LA FIABA DEL GRILLO D’ORO di Leonello Capodaglio

Nella parte meridionale del vecchio continente, chiamato un tempo Specchio di Luna, lungo una bella penisola che non trova eguale, dentro una fertilissima pianura, che distende molti fiumi al mare, si aggruppa, potamico in potamia, uno staterello poco noto e di scarsa importanza, dal passato e presente mediocri, e dal futuro mediocrissimo: Belprato; ma anche un quadratino di eccellente coltura, che racchiude un cerchietto d’orto stringente un triangolino di giardino.

Belprato fu abitato da un popolo di insetti, aggiornati ecologisti, bene in pace con la natura e coi sentimenti, finché una certa politica, e certe sopraffazioni ispirate dal PASAI, il partito dominante, non presero ad inquinare anche quella splendida qualità esistenziale.

È risaputo che certe zone assai produttive debbano essere oscurate ad occhi indiscreti, perché non finirà mai l’ingordigia dei tiranni.

Belprato, perciò, fu considerato una specie di limite invalicabile, pressoché identico al deserto africano per gli antichi romani, quasi vi si dovesse intravvedere il medesimo avviso di pericolo: “hic sunt leones!”

Qui si avvia la storia, meritevole di memoria e di riflessione, d’un grillo canterino. Una storia scontata in tutta discrezione, il cui senso ha sempre tramortito i più oculati giornalisti, dato che di Belprato non si videro mai filmati dell’Encyclopaedia Britannica, o scoop fotografici nei rotocalchi a tiratura nazionale.

Quel grillo si chiamava Nevuccio, ed era garzone alla bottega di Mastro Altiero, il più sapiente vecchio grillo del paese, dal quale, e nel giusto tempo, aveva appreso varie arti: poesia, pittura, e musica.

Giunto ormai alla fine dei corsi, era prossimo ad iniziar carriera, ossia ripercorrere le orme del suo insegnante, intrattenere i belpratesi nel corso delle feste paesane, con trovate sue proprie originali. Nevuccio ne era fiero e lusingato, anche se sapeva che tutta quell’arte, professata nel disinteressato paese, non l’avrebbe mai arricchito.

Sapeva, o presentiva che il suo destino sarebbe stato quello di continuare a vivere nel proprio modesto seminterrato, lasciatogli in eredità dai parenti.

Il seminterrato si trovava al numero 7 di via del Disastro.

Ricavato dal guscio di una noce, e ridotto ormai in pietose condizioni, poteva mettersi a scricchiolare, o a ballare di brutto, durante il temporale.

Ma Nevuccio si contriva tutto, al solo pensiero di tradirla e di abbandonarla, quella casa. Anzi l’amava sempre più, e giurava che non l’avrebbe lasciata o scambiata per tutto l’oro del mondo.

Essa, che conosceva il curricolo completo del casato, e che aveva udito le care nenie dei giorni migliori, era pur sempre l’altare della sua nobile razza di orologiai.

Un orologiaio fu quel bisavolo che in un maggio fiorentino, catturato e messo in gabbia proprio per la Festa del Grillo, alle Cascine, si era poi guadagnato la libertà in compenso delle molte serenate fatte al padrone. Orologiaio fu anche il nonno, combattente al fronte orientale, che successivamente aveva abbellito il seminterrato con stucchi di seta ragnola, che erano una vera delizia.

Suo padre poi ci aveva messo su l’impianto di riscaldamento, con l’acqua calda, per meglio affrontare il rigore della fredda stagione.

Ma si commiserava, il buon Nevuccio, quando pensava che il suo contributo alle migliorie di casa fosse di poco conto. L’aveva dotata soltanto di qualche dipinto, in parte di scuola altieresca, e in parte fatto dalla propria mano.

I soggetti più riusciti rimanevano: “Risate di bocche allegre” e “Boccacce di lombrico”.

Ma bisogna dire che l’orgoglio di Nevuccio era l’angolo della musica, dove poetava e suonava la chitarriglia spagnola, esercitando la propria elitra con sacrificio quotidiano. Amava pizzicarla, per accompagnarsi cantando, agli sposalizi dei migliori amici. Improvvisava delle belle melodie, che gli sgorgavano a volte allegre e altre malinconiche, tanto che qualche allegro compare della contrada lo stuzzicava chiedendogli:

“E tu, quando sposerai? Aspetti forse l’autunno? Affrettati, che tu non rimanga solo, senza compagnia”.

Nevuccio non rispondeva, o, se ne era costretto, rispondeva che era giusto il tempo di completare quel verso, di finire quel disegno, di migliorare quell’armonia.

L’avvenimento che dette origine alla nostra storia accadde la sera di un mercoledì.

Nevuccio, dopo aver cenato, era solito uscire all’aperto a contemplare la volta stellata, passeggiando su e giù per il giardino in cerca d’ispirazione. A volte si metteva a cantare per le amiche lucciole, divine grazie, anche se non disdegnava di conversare con loro, o di giocare a nascondino.

Queste fanciulline luminose lo attraevano assai, specie quando si arrampicavano per lo stelo dei fiori, per meglio ascoltare ogni sua storiella, sussurrata a fior di labbra. Il fatto di sembrare così identiche tra loro, come altrettante sorelle gemelle, eludeva spesso le sue aspettative, sicché egli finiva sempre col confonderle.

Fu proprio manovrando alcuni petali giallo-porpora della Viola del Pensiero che, certo di sorprendervi l’allegra Frizzi, lì nascosta, Nevuccio, scoprendo la corolla del fiore, disse: “Sei qui!” aggiungendo subito un meravigliato “oooh!”

Era accaduto un fatto raro. La luccioletta non c’era, e nemmeno qualche altra, ma, novità delle novità, proprio sopra la corolla del fiore, ma in lontananza, si stagliava, netta e splendida, una nuova e straordinaria stellina, che, tutta sola e soletta, stava percorrendo quella parte di cielo.

L’incantevole visione sorprese e confuse il nostro grillo, che riuscì appena, e maldestramente, a dire “Buongiorno”, ma facendo una bella e gentilissima riverenza.

“Buonasera”, gli rispose l’amabile biondina, restituendogli l’inchino. Ma mentre chinava il capo, uno dei tredici brillanti del suo diadema si sfilò, e cadde a precipizio nel giardino sottostante.

Nevuccio, da prima, pensò a una fugace lacrimuccia della bella forestiera; da seconda, al solito trucco delle ragazze, per attirare l’attenzione degli onesti cavalieri. Ma furono considerazioni di brevissima durata, perché la stellina disse:

“Uffa! Mi si è rotto il diadema… È la prima volta che mi succede, ma intanto un brillantino se n’è andato…”

“Signorina, l’ho visto cadere qui sotto, in questo giardino. Permettete che ve lo raccolga?”

“Non importa, buon giovane; eppoi, con quest’oscurità…”

“Farò in un momento, signorina…”

“Lucina”.

“Io mi chiamo Nevuccio”.

Scavalcò la profumata siepe di madreselva, e si diresse verso il punto della presunta caduta. Fra tutti quei fiori multicolori, corolle e boccioli che brillavano di rugiada, con le numerose e giocherellone lucciole che gli tagliavano la strada, non era da poco aggiudicarsi l’importante pegno. Ma una volta tanto, la dea bendata gli venne incontro. Il brillante aveva forato il calice di un rosso lampioncino rampicante, rimanendone impigliato come una lampadina. Nevuccio lo agguantò, ritornò sui suoi passi, e disse felice:

“Eccovelo, signorina!”

Ma non ottenne risposta. Allora guardò in su, ma la stellina non c’era. Doveva essere andata via.

“È andata di là” gli disse Frizzi, indicando la Grande Quercia. “Credo sia andata a fare un bisognino”.

Nevuccio rimase lì, col brillante nel pugno chiuso, nell’atto di restituirlo, e osservava l’imponente quercia, che dominava l’orizzonte e un buon pezzo di cielo orientale. In quel preciso istante, giurò a sé stesso che l’avrebbe riconsegnato, quel prezioso, alla bella viandante.

Deciso a restituire il brillante alla legittima proprietaria, Nevuccio pensò che avrebbe dovuto scalare la Grande Quercia, e appostarsi sulla cima, perché Lucina sarebbe certamente transitata di là.

Prese una scorciatoia che passava dietro la Cantina del Bruco, ultima casa del paese, e in poco tempo si trovò sulla Via Nazionale, l’importante arteria belpratese, che conduceva diritta ai piedi della quercia, un’enorme e vitale pianta ultramillenaria, venerata da tutti come una basilica.

Sotto il colosso arboreo, che, con quelle sue fronde gialloranciate, aveva un’imponenza da montagna, Nevuccio dovette fermarsi. Trovò una gran ressa di visitatori e pellegrini, convenuti per la festa del Solstizio d’Estate, che annualmente veniva celebrata in quel 21 giugno.

Si accorse che, oltre a fare pazientemente la fila, bisognava versare ai dazieri una tassa per la salita.

Da una parte c’era chi saliva, da un’altra chi, ben ordinatamente, scendeva. Nei pressi stazionavano molti ambulanti con le caratteristiche bancherelle che esponevano di tutto. C’erano anche dei pittori che vendevano qualche tela ragnola che rifletteva l’arcobaleno.

C’erano poi dei cantastorie, dei venditori di clorofilla soffiata, un domatore di lombrichi con un ranocchio addomesticato che faceva il verso del cane. Non mancavano i venditori di souvenir, soprattutto di ghiande bruciacchiate, o palline dolci fatte coi carboni e date per reliquie di asteroidi.

Nevuccio si era accodato dietro a una processione di formiche, che trasportavano come ex-voto dei verdissimi afidi, molto belli e pasciuti. Al posto di blocco dei dazieri, portò le zampette alla borsa, ma a parte il brillante di Lucina, non trovò alcun soldino. Così fu costretto a tirarsi fuori dalla fila dei paganti.

“La ringrazio, signore, per avermi ceduto il posto”, disse un giovane moscone, che aveva tutta l’aria di uno studente del seminario.

“Oh, ma il fatto è che vorrei salire per altra via”.

“Accipicchia, quali stranezze si ascoltano al giorno d’oggi. Di quale via state parlando? Non esiste altra via, all’infuori di questa”, disse il seminarista, con l’aria di chi la sa lunga. E aggiunse: “Sta scritto anche qui, su questo dèpliant distribuito dall’agenzia turistica. Non vi pare che, se ci fosse stata un’altra via, non ve l’avrebbero indicata?”

“Voglio salire dalla parte meridionale, cioè da quella opposta”, ribattè Nevuccio.

Il giovane moscone, quasi spazientito, lo squadrò con certi occhiacci severi e sbalorditi, e, tagliando corto, completò: “Signore mio, chi segue storielle utopiche può tranquillamente prendere lucciole per lanterne. Mi creda, l’unica e sola verità è che la quercia ha una faccia, questa che ci è di fronte, e che è un lato piatto. Volete forse farmi intendere che il tronco è cilindrico? Sarebbe assurdo, credete, velo dice Bellasìno”.

E mentre veniva fatto passare gratis dal daziere, borbottava sconsolato: “Ah, non c’è più religione, Santa Pazienza”.

Fidando in sé, e tenendo ben stretta la borsa, Nevuccio si scostò da quella calca. Superate le reti di alcuni sbarramenti, e passando oltre un intrico di vegetazione incolta, venne a trovarsi ai piedi della negata parte meridionale, cioè di quella parte ufficialmente inesistente del tronco quercino.

Iniziò ad arrampicarsi.

La salita della parte inesplorata, si rivelò quanto mai facile, tranquilla, e priva di ogni rischio. La vista poi era di una bellezza indicibile.

Quando fu molto in alto, Nevuccio pose lo sguardo in giù, e vide, miniaturizzata come un presepe, la contrada di Frana del Buco; più in là intravvide Quelcampo, il paese rivale. Ma capì che per scorgere la sua casetta, coperta dal poderoso fusto, doveva scostarsi di fianco, e procedere nella direzione dell’obliquo orizzonte.

Fece questa deviazione lungo le rughe della corteccia, ed ecco che, proveniente da un groppo della scorza, udì un cantar di canzone, accompagnato da suoni di violino e viola decisamente scordati. Chi mai poteva dilettarsi a far musica a tale altezza? Si avvicinò al groppo, lo scalò, e vide con stupore, nell’anfratto del nodo, una bella casetta di montagna di color granata con un attiguo praticello all’inglese e con la cinta di una siepe di profumatissimi fiori giallorossi. Nel bel mezzo, intente a far canto e musica, stavano due belle cicale.

“Su cantemo, lallallà

così l’ore le passerà…”

La più piccola, tutta vestita d’azzurro, e che diceva di chiamarsi Rincote, era assai bella; l’altra, in età da marito, sapientemente truccata e che vestiva un chitone zafferanato, si chiamava Emitta.

Nevuccio non tardò a comprendere che, da come suonavano, le due cicale non fossero altro che delle studentesse; tuttavia, credette di dover dimostrare un poco di curiosità per quelle strane musiche.

“Sapete, signorine” disse in modo semplice, “m’intendo un pochino anch’io di musica. Canto ai matrimoni accompagnandomi con la chitarra”.

“Noi, invece, stiamo provando la pavana di Caldara, che suoneremo nelle pause della Finalissima di questa notte”, disse Emitta.

“Una Finalissima?” chiese Nevuccio.

“La Finalissima della Coppa Universo di tenniscivolo tra la Signora Luna, detentrice, e il Signor Sole, sfidante”.

Intervenne l’azzurra Rincote:

“Resta con noi, trovatore…”

“Fermati qui”, aggiunse Emitta. “Potremo lanciarti come cantautore. Tu certo non sai che noi tre siamo molto importanti. Al momento giusto potremmo buttarti fuori dalle quinte, così il mondo intero ti conoscerà”.

“Mi vedranno anche da lassù?” chiese lusingato Nevuccio, con la mente rivolta alla stellina.

“Cosa dici? Oltre la Ghianda d’Argento della sommità, vivono delle sagome d’aria, degli smemorati e sbadati sovrappensiero: gente poco divertente e poco interessante”.

“Resta con noi”, replicò la bella Rincote.

“Dopo la gara, torneremo qui. Faremo uno spuntino con canto e ballo, dopodiché, quando attaccherà lo spettacolo pirotecnico di Quelcampo, ce lo godremo tutt’e quattro, a pancia all’aria sul letto, per la migliore vista del cielo stellato”, spiegò Emitta.

“Hai detto: tutt’e quattro?” chiese Nevuccio.

“Hai capito bene, bel forestiero!” rispose una terza cicala, appena sopraggiunta. Una vecchina che sorridendo metteva in mostra un dente sì e due no, e che aveva un che di sinistro, di stregonesco. Era o non era quella la Notte di San Giovanni? “E’ Austra, nostra sorella maggiore”, intervenne la più giovane cicaletta.

“Un tempo studiavo anch’io musica, il violoncello. Poi, per campare, dovetti vendere lo strumento… Ai miei tempi, non c’era tutto questo benessere; e le estati erano corte e di fuoco… Ed ora mi sono messa il cuore in pace”, narrò Austra con voce mesta.

“Ti vuoi decidere?” lo supplicò Rincote.

Finalmente Nevuccio rispose:

“Proprio non posso, care amiche. Ho un impegno con una signorina…, che abita lassù… Una specie di commissione, che vorrei tanto sbrigare. Credetemi, e vi ringrazio per l’invito”.

Nevuccio lasciò il prato delle tre cicale, e proseguì l’avventura.

Nevuccio arrivò finalmente sulla cima della Grande Quercia, presso la Ghianda d’Argento, che incuteva davvero il più sacro rispetto, e vi si appostò attendendo il passaggio di qualche nuvoletta, che lo trasportasse più in alto nel cielo. Sperava anche nell’aiuto di qualche buon uccelletto, di certe rondini, che di sera intrecciano lunghi ed allegri svolazzi.

Più sotto, saliva il brusìo dei turisti che circondavano le rade ghiande. Alcuni facevano una breve sosta di raccoglimento, altri guardavano il paesaggio che sottostava alla vertiginosa altezza, altri ancora si ristoravano.

Nevuccio credette di scorgere il seminarista Bellasìno. Stava a capotavola di una mensa ed impartiva le sue dottrine agli altri conviviali, col buonumore di chi è assistito da un interminabile appetito, che le buone arie dovevano avergli stuzzicato.

Più passava il tempo, più Nevuccio pensava a quanto dettogli da Mastro Altiero, e finiva col dargli proprio ragione. Il cielo non era affatto prossimo alla sommità della Basilica Arborea; e neanche da qui lo si poteva toccare. Intanto si era fatto nero-pece.

Nevuccio fu preso dallo sconforto, perché era evidente che Lucina non sarebbe né uscita né passata di lì. Allora, per lasciare una traccia dell’inutile suo gesto, si avvicinò alla Ghianda d’Argento e v’incise un bel cuoricino, impigliandovi dentro una L ed una N.

D’improvviso si accesero dei fari e si udirono dei fragorosi schianti. I domestici della gran Casa del piano celeste si erano messi alla bell’e meglio a sparecchiare la tavola. Si udì un rotolìo nervoso di botti e paioloni di ferro, e un volo incurante di piatti e stoviglie.

Si ebbe l’impressione che, nel gran tramestìo, andasse rotta qualche pregiata coppa di cristallo. Quei frettolosi domestici avevano aperto tutte le porte e le finestre del palazzone, per arieggiarlo, ma veniva giù una corrente d’aria fredda che metteva i brividi. Qualche lampadina scoppiò certamente, altre baluginavano fioche. Fece seguito il crepitìo di vari cortocircuiti, che fecero saltare del tutto l’elettricità.

La quercia fu percorsa da un lungo tremito e cominciò ad ondeggiare, curvandosi alternativamente a destra ed a sinistra.

Addio gara, pensava Nevuccio, mentre veniva schiaffeggiato da prepotenti ventate, talmente prepotenti che molte foglie, ghiande, e rametti, schizzavano via all’impazzata, in tutte le direzioni.

Nevuccio, sbalzato dalla Ghianda d’Argento, trovò di aggrapparsi ad una solida foglia, ma un bagliore colossale, seguito da una cannonata, spezzò quel ramo. La foglia volava in caduta libera. Per cercare l’insperato salvataggio, egli doveva improvvisarsi pilota acrobatico d’aviazione, e guidare la provvidenziale foglia come un aliante.

“Sono veramente inviperiti” pensava Nevuccio mentre guidava la foglia, tra sfere di ghiaccio e liquori di brindisi avanzati, in un caos di briciole, frammenti e minutaglie. “Però non dovrebbero gridare tanto forte” sbottò mentre era rincorso da un lunghissimo mugugno del contrariatissimo maggiordomo.

Le vampe e l’esplosioni continuavano ad alternarsi, mentre ogni insetto ed ogni cosa precipitavano in quella specie di mattanza aerea.

“Se questa è una partita…” si lamentava Nevuccio mentre alla guida della foglia-aliante veniva giù in tondo e preda di un tale giramento di testa da non credere. Gli sembrava di sentire altre voci di pellegrini che chiedevano soccorso.

Udì il seminarista tirare moccoli come filastrocche. Lo vide poi aggrapparsi disperatamente ad Emitta, e volare via, ben saldo sopra di lei, verso un duale destino. Rincote, la graziosa cicaletta, la vide portata via da un vortice d’aria contraria.

Nevuccio riuscì infine a planare sopra un campo di frumento, che, prossimo alla trebbiatura, era stato completamente sconvolto.

La foglia era tutta sforacchiata, ma egli era salvo, tutto d’un pezzo. Mise mano alla borsa, e si rese conto amaramente che il brillante della stellina non c’era più.

Dopo quella nottataccia, Mastro Altiero aveva un bell’attendere l’arrivo di Nevuccio, suo garzone di bottega. Infatti, egli non si presentò né alle 8 né più tardi. Un fatto di per sé eccezionale, dato che godeva fama di insuperabile puntualità; non per niente era di razza orologiaia, per la quale la precisione era una questione vitale, d’impegno primario.

Fu naturale, per il saggio maestro, pensare a problemini di carattere… stellare.

“Eh, già!” pensò ad alta voce. “Se il grillo di sera gorgheggia, di mane non poco folleggia…

Il fatto è che a Mastro Altiero servivano varie commissioni: certe mercanzie, ali di fata per un polittico e quel blu lapislazzulo in vendita alle mercerie delle Sorelle Coccinelle. Sicché, quel mattino, gli toccava di provvedere di persona, ai propri acquisti.

Ma per prima cosa, sarebbe passato per Via del Disastro.

Recatosi lì, trovò per coincidenza la lucciola Frizzi, la quale sapeva per filo e per segno le ultime mosse di Nevuccio. Infatti, gli riferì alla svelta della stellina, del brillante cadutole, e della volontà di Nevuccio di arrampicarsi su per la Grande Quercia.

Mastro Altiero sapendo che Frizzi era pettegola quanto bastava, e non del tutto ordinaria per i suoi gusti, finse di crederle all’istante. Rimaneva pur sempre la buona amica del suo garzone, quindi quasi affidabile.

Udito il resoconto, Mastro Altiero s’incamminò preoccupato in direzione del colosso arboreo.

Mentre si avvicinava, passando per la Via Nazionale, sentiva un brusìo lamentoso che aumentava, un piagnisteo di sofferenti. Incontrava indaffaratissime formiche-infermiere e gendarmi-cavallette ai posti di blocco che ispezionavano i passanti.

Il limite invalicabile fu posto a un chilometro dai piedi della quercia; l’orizzonte era un autentico scenario da tragedia.

Qua e là giacevano delle povere creature o morte o ferite, sparpagliate fra cumuli di detriti arborei, frammenti di foglie straziate, innumerevoli ghiande divelte, e reperti pulviscolari d’ogni genere, che la furia del turbine aveva spazzolato alla peggio, con i suoi macabri mulinelli.

Farfalle, zanzare, vespe, mosche, forbicine, ragnetti, cicale, ed altri insetti giacevano a terra, vittime paralizzate nell’estremo loro gesto di riscatto.

Una giovane cicala, che era proprio Rincote, piagnucolando diceva:

“Ed ora, che sono sola al mondo, come farò, dove andrò?”. Mastro Altiero la vide, le si avvicinò e, con voce calmante le disse:

“Mi pare di conoscerti, bella cicalina. Il tuo viso non mi è nuovo. Sei mai stata al Guasto, al concerto della banda di Quelcampo?”.

“Sì. Ero io la presentatrice della serata, e voi siete sicuramente Mastro Alterigio, il poeta che vi è stato laureato.

Ricordate? Lessi io la vostra poesia intitolata “Umanità Demente”. Che bella! Ancora me la ricordo:

Umanità demente,

balorda e sanguinaria,

che irridi il meno abbiente

e tasse poni all’aria…”

Mastro Altiero, che stava sulle spine per Nevuccio, l’interruppe dicendole:

“O cara giovinetta, non è tempo, questo, di lirica. Mi preme di ritrovare il mio aiutante. Quanto a te, se verrai con me, ti darò asilo ed istruzione”.

Rincote gli mise le braccia al collo, con molto trasporto. Lo baciò, e gli rispose:

“Mille grazie, nonno Alterigetto. M’insegnerete anche le canzoni? Vorrei diventare la più acclamata diva delle prossime estati”.

“Cantare? Vedremo”.

“A dirla franca: la mia passione è fare le imitazioni; ma suonare la batteria è il mio sogno. Mi aiuterete, nonnino mio?”.

Al canonico Mastro Altiero non dispiacque tanta vocazione, e scusò i precoci bollori per quel volitivo entusiasmo, che la piccola cicala sprigionava. La prese sottobraccio, e la condusse a fare un sopralluogo sul posto della catastrofe.

Immaginarsi la sua felicità, quando vide comparire tra le macerie, sano, anche se alquanto malandato e stralunato, il nostro grillo Nevuccio!

“Maestro mio, sarò da voi, non appena avrò terminato di visitare tutte le ghiande cadute questa notte” gli disse Nevuccio con fare misterioso e preoccupato.

E la cosa, la fece veramente, sotto gli occhi increduli di Mastro Altiero e di Rincote. Rivoltata e scrutata che ebbe anche l’ultima ghianda, tirò un sospirone di sollievo, e rassicurato si affiancò ai due.

“Questa cicala piange le sorelle” gli disse Mastro Altiero.

“Sei Rincote, vero? Ci siamo conosciuti su al Prato di Mezzo. Credo proprio di avere una bella notizia da darti: tua sorella Emitta, è viva. Se n’è volata via con un giovinettone in groppa…” Poi Nevuccio, dietro lo sguardo interrogativo di Mastro Altiero, si decise di confessare, nei minimi dettagli l’ultima vicissitudine.

Presero la via del paese. Al bivio di Largo Asparagiaia i tre si separarono. Altiero e Rincote procedettero a destra, Nevuccio a sinistra, tra due colonne di soldati e infermieri.

Inutile dire quanto Nevuccio aspettasse l’imbrunire di quel giorno, tanto era ardente il suo desiderio di rivedere la stellina. Ma Lucina sarebbe mai ripassata di lì? Gli avrebbe mai tenuto il broncio, per la mancata restituzione del gioiello?

Appostatosi sopra la siepe, nel lato sud del giardinetto, egli scrutava il cielo del tramonto; e già apparivano le prime luci celesti, come quelle di una festa lontana. Contemplava e numerava i vari pianeti e le diverse costellazioni estive, fintantoché un puntolino raggiante iniziò a muoversi verso di lui.

Sì. Era per davvero Lucina!

Sopraggiunse quasi con riservatezza, ma con quel suo modo unico e trepidante, anche se impallidita dalle fatiche del viaggio, in quel suo vestitino di seta d’argento, e quell’aria veramente perbene! Si fermò graziosamente nel bel mezzo del cielo, proprio di fronte a Nevuccio.

Egli subito le disse buonasera, nel modo più gentile e distinto; ella, disponibile e lusingata, gli ricambiò il saluto.

“Sono dolentissimo. Il vostro brillante, disgraziatamente, l’ho perduto in cima alla quercia…” farfugliò Nevuccio, alla meno peggio e con molto imbarazzo. “Vi giuro che ancora alla Ghianda d’Argento ce l’avevo. Poi, in quella catastrofe… Però, là sopra, voi non c’eravate mica…”

“Avevo il mal di gola, e, siccome tirava un forte vento siderale, ho dovuto restare al chiuso. Ma non datevi cruccio alcuno per quella perdita. Con 13 o con 12 brillanti, continuerò ad essere sempre me stessa, non trovate?”

“No, cioè sì… come dite voi, Lucina. Comunque, affinchè mi perdoniate pienamente, vogliate gradire questo bouquet di profumate rose rosse”.

“Oh, le vedo. Peccato che debba limitarmi ad osservarle. Ma ne immagino tanto la fragranza…”

“Qualcosa è possibile. Il mio maestro mi ha spiegato un sistema di sua invenzione. State a vedere”.

Detto questo, in un batter d’occhio, Nevuccio estrasse uno spremi-agrumi, recise la rosa più bella, e con quella la pigiò roteandola. Poi, aspiratovi con un contagocce l’essenza liquorosa, ne irrorò la chitarriglia, una stilla per ciascuna corda, e si mise a pizzicarla, facendo salire al cielo con la musica, anche la fragranza imprigionata nelle note.

“O che soave profumo di rose musicali! E che voglia di frittelle e marmellate, mi fate venire, caro Nevuccio’, disse Lucina, col viso estasiato. E aggiunse: “Però devo proprio lasciarvi, perchè sono già in ritardo, e non vorrei che mi richiamassero. Buonanotte…e arrivederci a domani”.

Ciò detto, gli strizzò con moltissima creanza l’occhio azzurrino (penso per un “tic” involontario). Nevuccio, ancor più affascinato, anzi elettrizzato da quella sorprendente garbatezza ricevuta, contraccambiò il saluto. Ma, alquanto confuso, fece uscire un curioso gre-gre, poi, goffamente un rauco cuccù. Infine, per la definitiva correzione, e colmo dei colmi, addirittura un coccodè.

Talvolta la vita finisce col divenire un’abitudine noiosa, o peggio ancora noiosissima, se è privata della naturale inclinazione alla curiosità, del vero interesse, di amorosa disponibilità. La mancanza di tutto ciò porta ad una esistenza passiva, come quella di chi subisce e si rinchiude in sé come un riccio, o come una chiocciola piccata dentro il proprio guscio salva-cornetti.

Questo si poteva comparare al tran-tran di Nevuccio prima della comparsa di Lucina. Ma da quella magica notte in poi, ogni istante della sua giornata fu colmato dalle mille risorse del suo fantasioso intelletto, sempre volto al bene ormai più caro che avesse.

Operava, e operando sognava; sognava, e sognando operava.

Superfluo mi pare scrivere quanto breve apparisse al nostro soggetto, una simile giornata di lavoro.

Nevuccio si era messo, ultimamente, a cantare anche di giorno; e, appena poteva, prendeva la chitarra, saltava in giardino, nel belvedere a lui caro, e ci dava giù da matto, pizzicando le corde più armoniose.

Il fatto attirava, al di là della siepe di madreselva, alcuni clienti fissi di quelle esibizioni, che, non visti, si divertivano un mondo a tirar mattina così, tra le ricchezze artistiche del poetare cantando.

Le sue canzoni contenevano molti “cri-cri”, qualche “èhm’, alcuni “cioè”, e qualche breve silenzio, perchè cantando s’inteneriva, e intenerendosi la voce gli si faceva sempre più flebile, fino a cessare completamente per la commozione.

Se poi ripensava a quell’audace “coccodè”, o a quel promettente “caro Nevuccio” dettogli da Lucina, le sue gote s’infiammavano, trafitte dalla più schiva costumatezza. Finiva con lo zittire del tutto, e in compagnia della propria solitudine, subiva involontariamente i commenti, spesso grassi, di quegli ascoltatori, appostati, come ho detto, per abitudine sul sentiero sottostante la siepe.

“Secondo me, che non sono l’ultimo arrivato”, sentenziava una voce rancorosa, “la sua arte migliore sarebbe quella di ricaricare pendoli e sveglie”.

“Già, il viziaccio di famiglia”, faceva eco un’altra vociastra.

“Un vizio ereditato dal padre, che, non sapendoli caricare, gli orologi, finì con l’accettare solo quelli al quarzo, privi di complicate molle e rotelle. Una sciagurata attitudine che gli portò tutto il guadagno scritto sulla via…”

“Via del Disastro…”

A darsi conforto con simili, spiacevoli maldicenze, erano senz’altro Raffica, il grillotalpa, e Soffietto, la zanzara. Arricchitosi commerciando erbe velenose e proibite, l’uno; luogotenente del PASAI (il Partito dei Santi Inappetenti), Sezione Operativa di Frana del Buco, l’altro. Insomma, due insopportabili vanagloriosi, che invidiavano i continui trionfi artistici di Nevuccio, ottenuti in piena autonomia, cioè senza far loro atto di sottomissione.

Ma Lucina sì che apprezzava le sue delicate arti! E quanto desiderava la sua buona compagnia, così adatta a rendere migliori le banalità, o a surrogarle in astrazioni cristallizzate!

Durante i loro appuntamenti, essi giocavano anche a nascondino. A turno, uno dei due si metteva a contare fino al ventotto, con la testa rivolta a settentrione, mentre l’altro si nascondeva.

I nascondigli di Nevuccio erano sempre nel giardinetto: tra le felci o le rasperelle, tra le campanule o le bocche di leone; quelli di Lucina, nei paraggi di qualche nuvoletta passeggera. Ma era sempre facilmente scoperta a causa del suo diadema, che mandava un pulsare di bagliori intermittenti, come battiti di un cuoricino trasparente, o quello di un semaforo blu, che indicasse libera la via del cielo.

“Lo sapete, Nevuccio, che ho l’impressione di essere già stata qui? Ricordo bene questa quercia, la contrada, il giardinetto, la vostra casa… Tutto, insomma”.

“Come se foste rinata dopo tanti anni?”

“Preferisco credere di aver sognato, piuttosto…” A Nevuccio piaceva molto immaginare Lucina come la figliola avventurosa, magari di un re delle rondini d’oriente, e che avesse una buona percentuale di sangue blu nelle vene. E ancor più si rallegrava pensando che, il ricordo della sua nobile schiatta celeste, si affermasse tanto deliziosamente in quelle splendide forme.

Al mattino seguente, Nevuccio si recò, finalmente, all’officina di Mastro Altiero, per le consuete disposizioni di lavoro, e le commissioni da svolgere in paese.

Ad aprirgli la porta fu Rincote, più bella e più sorridente che mai, la quale, abbracciandolo, gli disse con voce contraffatta, alla mascolina:

“Ci porti rispetto, cavaliere. Noi siamo Sua Altezza la Fata Morgana, regina del reame, e comandiamo che voi vi inginocchiate ai nostri piedi, che li baciate, e che poi, con vero fervore, guardiate… all’insù”. Aggiungendo subito, ma sempre in modo provocatorio: “Non hai ancora visto qui, attorno al mio collo, che bel brillantino ho trovato, frugando tra le foglie della Grande Quercia? Adesso è mio per sempre!”

Nevuccio riconobbe il prezioso, tredicesimo brillante del diadema di Lucina, smarrito la notte della gran burrasca, e fece l’atto di pigliarselo. Ma in quel mentre comparve Mastro Altiero, che con un gesto allontanò Rincote, e con un altro ordinò a Nevuccio di avvicinarsi. Poi, guardandolo negli occhi, gli disse bonariamente:

“Caro figliolo, penso che non sia possibile trovare una soluzione al tuo problema. Tu vorresti ben scalare il cielo per raggiungere la tua stellina, anche se per noi coleotteri è un viaggio difficile, e pressoché impossibile. Noi siamo creature del mondo terrestre, non potremo mai viverci, lassù. Eppoi il cielo è lontanissimo, inarrivabile. Io stesso, che alla mia età le ho provate tutte, non ci sono mai arrivato.

Come massimo sono giunto quasi a sfiorarlo, in cima alla quercia. Ma oltre non si può proprio salire. Convinciti che, questa del salire, non è proprio una faccenda grillesca. Viaggiare all’insù è più da cavallette, e più ancora da farfalle, o da altri insetti volanti o cielicoli. Ma anche per loro, quanti pericoli! I pipistrelli, i barbagianni, le civette, e tutti gli altri nostri, ahinoi, divoratori…

Perciò ti prego di desistere, figliolo. Occupati piuttosto della tua grande arte, perché se è vero che qui a Belprato essa non rende un granché, è pur sempre vero che altrove, in foresteria, ha più considerazione e guadagno. Anzi, sono convinto che tu sia un predestinato a raggiungerlo, il cielo, quello sublime dell’Arte, che è purissimo, felicissimo, e intramontabile. Perciò accettale, queste barriere naturali, e coltiva magari la simpatia di qualche giovinetta di quaggiù, meglio ancora di qualcuna che già conosci, e che ti è vicina o vicinissima…, come Rincote, ad esempio, che ti stima e che bolle per l’arte al pari tuo”.

Nevuccio non ebbe il coraggio di commentare, nè di rispondere, tanta era la sua ostinazione su questa faccenda di cuore.

Mastro Altiero chiamò Rincote, che prontissima ed entusiasta disse:

“Oh, Nevuccio, mi accompagneresti a casa mia? Ho nostalgia dell’aria domestica, eppoi mi serve la mia trousse, e alcuni denari che tengo nascosti là”.

Nevucdo non ebbe altra alternativa che quella di dire: “D’accordo. Ti accompagnerò a Prato di Mezzo, domani”.

Nevuccio si era bell’e stancato dell’appiccicosa Rincote; ce l’aveva anche per quel suo modo di ostentare il brillante al collo.

Era per giunta contrariato per la promessa (rubata) della passeggiata a Prato di Mezzo.

Lo pensava mentre si sostentava con un po’ d’insalata verde e fresca, condita con un velo di rugiada, una consolidata ricetta di famiglia contro il mal di cuore.

Dall’attiguo giardinetto, saliva un brusìo delle bocche di leone, e un tinnìo di stupore delle amiche campanule, che l’avvisavano: “È qui, Lucina è arrivata!”.

In quattro balzi, saltando giù dalla finestra, Nevuccio si sistemò sopra la siepe, nel solito luogo, risoluto di parlarle seriamente.

Dopo i convenevoli, accordati più che poteva, disse: “Cara Lucina…”

“Sì, Nevuccio…”

“Vorrei tanto, con tutto il rispetto, farvi una domandina piuttosto importante…”

“Importante, avete detto?”

“Sissì…”

“Ma quanto importante, e per chi?”

“Tanto assai, e per me…”

“Parlate, dunque, vi ascolto”.

“Il fatto è che io sono l’ultimo della mia contrada…, da ammogliare…”

“Oooh, ma perchè mai, caro Nevuccio?”

“È perché son sempre qui da voi la sera…, ché se voi foste da me, capitemi, sono sicuro che io non sarei più da essa…”

“Da essa? Da me, o da chi altra?”

“Ma da nessuna, fatta debita eccezione per voi, madamina…” le rispose Nevuccio, deglutendo e assumendo un bel color rosso peperonato.

Lucina stette alcuni istanti silenziosa, poi disse:

“Ebbene, ascoltatemi. Io verrei ben volentieri da voi, a Belprato. Disgraziatamente…”

“Disgraziatamente? “

“…non mi è concesso di abbandonare questo luogo celeste, assegnatomi dagli attuali regnanti”.

“Ma voi, se foste libera, ditemi con sincerità, verreste veramente?”

“Sì, e volando, perché…, lo so che voi mi volete bene”.

“Lo sapete?”

“Che mi dite voi di un certo cuore rovesciato e inciso sulla Ghianda d’Argento, alla sommità della Grande Quercia? Mi son detta: questa L e questa N non possono essere altre che quelle delle nostre due iniziali…”

“Se lo dite voi è esatto. Davvero una bellissima risposta, un centro pieno! Certo che chi indovina merita un premio, o una promozione al merito. Complimenti signorina, per la giustissima risposta…” farfugliò il gasatissimo grillo.

“Nevuccio, come siete buono, caro, e simpatico. Propongo che d’ora in avanti ci si dia del ‘tu’. Anzi ti voglio dimostrare tutto il mio affetto. Coraggio, avvicinati e mettiti qui, proprio sotto di me”.

Lucina tirò fuori un flaconcino di pozione ‘d’ombra di bosco’; prese un cerchietto e lo bagnò di quella. Poi lo portò alle labbra, e soffiandovi contro, vi calò l’aroma di un delicatissimo bacio. Quindi liberò la bolla, che prese a fluttuare, scendendo verso l’inebriato Nevuccio. La bolla ‘d’ombra di bosco’, che luccicava di tutti i colori dell’arcobaleno, scese dritta sulla punta del naso di Nevuccio, e vi si infranse producendo un pacato ‘bum’. Liberò un soffio balsamico che profumava di remoti spazi siderali.

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