RAGAZZE E INNAMORATI di Alberto Baschieri

La chiesetta si trovava sul culmine della montagnola, là dove la pianura dà spazio alle colline brulle, dove le case si fanno più sofisticate e costose.

Un tenero vento autunnale aleggiava su di loro, avevano lasciato il telefono a casa e avevano portato con loro due giacche, poiché le previsioni avevano annunciato pioggia, che fino ad allora però non aveva accennato a farsi vedere.

Lui odiava, disprezzava la pioggia, come se ad ogni goccia venisse colpito da dell’acido o da una fattura malefica. A lei non faceva più di tanto differenza, tanto che aveva proposto di andare su in bici, ma no, niente, lui era stato irremovibile, non avrebbe permesso che dell’acqua interferisse con quella che si prospettava essere una delle giornate più belle della sua vita – sino a quel momento almeno.

Avevano lasciato la macchina nel cortile della chiesa, lei, appassionata d’arte – nonché studentessa all’accademia di belle arti – era rimasta incantata da quella fulgida e pittoresca visione, e si era accinta a fare delle foto con la macchina fotografica, continuando a ripetere “aspetta un attimo, per favore”, “questa è l’ultima, l’ultima dai giuro”.

Lui all’inizio era spazientito ma poi si era rassegnato e si era messo in disparte a fumare una sigaretta.

Dopo una decina di minuti lei gli fece cenno di aver terminato il servizio fotografico e commentò giuliva con lui circa il fatto che era proprio difficile trovare uno stile romanico così armonioso in una città così piccola e sconosciuta; lui annuì, sputò per terra e controllò che la macchina fosse chiusa per bene, senza farsi vedere buttò la sigaretta in un tombino prospiciente alla chiesa. Sapeva che, se lei lo avesse visto probabilmente – senza esagerare – gli avrebbe chiesto di togliere subito la cicca da lì, a costo di fargli smontare il tombino.

I capelli di lei erano biondi, risplendenti alla luce del sole, causavano un effetto ottico quasi accecante, li aveva raccolti in una coda ordinata e sebbene in quel momento stesse sudando, riusciva miracolosamente a donare allo spettatore un quadro di immutabile serenità, la fatica non poteva intaccare la sua bellezza.

Lui la guardava e non sapeva definire, troppe poche parole conosceva per una visione così ampia e celestiale.

Tra i due saranno trascorsi dieci anni come minimo, lei aveva un’età che di poco gli avrebbe potuto evitare la denuncia – se si fosse saputo – lui già sui trenta avanzati.

Si erano conosciuti per caso, forse in centro, forse in facoltà da lui, forse in accademia da lei, forse li aveva fatti incontrare un amico in comune, forse si erano visti ad una fermata dell’autobus.

Non si poteva dire neppure chi avesse fatto il primo passo; lui giurava di averla stregata con i suoi muscoli e la sua fuoriserie, lei avrebbe potuto ribattere dicendo che era troppo superiore a queste cose e che tali mezzi la lasciassero indifferente. Lei diceva che fosse stata la somiglianza fisica con il padre a lasciarla senza parole alla vista di lui, lui non capiva, annuiva e si accendeva una sigaretta.

Lui rispondeva al nome di Marco, ma tutti in paese lo chiamavano Daniel, perché – e su questo era pronto a metterci la mano sul fuoco – si diceva che a dodici anni fosse riuscito a bere un’intera bottiglia di Jack Daniel’s senza finire per forza al pronto soccorso. Marco l’aveva messa al corrente di quella storia che per lui corrispondeva in tutto e per tutto ad un vero e proprio mito fondativo, lei aveva sorriso e gli aveva dato un bacio sulla guancia senza proferire parola.

Lasciarono il piazzale della chiesa e si inoltrarono nel bosco, una luna pallida ed imbarazzata, colta nell’atto di spogliarsi dalle nuvole rischiarava il loro cammino.

Lei cominciava ad attaccare un pezzone su quali fossero le fasi lunari e su che importanza avessero per l’emotività dei segni zodiacali, lui annuiva e si accendeva una sigaretta dietro l’altra – se avesse continuato così, ben presto sarebbe rimasto senza.

Durante il loro percorso incontrarono una coppia di giovani cerbiatti che tagliò loro la strada, per poco non vi fu una colluttazione. Marco per fare lo stupido e per far star lei zitta che parlava ancora delle fasi lunari fece finta di imitare il verso del cerbiatto, entrambi alla fine scoppiarono a ridere, lei si avvicinò al lui, ancora sorridente e gli appoggiò un bacio sulla fronte.

Per la prima volta in tutta la serata si presero per mano, come due mondi opposti ma collidenti si abbandonarono l’uno nelle braccia dell’altro, non era amore, forse non era nemmeno affetto, delle volte si prende solo in prestito lo spazio vitale dell’altro, senza bisogno di dietrologie o senza che ci siano significati più profondi.

Marco sentì un brivido alla gola, partire da lì per poi estendersi a tutto il corpo, essendo la prima volta che provava quella sensazione tentò per un momento di ostacolarla, come quando al mare prendi un’onda di petto per dimostrare di essere più resistente delle forze ancestrali.

Sentì pian piano sempre più forte un caldo viscoso strisciargli nella pancia, mentre il suo pene esplodeva in una erezione clamorosa, non sapeva se provare vergogna per un comportamento così istintivo o se glorificare il momento e slacciarsi i pantaloni. Nel dubbio si appoggiò al terreno, tirò fuori una sigaretta e si mise a contemplarla.

Lei rispondeva al nome di Alice, la sua carta d’identità diceva che stava per compiere vent’anni. Qualcuno nel bagno maschile dell’accademia aveva scritto il suo numero di cellulare. Da quel momento la sua popolarità era scoppiata alle stelle.

Non che la vicenda non avesse avuto un impatto sulla sua vita dato che da lì a poco aveva cominciato ad avere problemi di anoressia, bulimia ed autolesionismo.

Non sapeva bene come avesse incontrato Marco, probabilmente era troppo ubriaca per ricordarselo. Nella sua fantasia Marco aveva aperto una caccia all’uomo alla ricerca di colui che aveva osato scrivere il suo numero di cellulare nel cesso dei maschi, e nel compimento di queste gesta aveva picchiato chiunque avesse osato parlare male della sua fanciulla.

Niente era più lontano dal vero.

Marco proveniva da una famiglia benestante – abbastanza benestante da potersi permettere un figlio che a trentun anni ancora cerca di barcamenarsi tra un lavoretto e l’università, cambiando anno dopo anno facoltà. Aveva una sorella che studiava fotografia a Milano e che cambiava macchina fotografica ogni semestre, ragione per cui, quando era venuta a sapere della frequentazione del fratello, lo aveva spinto a regalare ad Alice una delle sue macchine non più usate.

Ad ogni modo a Marco dei suoi bisogni di attenzione, delle sue voragini affettive e delle sue necessità difensive gliene importava poco o forse nulla.

Per non venire meno alle sue funzioni di pseudo fidanzato quando veniva a sapere che lei si era tagliata le diceva “mi dispiace” e si limitava a darle dei baci sulle cicatrici. Quello era tutto ciò che avrebbe potuto e avrebbe voluto fare, di sicuro non si sarebbe messo in crociata contro il mondo solamente per Alice, ma non per scarso interesse verso di lei, non lo avrebbe fatto per nessuno.

Ovviamente di sesso guai a parlarne. Alice aveva troppa paura e poi ultimamente gli diceva di quanto traumatizzante fosse per lei svegliarsi tutte le notti imperlata di sudore dopo aver sognato di venire violentata da bande di ragazzini.

Di ragazzini nella loro zona non ce n’erano e quelli che c’erano erano tutti educati e viziati, nessuno serbava dentro di sé la volontà anche solo di far male ad una formica; proprio per questo Marco non capiva da dove queste preoccupazioni venissero fuori, lui annuiva, le baciava il braccio e si accendeva una sigaretta.

Continuarono a camminare per un po’, il sentiero prima andava a destra, per poi sterzare a sinistra, come una biscia irrequieta si inoltrava nella foresta; ad un certo punto arrivarono in uno spiazzo, alla loro sinistra faceva capolino il giardino di una villa. Il lungo e spesso filo spinato arrotolato sull’estremità della recinzione la diceva lungo sulla premura dei padroni di casa.

Dall’interno della villa proveniva una musica a tratti soffusa a tratti dilagante.

“È quella canzone” disse lei, schioccando le dita per ricordarsi meglio il testo “Si dai, è ragazze e innamorati, di quel cantante che ha vinto Sanremo l’anno scorso”, lui annuì e spense la sigaretta sotto lo scarponcino. Lei intanto continuava a cantare la canzone, ballando al ritmo della musica. Sulla destra proseguiva il sentiero, Marco le fece cenno di continuare. “Ancora un po’ “fece lui, con voce trafelata “E poi torniamo indietro, te lo prometto”.

Lei per tutta risposta gli confessò che non era un problema, aveva già avvisato a casa che non sarebbe tornata prestissimo.

Là, nel fitto della vegetazione, un gufo cantava beato, altri uccellini pigolavano sornioni, la natura si preparava per la notte. Dopo qualche centinaio di metri il sentiero arrivò ad una biforcazione, convennero entrambi che fosse il caso di tornare verso la macchina. Marco si sedette e si accese una sigaretta. Lei si sdraiò sulle sue gambe e cominciò a giocare con i suoi capelli. Pure alla luce della luna risultavano dorati, lui la osservava stregato.

Lui la abbracciò, le baciò la testa e la strinse, dapprima piano, poi sempre più forte, il cambiamento di intensità fu repentino, probabilmente il cervello di lei non ebbe neppure il tempo di processare cosa stesse accadendo. Lei diventò paonazza, le parole si fecero più lievi e diedero spazio ai mugolii che a loro volta diedero spazio ai singhiozzi, un po’ di bava bianca come la neve le uscì dalla bocca. Lui con un braccio stringeva e con l’altra mano le accarezzava i capelli, andando avanti e indietro con il corpo, come si fa quando si cullano i bambini piccoli.

Da un albero lì vicino un uccello cantava sereno, indifferente a ciò che stava vedendo, quando decise che il tempo era ormai maturo, volò via nel cielo plumbeo.

Marco la lasciò, il corpo ormai non si muoveva più, niente spasmi, niente riflessi, la faccia di Alice stravolta a cui lui aveva donato l’immortalità chiudendole gli occhi. Frugò nelle sue tasche, prese le chiavi della macchina, prese la macchina fotografica e poi con un piede le tirò un calcio sulla nuca: nessuna risposta.

Si abbassò al livello del terreno, le baciò le cicatrici e poi si accese una sigaretta.

Come se si trattasse di un sogno da scacciare riprese a camminare verso la macchina, le mani in tasca che estraeva solo di tanto in tanto per fumare la sigaretta; la luna complice e taciturna osservava con splendore omertoso, Marco arrivò alla macchina e guidò verso la città, lontano dalle sue colpe.

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