NON C’ERA UNA VOLTA di Fabio Losacco

“Babbo, prima di andare perché non mi racconti una storia? Mi piacerebbe addormentarmi insieme a te.”

Francesco rimase spiazzato da quella richiesta. Suo figlio Andrea non aveva mai espresso prima un desiderio del genere, forse perché consapevole di quanto lui fosse scarso come narratore.

“Non so raccontare le storie, lo sai. Ma ci tieni veramente così tanto?”

“Sì. Mi piacerebbe sul serio, anche perché sarebbe la prima volta che lo fai per me.”

Aveva ragione. Quella sarebbe stata davvero la prima volta perché normalmente era sua madre a pensare a quel tipo d’incombenza e poi lui aveva dovuto occuparsi di cose molto più importanti. Almeno così aveva sempre pensato.

“Ti va bene Cappuccetto Rosso o preferisci la Bella Addormentata?”

“Ma no, babbo! Quelle sono favole da bambini piccoli. Voglio una cosa diversa, ma soprattutto non voglio una storia scritta da altri. Voglio qualcosa che abbia pensato tu e che sia solo per me, la MIA storia, non quella inventata da altri magari proprio per i loro bambini.”

Il piccolo Andrea appariva determinatissimo e, in quel momento, a suo padre sarebbe davvero dispiaciuto non accontentarlo, pur consapevole di quanto fosse complicato per lui cercare di esaudire quel desiderio.

Del resto nella vita aveva fatto tutt’altro che sviluppare la propria fantasia e ora, a più di cinquant’anni, sapeva bene come la sua vena creativa si fosse inaridita.

“Non so se ne sono capace, Andrea. Davvero non ti andrebbe proprio una fiaba di quelle conosciute? Che ne so, per esempio il piccolo anatroccolo, che è pure una storia bellissima!”

“Quelle le conosco tutte, babbo! E poi l’anatroccolo non era piccolo ma brutto. Secondo me poi tu non conosci bene nemmeno quelle!” sentenziò il bambino sorridendo.

Aveva ragione. Non le conosceva semplicemente perché nessuno gliele aveva raccontate e lui, a sua volta, non si era mai preoccupato di raccontarle nemmeno a suo figlio.

“Dai, sforzati un po’ babbo. Fai come quando sei in tribunale e devi difendere qualcuno di fronte al giudice. Non ti è mai capitato di raccontare delle storie inventate per salvare i tuoi clienti?”

Senza volere e con tutta l’ingenuità dei suoi sette anni, suo figlio aveva con crudeltà messo il dito nella piaga sempre aperta della sua professione.

In fondo, se fai l’avvocato ti capita spesso di raccontare qualcosa di anche molto, ma molto fantasioso, pur di salvare il culo di quello che ti aveva scelto per tirarlo fuori dai guai e che, particolare non del tutto trascurabile, ti pagava la parcella.

Non c’era niente da fare. Andrea lo aveva inchiodato di fronte all’evidenza e quindi adesso doveva mettercela tutta per cercare di accondiscendere a quel suo legittimo desiderio.

“Io ci provo, Andrea, ma non so se ne sarò capace.”

Si tolse la giacca e l’abbandonò sulla sedia, si allentò la cravatta e si arrotolò le maniche della camicia, perfettamente cosciente di come lo aspettasse un compito per nulla facile.

“Se davvero lo vuoi ci riuscirai di sicuro. E poi, non sei tu che mi dici sempre che volere è potere?” sentenziò il bimbo facendo sfoggio di una saggezza difficile da associare alla sua età.

“Ma ti prego babbo di non cominciare con il solito c’era una volta. Quello l’ho già sentito in un milione di occasioni!”

“Farò del mio meglio. Promesso” disse Francesco appoggiandosi la mano sul cuore.

“Parola di lupetto?”

“Parola di lupetto. Vecchio ma sempre un lupetto!”

Andrea rise e Francesco provò a cominciare.

“In una città tanto lontana e piena di tanta gente sempre molto indaffarata che correva perennemente a destra e sinistra, viveva un bambino. Lui era ancora piccolo ma già molto attento e intelligente ed era l’orgoglio dei suoi genitori. Proprio come te, Andrea.”

“Perché voi siete orgogliosi di me?” chiese il piccolo e a Francesco si strinse per un attimo la gola.

“Non potrebbe essere diversamente. Ora però lasciami continuare, altrimenti finisco per perdere il filo.”

“Scusami Babbo.”

Andrea chiuse gli occhi, ma solo per essere più concentrato sul racconto e non certo con l’intenzione di farsi vincere dal sonno. La SUA storia adesso era troppo importante.

“Dunque, come ti dicevo, questo bambino era bravo, buono e molto intelligente ed era la gioia e l’orgoglio dei suoi genitori che, vedendo quanto fosse avanti per la sua età, avevano anche pensato di mandarlo a scuola un anno prima, perché temevano che altrimenti avrebbe finito per annoiarsi troppo sui banchi. E così lo iscrissero alla scuola elementare in anticipo, nella speranza che in questo modo si appassionasse ancora di più alle cose che gli venivano insegnate.”

“Proprio come me allora” ribadì Andrea sempre tenendo gli occhi chiusi.

“Si esatto. Proprio come te.”

“Ma come si chiamava questo bambino che mi assomiglia tanto?”

Già come si chiamava? Non ci aveva pensato ma un nome avrebbe dovuto trovarglielo se voleva continuare a raccontare quella storia.

“Secondo te come si chiama?” chiese a suo figlio con l’astuzia tipica dell’avvocato.

“Non lo so. Forse mi piacerebbe che si chiamasse come il mio amico Gianni che stava nel banco accanto a me.”

“E infatti quel bambino, bravo, buono e intelligente si chiamava proprio Gianni.”

Andrea riaprì gli occhi per sbirciare un attimo suo padre, forse non troppo convinto dalle modalità di attribuzione del nome al protagonista della storia, ma poi li richiuse di nuovo.

“E poi, cosa gli successe?”

Francesco si fermò un attimo a pensare. Perché era così difficile riuscire a mettere insieme una trama che fosse abbastanza piacevole e appassionante ma che, nel medesimo tempo, riuscisse pure a farlo addormentare?

“Tutte le mattine Gianni andava a scuola con la sua cartella e con la merenda gelosamente conservata in mezzo al resto delle sue cose ed era sempre contento perché gli piacevano sia la sua maestra, che era dolce e paziente, sia i suoi compagni con cui giocava e scherzava sempre, senza mai litigare con nessuno.”

“Noi, a volte, un po’ bisticciamo” ci tenne a precisare Andrea, che ormai si era immedesimato completamente nel protagonista della storia.

“Gianni invece no. Gianni non litigava mai, ma neanche gli altri della sua classe litigavano tra loro perché tutti si volevano bene e andavano perfettamente d’accordo.”

Già tutti si volevano bene e andavano d’accordo, proprio come poteva accadere solo nelle fiabe.

“Ogni cosa filava a meraviglia nella scuola di Gianni e tutti erano sempre contenti, così che quando finivano le lezioni si salutavano con affetto già pregustando il piacere di rivedersi il giorno dopo.

La classe di Gianni, quindi, era un luogo meraviglioso dove c’era spazio solo per la serenità e il buon umore e così andò avanti per tanto tempo finché…”

Francesco si fermò ad arte per vedere la reazione di Andrea e augurandosi, non senza un filo di perfidia, che magari si fosse già addormentato.

“Finché cosa?!” chiese il piccolo e suo padre dovette rassegnarsi a continuare a tenere accesa quell’immaginazione di cui, fino a quel momento, aveva perduto ogni traccia.

“Finché in classe non arrivò un ragazzo nuovo che si chiamava…. Secondo te come si chiamava?”

“Alex. Si chiamava Alex. Proprio come quello dell’ultimo banco che prende in giro tutti, comprese le bambine!”

“Esatto. Si chiamava proprio Alex e veniva da un’altra scuola, di un altro paese di un’altra regione. La maestra, presentandolo ai compagni, disse che lui e la sua famiglia, a causa del lavoro del padre, si erano trasferiti lì da poco e che quindi tutti avrebbero dovuto fare del loro meglio per accoglierlo, farci amicizia e farlo sentire a casa.”

“E che lavoro faceva il padre di Alex?!”

L’attenzione di Andrea era sempre concentrata e costringeva suo padre a non abbassare mai la guardia durante il racconto.

“Suo padre lavorava in una grande azienda americana che aveva sedi in tutto il mondo ed era stato trasferito proprio nel paese dove viveva Gianni, i suoi compagni e la deliziosa giovane maestra dolce e gentile.

Alex, però, era più grande degli altri di almeno un paio di anni e ne aveva quindi ben tre di più rispetto a Gianni, ma, nonostante ciò, la maestra pensò che fosse il caso di metterlo proprio accanto a lui che era l’alunno più mite e altruista di tutta la classe.

Alex era un bambino grande e grosso, con delle spalle larghe e una testa tonda con i capelli cortissimi e dello stesso colore del miele di castagno che si mette sul pane a colazione. Aveva poi due occhi piccoli ma mobilissimi come quelli di un furetto, un naso storto da vecchio pugile e una bocca dove però nessuno vedeva mai comparire un sorriso.

Gianni fu subito molto felice di averlo nel suo banco perché gli faceva sempre piacere conoscere bambini nuovi, ascoltare le loro storie e, a sua volta, poter raccontare le sue.

Purtroppo, però Alex era diverso da tutti gli altri bambini della classe. Aveva un atteggiamento chiuso, introverso, scontroso e molto diffidente, forse anche per colpa del lavoro di suo padre che, costringendolo a continui spostamenti, non gli aveva mai permesso di farsi dei veri amici.”

“Proprio come Alex della mia classe. Nessuno lo vuole d’intorno e anche lui non vuole nessuno accanto. È proprio un bambino molto cattivo” sentenziò Andrea spingendo in avanti il labbro inferiore e assumendo un’espressione dura e decisa che stonava con il suo volto rosa e liscio di bambino.

“Comunque, Gianni fece di tutto per avvicinarsi ad Alex e per farlo sentire accettato. Si offriva sempre di giocare con lui a ricreazione, gli chiedeva se volesse assaggiare un po’ della sua merenda o se voleva che facessero i compiti assieme, ma il suo compagno gli rispondeva sempre di no e, anzi, il più delle volte, non gli rispondeva nemmeno.

Anche quando c’era l’intervallo Alex preferiva stare da solo, andandosi a sedere nel punto più lontano del cortile, mangiando la sua merenda che era sempre solo una mela e tenendo gli occhi bassi, fissi sulla punta delle proprie scarpe.

Dopo un po’ di tentativi infruttuosi di socializzare con il nuovo arrivato, tutta la scolaresca decise di lasciarlo perdere e di comportarsi come se nemmeno ci fosse, ignorandolo completamente.

Tutti scelsero con decisione quel comportamento, tutti all’infuori di Gianni che proprio non riusciva ad accettare l’idea di non essere capace di stabilire un contatto con quel ragazzo che in fondo non sembrava cattivo ma che era, senza alcun dubbio, davvero molto, ma molto strano. In dei momenti sembrava addirittura che stesse nascondendo con cura un segreto che temeva potesse essere scoperto se solo avesse abbassato per un attimo quello scudo di silenzio dietro il quale aveva deciso di nascondersi.”

“Allora, babbo pensi che anche Alex della nostra classe ci stia nascondendo un segreto segretissimo?” chiese Andrea e a suo padre venne quasi da ridere constatando come quella storia di fantasia nella mente di suo figlio riuscisse a sovrapporsi, senza alcuna difficoltà, alla realtà.  Era proprio una cosa meravigliosa la fantasia dei bimbi, capace di rendere reale l’immaginario ma riuscendo anche a fare il contrario.

“Ma no Andrea. L’Alex della mia storia ha solo il nome in comune con il tuo compagno ma tutto il resto e senz’altro diverso.”

“A me sembra invece siano uguali!” insisté e Francesco pensò che la cosa migliore fosse, al momento, lasciare cadere l’argomento.

“In ogni caso Gianni non si dava pace di non riuscire a fare breccia nella corazza di quel grosso ragazzo taciturno che era venuto da chissà dove e che, tra non molto, certamente se ne sarebbe andato di nuovo. Molti certamente si sarebbero arresi dimenticandosi di quel compagno così antipatico e ostinatamente solitario, ma Gianni non era certo il tipo che si scoraggiava di fronte alle difficoltà.

Così, un giorno, senza che nessuno lo vedesse, prima di uscire di casa prese dal cestino dei dolciumi che stava in salotto, un paio dei cioccolatini più buoni e sui quali, da sempre, pesava un esplicito anatema di sua madre.

“E che cosa è un esplicito anatema, babbo?”

Suo figlio aveva ragione. Stava raccontando una specie di fiaba raffazzonata e dallo svolgimento incerto e non preparando un’arringa da enunciare davanti a un giudice! Come gli era venuto in mente di usare il termine “esplicito anatema?”

“Vuol dire che la mamma di Gianni gli aveva proibito di prendere quei dolci che erano riservati esclusivamente a chi veniva a fare loro visita.”

“Anatema significa che non puoi prendere dei dolci allora?”

Francesco sorrise. Era difficile spiegare una parola simile a un bimbo così piccolo per quanto sveglio e curioso. L’errore era stato solo suo a scegliere un termine così poco usato. Come poteva spiegargli che l’anatema era una specie di maledizione e che lanciarlo voleva dire preannunciare a qualcuno delle nefaste conseguenze per qualcosa che aveva o non aveva fatto? Ora però doveva risolvere la cosa con un colpo d’ingegno di cui sperava di essere capace.

“L’anatema è come dire che se fai una cosa che ti ho proibito poi andrai incontro a delle grosse punizioni.”

“Tipo?”

Andrea non voleva saperne di arrendersi senza essere arrivati a fondo dell’argomento e in questo assomigliava proprio a suo padre che, da piccolo, era anche lui capace di sfinire tutti con infiniti quesiti su ogni piccola cosa.

“Tipo che se prendi i dolci poi niente tv per una settimana! Questo, per esempio, è una specie di anatema. Capito?”

Andrea parve rifletterci un po’, poi tornò a colpire.

“È tipo un anatema oppure è proprio un anatema?”

“È proprio un anatema. Assolutamente.”

Andrea continuò a pensarci ancora, poi arrivò finalmente alle sue conclusioni.

“Allora me ne avete lanciati tanti in passato tu e la mamma di anatemi!”

Aveva proprio ragione. La ricerca della logica nelle cose era da sempre stato il lato più deciso della sua personalità, parte predominante della sua stessa natura. Sarebbe stato un perfetto Signor Spock in un remake di Star Trek.

Quel pensiero bizzarro indusse Francesco a immaginare suo figlio con gli orecchi a punta e  i capelli tagliati a frangetta come il personaggio di Leonard Nimoy e dovette trattenersi per non scoppiare in una risata di cui, certamente,  Andrea gli avrebbe poi chiesto infinite spiegazioni.

“Si hai ragione. In qualche modo te ne abbiamo lanciati diversi di anatemi io e la mamma.”

“Ma non mi avevate detto che erano anatemi però! Non li avete mai chiamati con il loro nome!”

Se continuava così la fiaba non sarebbe mai finita e lui non avrebbe mai preso sonno. Però tra un po’ Francesco sarebbe stato costretto ad andarsene e quindi era necessario che, in un modo o nell’altro, riuscisse a sbrigarsi.

“Eri troppo piccole per parole così difficile, per questo non te lo abbiamo detto. Ora invece la conosci e hai capito di cosa si tratta perché sei diventato grande.”

Andrea sorrise. Ora si sentiva di aver davvero capito tutto ma, soprattutto, si sentiva più grande e quindi capace di affrontare cose più complicate, comprese le parole un po’ strane che non tutti avevano imparato.

“Continua la storia babbo” disse alla fine e Francesco riprese a raccontare tirando un sospiro di sollievo.

“Allora, Gianni aveva preso due cioccolatini, i più buoni tra quelli che c’erano nel cestino, sperando che i suoi genitori non se ne accorgessero. Poi però pensò che, anche se ne fossero accorti, non lo avrebbero ugualmente punito perché lui avrebbe spiegato che aveva commesso quel piccolo furto per un buon motivo e, soprattutto, per una nobile causa.

“E qual era il buon motivo?” chiese Andrea sempre più incuriosito.

“Devi avere pazienza e ora ci arrivo, ok?”

Il piccolo fece cenno di sì e si predispose ad ascoltare il resto del racconto.

“Con i due preziosi cioccolatini nascosti nella cartella si diresse con passo veloce verso la scuola e quando ci arrivò si sedette al suo banco aspettando che Alex arrivasse. L’ansia per la sua piccola marachella e il desiderio di portare a termine il piano che appena escogitato, avevano fatto sì che Andrea fosse stato il primo a raggiungere l’aula e quindi vide tutti i suoi compagni arrivare alla spicciolata. Ma quando mancavano solo cinque minuti alla campanella, di Alex nemmeno l’ombra. Che fine aveva fatto? Sarebbe riuscito ad arrivare prima che il custode chiudesse il portone e la lezione iniziasse? Se ciò non fosse accaduto anche la sua audace piccola disobbedienza non sarebbe valsa a nulla se non a fargli rischiare un rimprovero da parte dei suoi!

Gianni allora lanciò lo sguardo fuori dalla finestra e vide in fondo alla strada la sagoma goffa del suo compagno arrivare di corsa alzando un po’ di polvere del selciato asciugato dal sole. Era tardissimo però e difficilmente ce l’avrebbe fatta ad arrivare prima che il custode chiudesse senza pietà il cancello. Cosa poteva fare allora? Ci pensò un attimo poi decise per la cosa più semplice e ovvia, ovvero si rivolse alla sua gentile maestra dicendogli che Alex stava arrivando e che intervenisse perché il bidello non lo lasciasse fuori. La donna sorrise, compiaciuta per la premura di quel suo alunno nei confronti del compagno, e dalla finestra chiamò l’uomo facendogli cenno di lasciare entrare quel ragazzo che stava arrivando di gran carriera. Mentre vedeva Alex varcare l’entrata sotto lo sguardo truce del bidello, Gianni si sentì quasi un eroe e pensò di essersi guadagnato una grossa riconoscenza da parte di Alex che certamente lo avrebbe ringraziato, magari dimostrandosi finalmente più disponibile nei suoi confronti e convincendosi che loro due potevano finalmente diventare amici.

Quando Alex entrò in aula era rosso in volto e coperto di sudore, con i capelli appiccicati che parevano ancora più corti del solito e un respiro affannato che ricordava quello di un toro pronto alla carica.

A mezza voce si scusò per il ritardo con la maestra che rispose con un sorriso, poi andò a sedersi.

Anche Gianni gli sorrise, ma il compagno non lo degnò di uno sguardo mentre la lezione iniziava normalmente nel silenzio e nell’attenzione generale. Mentre l’insegnante spiegava e la sua voce suadente invadeva l’aula, Gianni spiava di nascosto il ragazzo che gli stava accanto nella speranza di riuscire a coglierne una piccola modifica nell’espressione o, addirittura, a scorgere un breve sorriso. Nelle prime due ore però non successe nulla di tutto ciò e Gianni si sentì mortificato e deluso al medesimo tempo. Però nella cartella aveva ancora il suo asso nella manica, la carta vincente che avrebbe sfoderato al momento della ricreazione. E quella non poteva fallire, ne era assolutamente certo.

Quando suonò la campanella tutti i ragazzi si precipitarono nel cortile con le loro merende tenute gelosamente tra le mani e Alex tirò fuori la sua solita mela. Era una di quelle rosse, lucide e grandi, la stessa con cui la strega cattiva aveva compiuto il suo maleficio a Biancaneve, e il ragazzo iniziò a mangiarla con aria distratta. In quel momento Gianni tirò fuori i suoi cioccolatini e li mise sul banco controllando, con la coda dell’occhio, la reazione del compagno. Nessun bambino sarebbe potuto restare insensibile per molto a uno di quei dolcetti che la televisione pubblicizzava ogni giorno e Alex non era certo diverso da tutti gli altri.”

“Ne ho due. Se vuoi uno è tuo” gli disse poi con aria gioviale.

Alex smise di masticare la sua mela rossa e lo guardò senza rispondere.

“Dai, prendilo pure. Mi fa piacere” disse poi, senza staccare lo sguardo dal suo viso e senza far arretrare il sorriso. Alex, da parte sua, continuava a scrutarlo con i suoi occhi troppo piccoli per avere espressione.

Ma quanto ci voleva per rispondere? Quale bambino avrebbe rifiutato un’offerta del genere? Gianni non ne conosceva nessuno e per questo era perplesso.

“Non ti piace la cioccolata?” chiese poi ma mentre gli faceva quella domanda si rendeva conto di come questa fosse stupida. Non poteva esistere nessuno a cui non piacesse la cioccolata!

“Allora lo vuoi?” ripeté ancora spingendo quella specie di pralina nell’altra metà del banco.

La classe era vuota e anche la maestra era scesa in cortile per sorvegliare il resto della scolaresca.

“Dai prendilo. L’ho portato per te” ripeté ancora cercando perfino di allargare ancor di più il suo sorriso.

A quel punto Alex appoggiò la mela sul banco e, dopo aver fissato per un attimo il cioccolatino avvolto nella carta metà dorata e metà argentata, la colpì con le dita come si fa con le bilie, facendolo rotolare sul pavimento.

“Non ho bisogno di nulla e non voglio nulla” disse poi alzandosi e uscendo dalla stanza.

Il tono con cui aveva parlato non era stato né cattivo né arrabbiato e nemmeno la sua voce si era alzata di volume. Era stata piuttosto una frase pronunciata con la freddezza e la determinazione di chi semplicemente non voleva avere niente a che fare con nessuno e quindi nemmeno con lui, ed era stato proprio questo pensiero quello che aveva fatto più male a Gianni. Ma come? Lui aveva disobbedito ai suoi genitori e aveva rubato i cioccolatini correndo anche il rischio che i suoi lo mettessero in punizione e lui lo trattava così? Cosa poteva fare di più per dimostrargli che voleva diventare suo amico?

Allora era davvero cattivo come dicevano tutti gli altri e anche lui avrebbe fatto bene a lasciarlo bollire nel suo brodo fatto di silenzio e di solitudine!

Però Gianni, oltre a essere buono e generoso, era anche tenace e ancora una volta decise che l’idea di arrendersi non sarebbe rientrata nella lista delle sue soluzioni. Così si alzò, raccolse il cioccolatino da terra e li ripose entrambi in cartella con l’intenzione di rimetterli nel vassoio una volta tornato a casa sperando di non farsi vedere. Per il resto invece gli era venuta un’altra idea che avrebbe messo in pratica all’uscita da scuola.”

“E cosa voleva fare, babbo? Certo che Alex è proprio cattivo come il mio compagno!”

“Aspetta a dare giudizi, Andrea. Per sapere tutto devi aspettare il seguito della storia. Lo vuoi sentire oppure hai sonno e vuoi dormire?”

“No, no. Ora voglio sentire la storia, non voglio dormire.”

Non lo avrebbe mai ammesso, ma adesso anche Francesco stava prendendo gusto a quel suo inedito ruolo di narratore.

“Va bene. Allora vado avanti.

Dunque, quando suonò la campanella Gianni uscì di gran carriera dopo aver frettolosamente salutato la sua maestra che fece solo in tempo a vederlo sfrecciare verso le scale. Una volta fuori dal cancello si nascose dietro a una delle tante auto che stavano parcheggiate lungo il marciapiede e aspettò che anche gli altri uscissero. Come sempre accadeva Alex fu l’ultimo a varcare il cancello. Lui faceva sempre così, probabilmente per evitare di trovarsi accanto qualcuno dei suoi compagni di scuola con cui magari sarebbe poi stato costretto a fare un pezzo di strada assieme od a scambiare qualche parola. Quando si incamminò, Gianni uscì dal suo nascondiglio e, una volta che Alex fu abbastanza lontano, iniziò a seguirlo facendo la massima attenzione a non farsi vedere. Nessuno sapeva dove abitasse e Gianni aveva pensato che forse, se fosse riuscito a sapere qualcosa di più di lui, avrebbe anche capito la ragione di quel suo comportamento tanto antipatico, strano e scostante.

Così, sotto il sole primaverile che faceva pizzicare la pelle, Gianni iniziò il suo pedinamento, sentendosi come uno di quei detective dei libri gialli che sua mamma leggeva con tanta passione.

Dopo una decina di minuti lasciarono la strada principale e svoltarono a destra allentandosi dal centro della loro piccola cittadina. Lui si sentiva sicuro che il suo compagno non abitasse troppo distante visto che ogni giorno veniva a scuola a piedi ma adesso era già tanto che camminavano e si erano allontanati molto dalla scuola.

Solo allora Gianni pensò che sua mamma, non vedendolo tornare alla solita ora, magari si sarebbe preoccupata e subito provò un enorme senso di colpa per quella cosa.  Ormai però era andato troppo avanti in quel gioco e non poteva certo tornarsene indietro senza arrivare al risultato che si era prefissato. A sua madre dopo lo avrebbe spiegato ed era certo che lei avrebbe capito e perdonato per le sue marachelle, in fondo molto piccole.

Mentre lui se ne stava immerso nei suoi pensieri, Alex cambiò ancora una volta strada imboccando un piccolo vialetto privato, stretto e sterrato. Di sicuro erano quasi arrivati a destinazione. Gianni aspettò ancora un po’ poi lo imboccò a sua volta, giusto in tempo per vedere il suo compagno sparire all’interno di una villetta isolata, con le facciate scrostate e il tetto con delle tegole mancanti.”

“E cosa c’era in quella casa?!” chiese Andrea con la voce che tradiva un primo accenno di sonno. In ogni caso fino a quel momento era stato più resistente di quanto suo padre si sarebbe mai aspettato.

“Abbi pazienza. Fammi andare avanti con la storia.”

“Va bene allora. Vai avanti.”

“Gianni, a quel punto, si avvicinò e, una volta arrivato alle finestre, gettò lo sguardo all’interno dell’abitazione. Si vedeva benissimo il salotto che appariva in ordine e arredato con tutti mobili antichi, ma in quella stanza non c’era nessuno. Girò allora intorno alla casa fino ad arrivare alla finestra di cucina, ma anche quella era deserta. Continuò allora a muoversi intorno al piccolo edificio e finalmente vide Alex. La stanza dove si trovava era piccola e avvolta nella penombra, interrotta solo dalla luminescenza di un grande televisore. Il ragazzo sembrava stesse parlando ma Gianni, oltre a non riuscire a sentire nemmeno una parola di quello che diceva, non era in grado nemmeno di scorgere chi fosse il suo interlocutore. Poi il suo compagno sparì dalla vista per ricomparire un istante dopo, spingendo una carrozzina dove stava seduta una donna magra con due occhi grandi e macchiati di giallo come quelli delle civette. Alex la portò fino alla cucina e Gianni lo seguì vedendolo poi apparecchiare la tavola per sé e per quella donna, che se ne stava immobile con lo sguardo fisso avanti a sé. Ma chi era? Gianni l’osservò attentamente, ne vide bene il volto magro e pieno di rughe, i capelli bianchi raccolti in una specie di lunga treccia disordinata e poi scorse Alex che, mentre continuava a parlare, le sorrideva. Era molto diverso dal solito Alex. Questo era allegro, sereno e pareva che tutto quello che lo rendeva cupo e distante a scuola fosse miracolosamente scomparso nell’arco di un solo istante.

Quella era la prima volta che Gianni vedeva il suo compagno sorridere e stentava a riconoscerlo. Lui, sempre taciturno, parlava con disinvoltura e sempre lui, perennemente cupo e triste, ora pareva essere addirittura allegro. A Gianni venne perfino il sospetto che quello che aveva di fronte non fosse nemmeno lo stesso Alex che veniva a scuola con lui.

A un certo punto, anche la donna seduta si mise a sorridere, probabilmente per effetto di qualcosa che il ragazzo le aveva detto e in quel momento Gianni non ebbe più alcun dubbio. I sorrisi di quelle due persone erano identici, come quelli di due fratelli o forse, molto più probabilmente, come quelli di una madre e di un figlio!

Improvvisamente tutto si fece chiaro nella mente di Gianni. Alex si prendeva cura della madre inferma quando suo padre non c’era e questo era il motivo per il suo carattere schivo, cupo e scostante.”

“Ma perché non voleva fare amicizia con nessuno però? Cosa c’entrava la sua mamma?”

“Vedi Andrea, quando siamo davvero amici, si finisce per confidarsi e per raccontarsi tutto, sia quello che ci fa piacere sia, soprattutto, quello che ci preoccupa e ci fa soffrire. Così, se Alex fosse diventato amico di qualcuno, avrebbe finito inevitabilmente per condividere tutto quello che invece lui voleva tenere solo per sé e questo era il motivo per cui preferiva la solitudine rispetto all’amicizia degli altri.”

“E poi cosa successe?”

“A quel punto si era fatto tardissimo e Gianni sarebbe dovuto tornare a casa di gran carriera, certo che gli sarebbe ugualmente toccato il rimprovero per quel ritardo che tanta ansia aveva procurato a sua madre. Prima di andarsene però prese uno dei due cioccolatini dalla cartella e lo depose sulla soglia della casa di Alex in modo da farglielo trovare la mattina seguente quando fosse uscito per andare a scuola. Poi scappò via correndo più veloce che poteva.”

“E quando arrivò a casa sua mamma lo sgridò?”

“Quando la sua mamma lo vide ritornare a casa correndo, fu così contenta di constatare che fosse sano e salvo e che nulla di male gli fosse accaduto che tutta l’arrabbiatura le passò all’istante e quindi si limitò a dirgli di non farlo più, naturalmente solo dopo averlo abbracciato stretto stretto. Lui le raccontò tutta la storia, le disse di come aveva scoperto dove abitasse il suo compagno, del fatto che si prendesse cura della madre malata e di come apparisse allegro e sorridente quando stava con lei. La mamma gli disse che non era mai una bella cosa spiare le persone ma che lui avesse fatto tutto ciò solo ed esclusivamente a fin di bene rendeva, il suo comportamento meritevole di essere perdonato.”

“E la storia finisce così?” chiese Andrea con gli occhi che ora si stavano impastando di sonno ma che la curiosità continuava a tenere svegli, ancorati alla narrazione.

“A te sembra finita?”

“Secondo me no. Non è finita.”

Suo padre sorrise. Anche lui si stava appassionando a ciò che si stava inventando passo dopo passo.

“Il giorno dopo Gianni entrò in classe, si sedette al suo banco e aspettò che il suo compagno arrivasse. Era un po’ inquieto per non dire addirittura impaurito pensando alla reazione che Alex potesse avere avuto vedendo il cioccolatino che gli aveva lasciato sulla soglia il giorno prima. Forse era stato imprudente a fare una cosa del genere e magari Alex ora sarebbe stato in collera perché aveva capito che lui aveva scoperto dove viveva e aveva anche visto come si prendesse cura di sua madre che stava sulla sedia a rotelle. Più ci pensava e più si sentiva preoccupato e in ansia per ciò che Alex avrebbe potuto fargli. Oramai però le cose erano andate così e non c’era altro da fare che aspettare.

Le lezioni stavano per cominciare e, come sempre sul filo dell’ultimo minuto, Alex fece il suo ingresso in aula. Era paonazzo e sudato per la corsa che aveva fatto come tutti i giorni passati e venne a sedersi al suo posto senza dire nulla a Gianni.

“Forse il cioccolatino non lo ha trovato. Magari qualche cane randagio se lo è mangiato o il vento lo ha spostato facendolo cadere nell’erba alta” si disse e in cuor suo si augurò che fosse andata proprio così.

Una volta appoggiato la cartella, però, Alex iniziò a rovistarsi nelle tasche e, dopo pochi ma interminabili istanti, depositò proprio di fronte a Gianni, la carta stagnola mezzo dorata e mezzo argentata che avvolgeva il suo cioccolatino.

“Me lo hai lasciato tu vero?” disse, ma la sua voce era tranquilla e non mostrava né rabbia né collera.

“Sì, sono stato io” disse Gianni. “Lo avevo preso per te.”

I due ragazzi si guardarono per qualche istante negli occhi. Grandi, lucenti, chiari e allegri quelli di Gianni, piccoli e scurissimi quelli da animale selvatico di Alex. Per qualche istante si specchiarono gli uni negli altri finché l’espressione del ragazzo che era venuto da poco in paese si sciolse in un sorriso improvviso e luminoso.

“Era molto buono. Grazie” disse, mettendo la mano sulla spalla di Gianni, lo stesso che lo aveva seguito di nascosto e che aveva scoperto il suo piccolo, grande segreto.

La maestra richiamò tutti all’attenzione perché doveva iniziare la lezione e a Gianni parve di vedere una lacrima trasparente scendere veloce sul volto del suo compagno. Non sarebbe stato però in grado di dire se ciò fosse vero o se era solo il frutto della sua vivace immaginazione di bambino.”

“Allora sono diventati amici poi? Gianni è riuscito a ottenere ciò che voleva? Ma perché Alex non si è arrabbiato per essere stato scoperto?”

Stefano sorrise depositando una carezza sul volto di suo figlio che era, come sempre oramai, caldo per la febbre.

“Devi sapere che a volte l’amicizia segue strade molto strane. Si allaccia poi si rompe e dopo magari si riallaccia nuovamente diventando ancora più forte di prima. Pure i segreti, poi, sono una cosa che a volte può apparire molto strana. Certi di questi sono destinati a rimanere tali per sempre e altri invece scalpitano impazienti perché non vedono l’ora che qualcuno li scopra, forse proprio come quello che Alex teneva dentro di sé. Perché i segreti possono legare per sempre due persone ma possono anche divenire dei macigni così pesanti che finiscono per soffocare chi è costretto a portarli sempre da solo. Proprio come aveva fatto Alex fino a quel momento.”

Andrea socchiuse gli occhi.

“È una bella storia babbo. Ed è la prima che inventi per me. Però, a essere sincero, quella cosa dei segreti e dell’amicizia non è che l’ho capita tanto bene e credo dovrò pensarci sopra un po’. Ma forse è solo perché sono ancora un po’ troppo piccolo per queste cose.”

“Non preoccuparti. L’importante è che la storia di Gianni e Alex ti sia piaciuta e che adesso tu riesca a riposare bene.”

Andrea però non rispose. Lentamente, come una montagnola di sabbia fine che si sgretolava dopo una folata di vento, era scivolato in un sonno quieto e profondo.

Stefano si alzò proprio mentre l’infermiera entrava nella stanza per dire che l’orario di visita era finito da tempo e che purtroppo si vedeva costretta a dirgli di andarsene. Prima ancora che aprisse bocca, Stefano fece alla donna il segno del silenzio, appoggiandosi il dito indice sulla punta del naso e indicando suo figlio che dormiva, con il braccio della flebo abbandonato lungo il suo corpicino.

“Suo figlio è un bambino davvero speciale” disse con un filo di voce, sfoggiando il più bel sorriso che si andava a diluire nell’ombra di tristezza che le velava gli occhi.

“Lo so” rispose semplicemente suo padre.

“Vedrà che riuscirà a guarire anche se ci vorrà tempo” disse ancora l’infermiera e Francesco annuì.

“Certo che deve guarire, perché ho ancora tantissime storie da inventargli per recuperare tutto il tempo che ho lasciato scappare.”

NON C’ERA UNA VOLTA di Fabio Losacco

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