SETTE ERRORI di Giuseppe Caragliano

In questa storia ci sono sette errori.

Il PRIMO fu commesso proprio da Teo, che non verificò lo stato di carica delle batterie dello yacht, è la prima cosa da controllare quando si sale a bordo. Il guasto elettrico è sottovalutato: le barche, ormai, sono strumentazione elettronica che si muove sulle onde, e se ti ritrovi senza batterie è la fine. 

Teo era un pesce piccolo, provava a sguazzare in quel mondo di avidi e annoiati ricconi, ma non sempre ci riusciva.

Quel 7 gennaio, a feste finite, organizzò una giornata sulla barca che prometteva un autentico momento di benessere, che per quella gente significava semplicemente stare lontani dal loro mondo: mega ricevimenti importanti, mega affari da gestire, conferenze da manipolare, il tutto mantenendo sempre affilati i denti da squalo, ed era una gran fatica.

Quel giorno Teo (più un conoscente, una mezza sega a cui avevi dato qualche mancetta) per leccare il fondoschiena a quelle persone importanti, aveva organizzato quella giornata di relax in mezzo all’oceano: quiete e balene.

«Il mondo prima del mondo, sulle cartine non la troverete!» aveva assicurato Teo.

Una traversata di qualche ora verso K’gari, l’isola di sabbia più grande al mondo al largo dell’Australia. Niente cellulari, niente segretari o coniugi rompiballe, di loro, sulla sabbia, sarebbero state visibili solo le orme.

I sette ospiti salirono a bordo, sotto gli occhi scintillanti e avidi di Teo, scoiattolo di fronte ad una catasta di noci.

Ma anche gli scoiattoli più previdenti devono fare i conti col freddo dell’inverno che potrebbe rovinare le provviste, così le conseguenze del primo errore non tardarono ad arrivare.

A largo l’uomo si accorse dell’improvvisa avaria, non ebbe il coraggio di dire subito la verità, organizzò, piuttosto, un gioco per prendere tempo, da lì a qualche ora, infatti, sarebbero stati raggiunti da Charles che avrebbe sistemato tutto.

Charles Trun faceva affari con tutti, seguiva un unico criterio: accettava l’offerta migliore del momento. Teo aveva affittato lo yacht dalla sua agenzia, ma, vista la sua poca esperienza in fatto di barche, si era accordato con lui: li avrebbe raggiunti con un gommone per l’ora di pranzo, giusto per assicurarsi che tutto fosse a posto.

Teo, con tono scanzonato:

«Allora, … afferrate il vostro bicchiere con le bollicine, prendete posto e rispondete a questa semplice domanda: cosa salva nella vita?»

 Sembrava quasi volersi prendere gioco della situazione. A giro, ognuno di loro, avrebbe detto la sua. Chi apre bocca solo per far arrivare nei propri conti correnti un bonifico, trovò quell’attività tanto bislacca quanto stimolante.

«La Fede!» rispose Ada, l’unica buona del gruppo, possiamo dire: responsabile di diverse cliniche private, dall’indole caritatevole. Probabilmente inconsciamente rispondeva ad un bisogno pulsionale risalente all’infanzia: prendersi cura dei fratellini durante l’assenza della madre, spesso in ospedale.

Perché si trovava lì? Il motivo per cui era andata era quello che hanno in comune quasi tutte le decisioni sbagliate: le era sembrata una buona idea.

Lo scienziato Kurt Haukin curò la sua entrata in scena alzandosi lentamente, e ribatté sarcastico.

«La fede, certo… dà sempre tutte le risposte. Ma ci dica, cosa c’è tra il Venerdì Santo e la Domenica di Pasqua?»

Ada, smarrita per un istante o due, abbassò il suo bicchiere, le articolazioni del braccio cigolarono come cardini arrugginiti, e fu l’unico suono che si avvertì nel silenzio calato tra gli ospiti.

Poi, con tono fermo, l’uomo concluse:

«È nella scienza la salvezza del mondo, lo sapete bene, quando avete mal di testa prendete un’aspirina, con la certezza che poco dopo vi passerà. Nessun padre eterno vi salverà.»

Ma di quale padre stava parlando Kurt? Sembrava quasi che stesse parlando non del Dio della cristianità, quanto piuttosto del padre che abbandonò la sua famiglia quando lui era adolescente, lasciando lui, i fratellini e la madre al loro destino. Un padre che non si era rivelato certo eterno, e del quale non capiva l’assenza. E lui sentì presto l’esigenza di trovare risposte concrete da qualche parte.

In quel momento, era evidente a tutti, Ada era in errore, il SECONDO della nostra storia.

«Padre, Figlio e Spirito Santo, Tempo, spazio e velocità. Vi illudete di conoscere, eppure i Greci dicevano conosci te stesso.» A parlare in tono asciutto era Paul Klain, noto psichiatra.

«Es, Io, Super-Io, questo vi dovrebbe interessare, se non partite da voi stessi, cosa pretendete di conoscere? L’uomo può anche andare sulla luna, ma dovrà tornare sempre a sé stesso».

Loscienziato Kart, in difficoltà, articolò parole in gola che non riuscirono ad uscire, infine le sue pupille, fiamme ossidriche, incrociarono quelle di Paul.

Ma le parole dello psichiatra, composte, suadenti, avevano ipnotizzato tutti: errava Kurt a confidare nella scienza, oltre il 70% dell’universo è costituito da materia oscura, lo sanno tutti, l’uomo non riesce a trovare buona parte dell’universo.

Così, come Paul, non riusciva a trovare il motivo per cui i suoi matrimoni durassero poco o niente, e doveva tornare sempre a sé stesso: cosa c’era nascosto nel suo Es? Da troppo tempo, in fatto d’amore, era interlocutore di sé stesso.

Ma all’uditorio i suoi dubbi e le sue incertezze, ben celate dai suoi meccanismi di difesa, consci e inconsci, non arrivarono. E questo chiuse il discorso: TERZO errore, credere nella scienza.

Nella luce morente del pomeriggio la discussione si esaurì, e anche il tempo a disposizione di Teo: quell’uomo, Charles, che gli aveva affittato lo yacht e con cui si era accordato per raggiungerli, non si era fatto vivo. Forse perché la barca, in avaria, non era più dove doveva essere.

Così, Teo, due ore e innumerevoli Martini dopo, non potendo fare altro, confessò agli ospiti il problema, ma, assicurò con un sorriso fuori luogo, avrebbe risolto tutto: la piccola scialuppa a bordo lo avrebbe portato all’isola, ormai vicina, e avrebbe chiesto aiuto, non avrebbero dovuto fare altro che pazientare per poco tempo.

Le guance di Kurt si fecero rosse e le narici si allargarono, gli si avventò contro come un cinghiale di grossa stazza su un cacciatore che pensa di colpirlo facendola franca; a fermarlo fu Paul, ed è questo il QUARTO errore commesso nella nostra storia.

«Mio nonno Hans era un nazista!»

Quell’improvvisa affermazione colpì tutti. Carl Rhomer, magnate tedesco, per creare un diversivo sfoderò quella frase ad effetto, e sortito, appunto, l’effetto voluto, per far passare il tempo in attesa di Teo, si accinse a raccontare.

Dopo essersi passato la mano nei capelli di una imprecisata sfumatura di biondo, si sedette, tronfio e autorevole, come un docente di storia alla cattedra, e con la bocca impastata di catrame di sigaretta disse:

«Dalla relazione con una donna italiana ebrea ebbe tre figli. Decisa la soluzione finale, fu messo davanti a fatti che, fino a quel momento, pensava fossero questioni che riguardavano altri. Il paese di Vò era lungo il percorso dei tedeschi in ritirata, si vociferava di villaggi saccheggiati e incendiati, c’era da fare i conti coi tedeschi che si ritenevano traditi dall’Italia. Hans anticipò lo squadrone della morte a cui apparteneva, e andò ad avvisare la comunità di Vò. Ma le informazioni che portava non erano disinteressate: chiedeva qualcosa, di nascondere i figli. Li avrebbe ripresi la settimana dopo, in cambio prometteva di fare di tutto per non far passare i nazisti da lì. C’era poco tempo e Hans andò via velocemente, lasciando i figli. Vò commise un grande errore…»

Il QUINTO della nostra storia:  

«…Nel decidere in fretta, perché i tedeschi invece arrivarono. La comunità del paese aveva nascosto i tre bambini ebrei nella sua antica cisterna medievale, diventata per loro casa e luogo di gioco. Gli altri bambini del paese andavano lì, in quel posto misterioso, per divertirsi con loro.

I nazisti stavano arrivando e mentre in sacrestia gli abitanti litigavano, in attesa del loro destino i bambini attendevano in chiesa.

Furono momenti concitati, discussero animatamente: se avessero trovato i bambini ebrei avrebbero fucilato tutti! Con veemenza ognuno disse la sua: c’era chi voleva consegnarli, per risparmiarsi la vita, chi invece non poteva credere che si potesse essere capaci di mandare i bambini al macello.

In quella sala la comunità continuava a litigare, e intanto i tedeschi erano alle porte.

Mentre gli adulti non decidevano, Dora, una delle ragazzine del gruppo di gioco, riprendendo le parole che aveva sentito tante volte dalla madre, disse che quello non era posto per bambini: quando i grandi litigano bisogna andare nella propria camera. E così portò tutti, amichetti ebrei compresi, alla cisterna, dove erano soliti giocare a nascondino.

Greta, Ingo e Adelaide, i bambini ebrei, insieme a Dora entrarono nel serbatoio della cisterna, dietro la cancellata; chi faceva la conta, lì non li avrebbe mai trovati, luogo perfetto per nascondersi. Dora, non vedendo nessuno arrivare, pensò che si fossero nascosti forse fin troppo bene, e così venne fuori dalla cancellata, che richiuse accuratamente dietro di sé, andando a liberarsi, battendo la mano sul muro». 

Tutti pendevano dalle labbra di Carl, catturati dalla storia che concluse con cadenza da pulpito:

«E la piccola Dora, grazie a quell’innocente gioco, salvò i tre piccoli ebrei» e spense la sigaretta e la bocca, lasciandosi incorniciare da spirali di fumo.

Ada si accorse di aver trattenuto il fiato solo quando lo lasciò andare in un lungo sospiro liberatorio, e gli ospiti, soddisfatti, si sentirono sollevati di fronte a quel finale e, chissà perché, tutti si sentirono più buoni.

Ma è proprio questo l’ ULTIMO errore della nostra storia, perché l’epilogo non era esattamente quello che Carl aveva raccontato.

Ebbene, mentre i tedeschi perquisivano il paese e gli adulti discutevano senza agire, Dora, che aveva organizzato il gioco del nascondino, quando andò a battere la propria mano sul muro urlando tana! per liberarsi, fece anche un’altra cosa, quella che aveva premeditato: su quel muro non c’era solo la tana, c’era una sorta di volante metallico, una manovella, che Dora ruotò, azionando le paratie della cisterna, allagandola.

Mentre tutti fuggivano dall’acqua, i bimbi ebrei rimanevano chiusi dietro la cancellata del serbatoio, nel ventre della cisterna.

Dora aveva risolto una questione che gli adulti ancora dibattevano: quando arrivarono i tedeschi, nella cisterna trovarono solo acqua.

La storia di Carl si chiude qui, e si chiude qui l’idea che si possa confidare almeno nell’innocenza dei bambini. L’ULTIMO errore in questa storia è pensare che la natura umana debba necessariamente essere buona. Come certamente avrebbe potuto argomentare Paul: all’uomo importa solo di sé stesso. Freud ha sempre affermato che l’essere umano segue solo il principio di piacere. Per poi dover correggere il tiro: era ancora peggio! Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il padre della psicanalisi dovette ammettere che l’uomo non è solo Eros, piacere, procreazione, ma anche Thanatos: pulsione di morte e distruzione.

Infine, lo yatch alla deriva fu ritrovato, e non certo per merito di Teo, che se l’era svignata. Sulla barca fu trovata in vita solo Ada, ed è questo il degno finale di questa storia: a salvarsi fu l’unica buona del gruppo.

Un momento, a contar bene gli errori nella storia sono solo sei.

È stato commesso un errore?

È questo il SETTIMO errore della storia?

No, il SETTIMO errore è ancora una volta pensare che l’essere umano possa essere buono. Vedete, anche quando l’uomo fa l’elemosina, c’è da chiedersi: lo sta facendo per aiutare quel povero cristo… o per sentirsi solo a posto con sé stesso?

Ebbene, quello che sto per raccontarvi farebbe appassire perfino i candidi fiori della tappezzeria delle accoglienti, amorevoli camere delle cliniche di Ada; e il sonno sarà per voi la conquista più ardua.

La donna, col suo sguardo buono, fregò tutti, chi non morì di sete o fame fu ingannato dal suo fare mite, che tirò fuori dalla sua personale cassetta di pronto soccorso gli attrezzi giusti: veleni e quant’altro, per eliminare i concorrenti di quel tragico gioco della sopravvivenza, cibandosi della loro carne, in attesa dei soccorsi.

Ma non lo fece per lei, lo fece per dare la speranza a quella povera creatura che portava in grembo. 

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