre, nativo della Calabria, li chiamava calzoni alla zumbafuss (saltafossi).
A sedici anni hanno pubblicato un mio raccontino sul giornaletto Sadik, nato dopo il successo di Diabolik.
Ai tempi del DAMS a Bologna, su un periodico locale, erano usciti alcuni miei raccontini.
Alcuni sono stati rielaborati e compaiono in questa raccolta.
Sto divagando, parlando (sì lo so che sto scrivendo) a ruota libera, ma questa scrittura, ricca di associazioni libere, è simile a una serie di sedute psicanalitiche.
«Scrivo da una vita!» però non mi sono mai cimentato nella stesura di un diario.
Questo libro di racconti inizialmente doveva essere una specie di diario.
Poi, ho cambiato idea.
Scuola di scrittura
A proposito dei puntini sospensivi ci fu una discussione fra me e il mio amico Luca che sosteneva, leggendo una bozza di un mio romanzo, ne facessi un uso smodato.
Lui non li usa per nulla.
Mi accorsi che Luca aveva ragione, effettivamente ce n’erano troppi. Ma se, ad esempio, in un discorso diretto, devi rappresentare una sospensione, che fai? Queste forse sono minuzie tecniche, ma hanno una certa importanza.
Corso di scrittura, solita associazione libera.
Il corso di scrittura l’ho frequentato prima, o meglio, mentre stavo rielaborando ‘Non puoi uccidere’. Un insegnamento mi è molto servito, riguarda l’andare a capo. Punto a capo è, per semplificare, qualcosa di più di un punto. Non sono un teorico, né un saggista; definirmi un empirico? Può essere.
All’inizio di questa sorta di diario c’è fra parentesi: saltafossi; vai a capo, perché nella frase successiva c’è un netto salto temporale. Sì, è vero la si trova anche qui, sei righe sopra, ma l’esempio precedente è più efficace…A capo!
Il corso era tenuto dallo scrittore Saul Montanari.
Delle sue lezioni ricordo più di tutto:
“Lo scrittore usa gli avvenimenti, negativi o positivi che gli accadono, per utilizzarli un domani nelle sue opere. La fidanzata ti sta lasciando? Soffri, ma oltre al dolore che provi pensi a come potrai descriverlo in una tua creazione.”
Non sono le parole precise, ma il senso è questo.
La fidanzata ti sta lasciando
Ricordo Eleonora, la mia prima ragazza (allora il termine fidanzata era tabù).
Avevamo entrambi quindici anni e siamo stati insieme qualche mese.
Mi lasciò al palazzo del ghiaccio di Milano.
Trascorsi diversi anni, ripensandoci, trovavo la cosa addirittura divertente: palazzo del ghiaccio, un ideale, simbolico luogo adatto ad un abbandono. Ho un’immagine di me stesso adolescente, mentre mi sto levando i pattini da ghiaccio e ascolto Eleonora che mi dice:
«Sei un ragazzo carino, mi piaci ancora, ma non sono più innamorata di te.»
Perché aveva scelto proprio quel momento e quel luogo per lasciarmi?
Almeno tre decenni dopo, incontrai a cena da amici, la zia di Eleonora. Le chiesi sue notizie, mi ripose che era morta all’età di quarantasette anni, proprio come mio padre.
Antonio mio padre era il terzogenito di sette fratelli e una sorella: Carmela, l’ultima nata e l’unica tuttora in vita.
Il primogenito emigrò in Argentina (non l’ho mai conosciuto), il secondogenito morì a circa vent’anni; quindi, mio padre era considerato dai suoi fratelli come fosse il primogenito.
Nato nel 1919 a vent’anni fece il corso di allievi ufficiali e, allo scoppio della guerra, fu destinato, come sottotenente guardia di frontiera nella provincia di Cuneo.
Fece tutta la guerra compresa la cobelligeranza dopo il ’43 con l’esercito americano.
Nell’agosto del ’65 si ammalò di cancro all’intestino ileo e morì all’inizio di maggio del 1966, dopo nove mesi di atroce sofferenza.
È un lutto che ha segnato la mia vita e la mia formazione come uomo. Di questa sofferenza non voglio parlarne, almeno per ora.
È noto che l’esempio e il confronto col padre determina la nostra formazione come uomini. Lo si vede anche nelle piccole cose.
Da ragazzo, mi usciva sempre la camicia fuori dai pantaloni.
Avevo circa venticinque anni, ospite da diversi mesi del mio amico de Bellis a Bologna. Lo vidi una volta con una t-shirt infilata negli slip. Ecco come si poteva mettere una maglietta (quindi anche una camicia) per impedire che uscisse di fuori.
Tempo dopo, sempre con amici bolognesi, mi trovavo a fare una settimana bianca. Uno di loro mi fece notare, mentre mi radevo, che sbagliavo a fare il contropelo.
Il padre
Il padre…. mi viene in mente quello del mio amico d’infanzia Luca, di cui parlavo prima.
Spesso in estate le nostre due famiglie andavano in vacanza a Forte dei Marmi.
Il mio ricordo di quegli anni è legato alla via Canova, nella parte nord del Forte, rione Vittoria Apuana. Una via bellissima, pini marittimi che facevano un’ombra naturale, piacevolissima anche in piena estate.
A noi ragazzini era vietato usare la bici a Milano. Ci sfogavamo con frenetiche pedalate nei giorni delle nostre lunghe vacanze estive che cominciavano la seconda settimana di giugno e terminavano alla fine di settembre.
In via Canova, quasi in fondo, sul lato destro, c’era la casa del nonno di Luca, detto Ninò. Il celebre pittore Giuseppe Migneco che per la sua civetteria d’artista e di uomo maturo non sopportava di essere chiamato nonno. Lo ricordo ormai ottantenne.
Andai a trovare Luca nella villa dei nonni a Sirtori in provincia di Lecco.
Passeggiando nel suo giardino amabilmente conversai col Ninò, incuriosito dal mio lavoro di detective privato. Forse gli raccontai di qualche pedinamento, allora ne facevo parecchi.
La famiglia di Luca era come una seconda famiglia per me. La nostra amicizia prenatale. Sì, proprio così, le nostre madri si erano conosciute quando erano entrambe incinte di noi; nati a due mesi giusti di distanza, lui il diciotto di giugno, io quello di agosto.
Come mi sfotteva Luca quando compì quattordici anni; lo stronzo mi chiamava tredicenne. Che fretta di crescere allora! E io lo ricambiai con gli interessi al suo compimento dei quaranta e dei cinquanta.
È ovvio con l’andar degli anni si vorrebbe che il tempo si fermasse, o procedesse a ritroso. Mia nonna Anna diceva sempre che avrebbe voluto tornar giovane, ma con l’esperienza acquisita negli anni. Spesso mi sono chiesto se il suo sentire sia da me condiviso. Tanto non è possibile, ma ricominciare tutto da capo, come in un videogioco, forse non sarebbe male.
Le nostre vacanze al Forte erano caratterizzate da scorribande in bici e da giochi come nascondino che duravano dalle due del pomeriggio al tramonto. Come ci divertivamo!
Per molti anni prendemmo in affitto una casa in via Francesco Ferrucci, una via adiacente alla via Canova, dove era appunto la villetta Migneco.
Una volta, non so se io, mio fratello o entrambi rivolgendoci al padre di Luca, uscì fuori l’appellativo: ‘Signor papà di Luca’.
«Chiamatemi Gianni o Mantesi…Chiamatemi come vi pare, ma non signor papà di Luca. Anch’io ho un nome!» fu la sua memorabile battuta.
A tredici o quattordici anni, sempre in vacanza al Forte, io e Luca ci dedicammo alla stesura di un soggetto-sceneggiatura.
Ricordo ancora il quaderno grigio-verde a spirale su cui lo scrivemmo. Contavamo di girarlo con una cinepresa di otto mm. Chiedemmo al ‘signor papà di Luca’ se fosse disposto a impersonare il nostro protagonista. Gianni lesse una scena iniziale che si sarebbe dovuta girare in un cimitero d’automobili. Sembrava fosse sul punto di acconsentire a impersonare M (il protagonista), ma quando gli capitò sotto gli occhi una scena che avremmo dovuto girare nel centro di Forte dei marmi, si rifiutò categoricamente:
«Se mi vedesse qualche mio collega penserebbe: Poraccio, guarda questo! Come s’è ridotto, s’è messo a lavorà coi regazzini!» sbottò.
Era un attore e regista teatrale di una certa fama, ma forse era un pretesto:
«Come? Sono in vacanza a riposare e quel rompiscatole di mio figlio e il suo degno amico mi vogliono trascinare a fare il pagliaccio nel centro del Forte? C’è rischio davvero che qualche attore o regista mi veda davvero.»
Amore litigarello
Giovanni Battista Marchesini in arte Gianni Mantesi è il marito di Grazia Migneco, una donna eccezionale che considero una specie di zia e forse qualcosa di più. Anche ora nonostante l’età avanzata, la sua energia vitale, la freschezza intellettuale, il suo impegno nel sociale, dovrebbero essere d’esempio alle generazioni successive.
Gianni e Grazia sono una coppia ben assortita nella vita e nell’arte. Un amore profondo che li lega da oltre un sessantennio. Quest’amore così bello è, ma soprattutto è stato, litigarello.
Quando vivevano nell’appartamento vicino a casa mia in zona Vigentina una volta litigarono furiosamente, Gianni uscì sbattendo la porta di casa, pronunciando le parole:
«Esco, me ne vado! Non mi vedrai mai più!»
Arrivato giù. guardava verso il balcone, voleva vedere se Grazia s’affacciava.
La vide.
Gli faceva un segno con l’indice della mano destra, come quello che fa Stanlio a Ollio e Gianni tornò a casa.
L’investigatore privato
Gianni aveva lavorato anche in televisione in quelli che allora si chiamavano sceneggiati a puntate. L’originale televisivo, così si definiva a quei tempi una fiction creata ex novo. Lo sceneggiato (tipo i ‘Promessi sposi’ di Bolchi) era in genere tratto da un classico, da un romanzo avventuroso e così via.
L’originale televisivo che ricordo di più è quello in cui impersonava un delegato della polizia svizzera. Veniva trasmesso dalla televisione della Svizzera italiana che, a quei tempi, insieme a Capodistria e Telemontecarlo, erano le uniche alternative alla programmazione della RAI.
Ricordo la battuta del primo Fantozzi teledipendente all’apparire della sigla conclusiva dei programmi RAI: “La Svizzera, la Svizzera!”
Parlando con Luca, tempo fa, mi disse che in uno degli sceneggiati in cui aveva lavorato c’era anche il famoso detective privato Tom Ponzi, mi pare di ricordare che era il commissario Sciancalepre.
L’investigatore privato ho cominciato a farlo all’inizio degli anni Ottanta, allora il Ponzi era molto noto in Italia. Quando dicevo (con un certo orgoglio, lo ammetto) che facevo il detective privato, quasi sempre il mio interlocutore tirava in ballo Tom Ponzi, provocandomi un certo fastidio, visto le sue idee politiche dichiaratamente fasciste.
Tom Ponzi, anche negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, in Italia, era considerato l’investigatore privato per antonomasia. Oltre alle sue idee politiche, saltava agli occhi la sua stazza XXXL.
Io, che allora ero un po’ sovrappeso, mi sentivo contemporaneamente dare del fascista e del ciccione.
Manzi del Piemonte
La nuova direttrice aveva portato lo scompiglio nella scuola dell’estrema periferia milanese non lontano dal parco Lambro.
Nelle riunioni con gli insegnanti si parlava di: ‘scuola attiva’, abolizione dei libri di testo, tema libero, giornalino fatto dai bambini e stampato col ciclostile.
La Montessori? Forse qualcosa di più: il Movimento di Cooperazione Educativa, di cui il nuovo dirigente scolastico era attivo esponente.
Fra le maestre c’era chi faceva finta di niente. Non si azzardava, cioè, a commentare l’impressione che il nuovo dirigente scolastico, con idee a dir poco innovative, aveva fatto su di lei. Ma in cuor suo è probabile pensasse:
“Si stava meglio quando c’era lui.”
No, non il duce, il precedente direttore didattico.
Per i maestri il caso era diverso, erano solo tre: Pumpo, Malpezzi e Manzotti.
Allora, negli anni Sessanta, il concorso fra persone di sesso maschile e femminile era separato. I maestri erano pochi, quindi favoriti. Superare il concorso per un diplomato alle Magistrali, è ovvio, era più facile. Insomma, c’era una sorta di quota azzurra privilegiata. Pumpo era meridionale, gli altri due settentrionali. Con loro, quasi tutte le maestre, parlavano già poco, figuriamoci se si azzardavano a esprimere giudizi sulla nuova direttrice.
Pochissime insegnanti, comunque, dicevano apertamente anche alle colleghe di essere dalla parte del loro superiore.
Pumpo era un piccolo meridionale poco più che quarantenne, da una ventina d’anni a Milano. Al bar gli amici lo chiamavano: terun.
Amici? Più che altro conoscenti con cui non legava molto. Anche al paese aveva l’abitudine d’andare al bar; Lambrate non era forse un vero e proprio paese? E di terroni come lui ce n’erano parecchi e lo sfottò, tutto sommato bonario.
Pumpo si era ormai da tempo abituato e non provava l’astio dei primi tempi, quando serrava i pugni e avrebbe voluto colpire per far male, molto male a chi lo derideva. Era considerato una persona pacifica, non una testa calda. Qualche sberla a sua moglie, quando proprio gliele cavava dalle mani. Era piccolo, ma forte. Le poche volte che aveva colpito la sua consorte, non ci aveva messo tutta la forza. Che diamine, sapeva controllarsi!
Con i figli no, era diverso. Come genitore si poteva definire severo, ma riteneva d’esser giusto. Li avvertiva: cartellino giallo, come per l’ammonizione del calciatore falloso. E poi la seconda volta, se il figlio persisteva, giù uno sberlone. Beh, non certo con tutta la sua forza micidiale. Da ragazzo aveva tirato di boxe come dilettante.
Manzotti era tutto un altro tipo, piccolo anche lui 1,65 (tacchi delle scarpe compresi), pelato, dei grandi baffoni a manubrio. Assomigliava a un caratterista che c’è spesso nei film di Stan Lauren e Oliver Hardy. Avete visto ‘Via convento?’ No? Cercate su Google. Il Manzotti di quel film è il padre della donna che Ollio deve sposare. A parte questa spiccata somiglianza era uno dei bravi maestri di una volta. Insegnava le materie scolastiche, ma col suo esempio di persona pratica e positiva, contribuiva non poco a formare quelle giovani menti. Diversi suoi ex-allievi venivano a trovarlo a scuola e lo ringraziavano per come li aveva educati. Manzotti non diceva niente neanche a Malpezzi che trattava con familiarità perché costui, di qualche anno più vecchio, come lui aveva fatto tutta la guerra, la seconda, mondiale.
Malpezzi era un pezzo di marcantonio alto quasi un metro e novanta e, nonostante passasse i cinquanta, per niente curvo come capita spesso agli uomini di quell’altezza. Era taciturno coi due colleghi maschi, figuriamoci con le maestre che lo guardavano con timore reverenziale.
Ecco la direttrice in ispezione nella classe del Pumpo.
Il piccolo maestro intima il silenzio; nella classe non si sente volare una mosca. Sì, sapeva farsi rispettare. Qualche sberlone (sempre senza metterci tutta la sua forza) non lo lesinava. Col consenso, non tacito, ma proprio palese dei genitori. Erano gli anni Sessanta, non gli Ottanta dei decreti delegati, con genitori che, bene o male, avevano sempre da ridire sul maestro (spesso anche allora una maestra, ma non più concorsi disgiunti), sul direttore, il segretario, il bidello.
Quest’ultimo, per quegli strani eufemismi italiani, veniva chiamato commesso. La parola bidello era forse un affronto al suddetto lavoratore? Cosa c’entrava un commesso col personale non docente? Non si sa. Faceva le commissioni, oltre alle pulizie, è questa l’origine del nome? Fare le commissioni di certo e meno dequalificante che pulire la scuola, cessi compresi. Lo devi fare, ma non sei un bidello, bensì un commesso.
Oggigiorno, siamo tornati a bomba nei nostri anni Dieci, per un posto di bidello, pardon commesso (si dice ancora così), metterebbero la firma molti neolaureati, sia in materie letterarie che scientifiche. Il posto sicuro, comunale o statale che, a meno che non molesti o picchi gli scolari, nessuno ti può togliere.
Ecco, dunque, la giovane direttrice nel silenzio della classe quarta di Pumpo.
I bimbi in silenzio la guardano:
“Com’è bella la signora direttrice” molti di loro certo lo pensano.
Avrà più o meno l’età delle loro mamme o delle loro zie. Com’è diversa! Una vera Signora. Lei nota una scritta:
‘Asini’ alla sinistra, dove siedono la maggior parte degli scolari. E sulla destra un’altra scritta: ‘I migliori’.
La donna trasecola, guarda dritto in faccia il maestro già sulle spine, e gli dice.
«Cos’ha fatto, Pumpo?»
«Ma…signora direttrice» balbetta il malcapitato «io…» non trova le parole, suda e siamo a marzo, non fa centro caldo, tutt’altro.
«Io cosa?»
«Lei mi ha detto di…»
«Fare queste scritte?
«No, ma io credevo di fare com’ha detto lei.»
«Sì, sì, Pumpo, ne parliamo più tardi. Venga in direzione durante l’intervallo di ricreazione. E levi quelle scritte.»
«Tuttedue?» «Certo.» «Ora?»
«Immediatamente.»
«Sì dottoressa.»
Il Pumpo, improvvisamente, si è ricordato che la direttrice è laureata in Filosofia e il titolo le spetta di diritto. Forse, crede, chiamandola in modo appropriato di riuscire a mitigare la lavata di capo che fra poco riceverà.
Esegue confuso l’ordine del suo superiore.
Cos’ha sbagliato? Non sa.
Intanto un brusio cresce e piano si alimenta. Gli pare d’udire anche qualche accenno di risata, ma non ha neanche la forza d’intimare il silenzio. Ha diviso la classe in due quartieri: dei ciucci e dei bravi. Non è forse questa la scuola attiva.
Cereda è un uomo d’altri tempi di altezza e corporatura media, la barba ben curata a pizzo e degli occhi piccoli scuri, spiritati che ti fissano a fondo.
Qualcuno dice che assomigli a Pirandello. A lui non dispiace che rilevino questa somiglianza, anche se il grande scrittore era un meridionale e lui settentrionale, piemontese.
Ritiene d’avere una certa cultura, di essere insomma un erudito e ne fa sfoggio. È un po’ fissato sull’etimologia dei nomi.
Tratta la direttrice di Lambrate con tolleranza. Nuove idee e metodi didattici? Era giovine ed entusiasta. Se non si è innovativi o addirittura rivoluzionari da giovani, quando lo si è? L’importante è che rispettino tutti le regole e le autorità, come lui ad esempio. Inoltre, la direttrice è una bella donna e il Cereda non è insensibile al fascino femminile. Per carità senza mai permettersi niente di più che una certa galanteria da bon vivant.
Eccolo in ispezione a Lambrate. La direttrice gli presenta il corpo insegnante.
Arriva il turno del maestro Manzotti.
«Le presento il signor Pietro Manzotti.”
Cereda lo guarda, ma non sa cosa dire:
«Manzotti? Ehm, Manzoni, manzi del Piemonte!»
Nota: Faccio presente che i due episodi del quartiere degli asini e dei manzi del Piemonte sono veri, me li ha raccontati mia madre la direttrice del racconto.
La mia nonnina
La mia non era proprio una nonnina, una dolce vecchierella che fila.
Certo faceva i lavori a maglia. Soprattutto per me e qualcosina per mio fratello. C’era un tempo in cui lei e sua figlia, zia Mariangela detta Lalla, preparavano: pullover, sciarpe varie, completini per bimbi e li consegnavano a un negozio di Milano, ubicato nella centralissima Galleria Vittorio Emanuele.
Su mia nonna materna Anna ci sarebbe da scrivere parecchio. La sua vita, le sue peripezie potrebbero essere spunto di un romanzo. Che dico? Di una saga.
Le idee affollano la mia mente, i suoi detti, i suoi proverbi, le sue allocuzioni. Non ho mai sentito da nessun’altro pronunciare il perentorio:
«Fatto sta ed è.»
Ricordo le sue storie, sempre le stesse. Trascorsi gli anni, le sapevo ormai tutte a memoria, ma sempre mi faceva piacere riascoltarle.
Mi sedevo di fronte a lei. Fra di noi quel vecchio tavolo di legno chiaro di forma ovale, un tempo nel tinello di casa nostra.
Nonna Anna mi raccontava di sua madre (la bisnonna Irene). Le diceva che, quando era nata lei, erano suonate le campane. Per forza, era mezzogiorno! Poi soggiungeva:
«Mi sun battezzà in San Babila.»
Sanbabilina, la sfottevamo io e mio fratello. Venivano definiti sanbabilini i fascisti che stazionavano perennemente in piazza San Babila, zona of limits per noi sinistrorsi.
La bisnonna Irene abitava in centro, non perché fosse una signora, ma una sarta degli sciuri.
Nonna Anna sui documenti era registrata come Anita. Il mio bisnonno, fan di Garibaldi, aveva voluto chiamarla così. Ma la bisnonna l’aveva fatta battezzare come Anna e con tale nome tutti l’avevano sempre chiamata.
Era l’ultima di cinque figli, tutti morti in tenera età. Lei, l’unica sopravvissuta, aveva contratto la spagnola, la micidiale influenza che mieteva vittime nel 1918, alla fine della Prima guerra mondiale. La nonna diceva che i morti li portavano via di notte, come mosche. Sia lei che mio nonno Paolo erano stati contagiati, ma erano sopravvissuti. Medicine? Nessuna. Si erano curati con la magnesia e l’uovo sbattuto.
Luigi, il mio bisnonno, era morto presto e la madre aveva messo sua figlia in collegio dalle Stelline, dove erano accolti gli orfani di sesso femminile, mentre i maschi andavano dai Martinitt.
Una parte degli aneddoti narrateci dalla nonna, riguardavano la sua infanzia in collegio. Aveva un modo di raccontare molto avvincente, colorito, vivo. Una dote innata.
Nonna Anna, non una dolce e timida vecchina, quindi, ma un’anziana dinamica con un caratteraccio. A farne le spese la povera zia Lalla. Lei sì una persona dal carattere mite, ma piena di manie. Stava in casa, senza uscire quasi mai. Poverina, era letteralmente oppressa dalla tirannia della madre che l’amava svisceratamente, ma la comandava a bacchetta. Era raro che la zia protestasse. Penso che, quando morì la nonna, per lei fu anche una gran liberazione.
Nonna Anna in casa faceva tutto. La zia, a parte lavorare a maglia, non si occupava né delle faccende domestiche (si limitava a rifare i letti), né della cucina.
Come cuoca la zia era proprio un disastro. Ricordo una volta, con noi in vacanza d’estate, si era messa a scaldare un’insalata di riso.
Mia nonna, nonostante l’età avanzata, amava leggere ed io, di tanto in tanto, le portavo dei libri.
Una volta mi disse:
«Paolo, va be’ che ai miei tempi eravamo molto pudici, ma nel libro che mi hai dato i protagonisti per darsi il primo bacio ci hanno impiegato duecento pagine.»
Credo che il libro in questione fosse “Lucien Leuwen” di Stendhal. L’ho letto diversi anni fa e la trama la ricordo vagamente.
La nonna e la zia erano state in casa insieme alla mia famiglia per diversi anni.
Avevo circa dieci, quando se ne andarono. Si trasferirono in un bilocale di via Ripamonti, una delle sue finestre affaccia su viale Toscana. Lì transitava (e passa tuttora) la filovia 90-91.
È una casa di ringhiera, edificata ai primi del Novecento. Soffitti alti, locali spaziosi.
Quando andavo alle medie, una o due volte alla settimana, andavo a mangiare a pranzo da loro. La nonna spesso mi cucinava il pesce, perché mi piaceva molto e né la mamma, né la nostra colf lo facevano mai. Di solito: trota con maionese che faceva lei. Oppure mi preparava un buon risotto e la classica cotoletta alla milanese di vitello, alta e tenera.
Per far la spesa la nonna, abitualmente, andava in centro.
Sosteneva che le piaceva mangiare poco, ma buono. Lei, del resto, era cresciuta nel centro di Milano e, quando si era sposata, era andata ad abitare in via Olmetto, una vietta non distante da via Torino.
In uno dei bombardamenti degli alleati nel 1944 la casa era stata completamente distrutta...Fatto sta ed è che il nonno Paolo aveva raggiunto la moglie e le due figlie a Locatello in valle Imagna. Lì erano sfollate. Mostrando un mazzo di chiavi, aveva detto loro che erano tutto ciò che rimaneva della casa di via Olmetto.
Un’altra pietanza di cui andavo matto erano le mozzarelle in carrozza. In questi giorni, proprio pensando a quello che mi preparava la nonna, me le sono cucinate, anche se di solito evito i fritti.
Passarono gli anni e la nonna rimase sempre in quell’appartamento di via Ripamonti. Capitava che trascorressi l’intera notte fuori casa con amici o con qualche donna.
La mattina di buon’ora andavo a casa della nonna, sicuro di non disturbarla, perché si levava alle cinque e mezza, non più tardi. La zia, invece, si alzava alle sette. Piano piano per non disturbarla chiacchieravano e nonna Anna mi preparava lo zabaione con marsala o l’uovo sbattuto col caffè.
Avevo passato i trent’anni, mi ero trasferito in provincia nord di Milano, ma andavo spesso a trovare nonna Anna. Ci legava un grande reciproco amore. Magari mi trattenevo da lei sola una mezz’ora, ma almeno una volta alla settimana andavo a trovarla. La nonna è morta all’età di novantaquattro anni. Sono trascorsi più di venticinque anni da quel giorno, ma mi manca ancora la sua compagnia. Era una donna unica, originale, estrosa, caparbia, generosa, coraggiosa. Forse la persona nella mia vita che più ho amato.
Primo amore
Si dice che il primo amore non si scorda mai. Quale fu il mio primo amore?
Contano quelli non corrisposti? Certo che contano. Era Elena la bambina bionda in quinta elementare? Ma no, partiamo dall’adolescenza.
Ecco che mi appare vivida nella mente l’immagine di Susanna, una ragazza di Parma in villeggiatura a Forte dei Marmi; era l’estate del 1968.
Come si diceva allora, ero cotto di lei.
Proprio una bella ragazza: bruna, alta, formosa, già donna. Come avrebbe potuto interessarsi di un coetaneo, un bambinetto come me?
Non avevo occhi che per lei.
Cercavo, in tutti modi, occasioni per starle vicino. Persino una nuotata dalla boa fino a riva; io e lei da soli. La boa è un oggetto di plastica, ancorato al fondo, il limite che i vari natanti non possono superare. Una distanza non indifferente, anche da fare in patino.
Fu una faticaccia, arrivò prima lei…
Non vale! Susanna aveva le pinne. Ero stremato, ma ce l’avevo fatta. Spossato mi adagiai a riva. Susanna mi guardò e disse:
«Sono arrivata prima!»
Io, che non avevo la forza di parlare, con la mano destra indicai le sue pinne.
«Le pinne non centrano, tu nuoti senza mettere mai la testa sott’acqua.»
Era vero, aveva ragione lei, nuotava meglio di me.
Ai bagni ‘Alpemare’, adiacente ai ‘Bagni Italia’, c’era un altro nostro coetaneo, Gustavo (anche lui di Parma), invaghito come me della bella Susanna.
Non ero affatto geloso di lui. Lo consideravo una sorta di compagno di sventura. Nondimeno, entrambi gareggiavamo per catturare l’attenzione della bella mora.
Non eravamo i soli ad averla adocchiata. Ho un vago ricordo di un fusto (come si diceva allora) che una volta si unì al nostro terzetto.
A Susanna non piaceva; si capiva da come lo sfotteva. Non nel tipico modo delle ragazze che vogliono flirtare. Il suo atteggiamento, gli sguardi erano eloquenti. Sembravano dicessero:
«Dei tuoi muscoli, della tua prestanza fisica non m’importa niente, sei un poveretto.»
Allo sfottò, contenti non le piacesse, c’eravamo uniti io e Gustavo.
Il bagno “Italia” di Forte dei Marmi si trovava (e si trova) nella parte nord del Forte, poco dopo Cinquale. Lì c’era (e c’è tuttora) un piccolo aeroporto. La sabbia è fine, la spiaggia, ben tenuta. Gli ombrelloni non ammassati, ma distanziati fra loro. È lasciato uno spazio libero al centro. Formano, cioè, una specie di quadrato intorno alla spiaggia.
Nella parte centrale di Forte c’è la zona più signorile: Roma Imperiale, grandi alberghi, ville di ricchi. Intono, viali umbratili. Lì gli ombrelloni sono più ammassati, anche se prenderli in affitto costa molto di più.
Negli anni Sessanta e Settanta, il bagnino, anche gestore del bagno “Italia”, si chiamava Talismano detto Talò. Un uomo magro di media altezza, piuttosto anziano dai tratti rugosi e marcati del viso che sembrava scolpito dalla pietra. Sua moglie si chiamava Fortuna. Uno strano gioco del destino li aveva fatti accoppiare. Non sto inventando, è la pura verità.
Trascorrevano i giorni di quell’agosto del 1968. Si andava in spiaggia a fare il bagno. Ogni tanto giocavamo a pallavolo, più spesso scorrazzavamo in bicicletta nel verde delle pinete del Forte.
Il mio pensiero costante era rivolto a quella bruna ragazza di Parma. La trovavo ogni mattina in spiaggia coi suoi genitori. Suo padre, un bell’uomo, aveva una Porsche grigia. Della madre non ho il minimo ricordo, anche se…ma non anticipiamo i tempi.
Il 20 agosto di quell’anno era trascorso: un giorno come tutti gli altri di cui non ho un particolare ricordo.
Il giorno successivo andai in spiaggia piuttosto di buon’ora.
Susanna, di solito, veniva intorno alle dieci e io, che volevo vederla arrivare, cercavo di essere lì prima di lei. Ecco, invece, giungere Gustavo. È probabile con la mia stessa intenzione. Ci mettemmo a chiacchierare, volgendo entrambi con noncuranza, ogni tanto, lo sguardo verso l’accesso ai bagni.
In spiaggia, quel giorno c’era un’inusuale concitazione. Cos’era successo?
Al bagno “Italia” c’era un gruppo di persone di Milano, facevano parte della nostra cerchia d’amicizie. Eccoli in ordine sparso: i giudici Marcucci settentrionale e Franchina siciliano con le rispettive famiglie, l’avvocato Fredas e la moglie. La ricordo accanita fumatrice di sigarette, marca Turmac. L’attore e regista Gianni Mantesi con la moglie Grazia, figlia del celebre pittore siciliano Giuseppe Migneco. Questi ultimi amici molto intimi.
C’era un via vai da un ombrellone all’altro. C’era chi mostrava alcune pagine di giornale.
Le truppe del patto di Varsavia avevano invaso la Cecoslovacchia e io aspettavo Susanna che non arrivava, erano ormai quasi le undici!
Arrivò invece Gianni Mantesi che, rivolgendosi agli amici, esclamò:
«Vado a comprare i giornali in piazzetta. Il tipo prima di me sapete cos’ha chiesto? ‘La Gazzetta sportiva’ e ‘Il Corriere dello sport”. Con tutto quello che è successo a Praga, vi par possibile?»
«O tempora, o mores!» sentenziò il giudice Marcucci e il collega Franchina lo sfotté, rivolgendosi a mia madre:
«Lei che ha studiato…O tempora, o mores! È latinu, grico o francise?»
Anch’io, seppur molto giovane, m’interessavo di politica. Avevo scorso i giornali che parlavano di questo grave evento, della brusca e cruenta fine del cosiddetto socialismo dal volto umano della primavera di Praga di Dubcek.
Ma il mio pensiero costante, la mia ossessione era di dichiarare il mio amore a Susanna. Ogni giorno mi ripromettevo di parlarle, per poi rimandare al successivo. Anche l’ultimo giorno non riuscii a farle questa benedetta dichiarazione che tanto mi premeva.
Con Susanna c’eravamo scambiati l’indirizzi e i rispettivi numeri telefonici.
L’anno seguente, a inizio estate, da Milano andai in motorino fino a Collecchio per vederla: In quel paese del parmense i genitori di Susanna avevano una villetta, dove spesso si recavano, perché molto vicino a Parma.
Di quest’ultimo incontro ho un vago ricordo.
Certo fu bello rivederla. Oltre che molto attraente era simpatica. Di sicuro aveva compreso i miei sentimenti nei suoi riguardi e, anche se non li corrispondeva, mi trattava con comprensiva famigliarità.
Le telefonai un’altra volta, mentre ero all’Università a Bologna. C’era un evento (non ricordo cosa fosse) una sera al teatro regio di Parma. Susanna aveva un altro impegno e non l’incontrai. Andai lo stesso a Parma nel primo pomeriggio feci un giro per la città e andai al cinema da solo a vedere ‘La Stangata’, film con Paul Newmann e Robert Redford.
CONTINUA
DI LÀ C’È IL DETECTIVE di Paolo Geros
Genere: Thriller