MISSIONE SPAZIALE di Vito Della Bona (parte prima)

Heftar Kjkruzk atterrava con la sua mini-astronave “Super-Vel” in un grande prato. Tutto intorno si estendeva una fitta boscaglia.

Nei giorni precedenti aveva viaggiato per i diversi pianeti di quel sistema, cominciando da quelli più esterni rispetto alla fonte solare, ma non aveva ancora trovato né forme di vita, né condizioni che la permettessero: assenza d’aria, mancanza d’acqua, atmosfera incompatibile, temperatura troppo bassa o troppo alta.

Era demoralizzato.

Andando verso quel nuovo pianeta, il terzultimo del sistema, aveva pensato che, anche tra gli ultimi rimasti, non avrebbe trovato nulla di ciò che cercava. Infatti, aveva richiesto ai suoi strumenti di bordo un elaborato, lo aveva esaminato, e si era quasi rassegnato perché esso segnalava che, dal punto di vista statistico, non avrebbe trovato su questi corpi celesti condizioni adatte a una qualsiasi forma di vita.

Ma su questo pianeta si sbagliava.

Quando era arrivato abbastanza vicino da poter avere una valutazione più chiara, subito aveva avuto la sensazione che di fronte a lui ci fosse qualcosa di nuovo: gli strati di atmosfera davano segnali positivi. Lì c’era aria e di buona qualità, adatta a forme di vita come quelle che lui cercava.

Poi, i visori di bordo gli avevano proiettato sul monitor quello che non si sarebbe mai aspettato. A soli pochi chilometri sotto di lui erano presenti aree verdi, circondate da foreste con fitta vegetazione, e specchi d’acqua grandi e piccoli.

“Si!”, disse subito ad alta voce, “oltre che aria buona, qui c’è anche acqua!” e gli venne voglia di atterrare subito, proprio lì, in una di quelle radure. Il verde gli era sempre piaciuto.

Heftar Kjkruzk faceva parte di un corpo speciale: il Servizio Esploratori.

Si era laureato a pieni voti in Ingegneria Spaziale e, subito dopo, aveva fatto domanda per entrare a far parte di quel servizio, un corpo militare da poco costituito.

Aveva ricevuto uno specifico addestramento, che era durato ben cinque anni.

Una volta superata la prima fase di addestramento teorico, aveva dovuto seguirne un’altra direttamente sul campo, affiancando un collega anziano. Si era, pertanto, imbarcato su una navicella spaziale biposto con un veterano di operazioni spaziali.

L’esperienza era stata molto interessante perché, per la prima volta, aveva provato a fare spostamenti di anni luce, indossando l’apposita tuta e il casco spaziale. La prima sensazione era stata quella di arrivare a destinazione un poco frastornato, poi, pian piano, ci aveva fatto l’abitudine.

Tornato da quelle missioni di addestramento, che lo avevano impegnato per più di un anno, aveva seguito un corso specifico per l’utilizzo della nuova navicella monoposto appena creata: la “Super-Vel”.

Il lavoro di esploratore spaziale richiedeva una dedizione totale. Era un’attività estremamente complessa che esigeva profonde competenze in svariati settori, e la capacità di utilizzare strumentazioni molto sofisticate. Una volta superata la fase di addestramento teorico e sul campo, si poteva essere inviati in qualche galassia sperduta nell’universo per prendere visione e documentare tutti i sistemi ivi presenti. Si doveva lavorare da soli, e per lunghissimo tempo.

Pochi giovani facevano quel tipo di scelta, perché era vista come un’attività estremamente stressante e pericolosa. La successiva selezione, che comportava una serie di test psicologici e attitudinali, scremava ulteriormente i pretendenti a quel ruolo.

Heftar aveva superato brillantemente e senza grande difficoltà tutto l’iter, aiutato da un’innata passione per quell’universo, che era stato anche quello dei suoi genitori.

Il numero delle galassie conosciute era praticamente infinito, e solo alcune di quelle più vicine erano state prese in esame dal Comitato Direttivo del Servizio Esploratori.

Da quando il Servizio aveva iniziato l’attività i risultati erano stati molto modesti.

Non erano ancora stati trovati pianeti che avessero le qualità richieste per una reale colonizzazione; qualcuno, al massimo, poteva essere usato come base per brevi operazioni in quell’area, ma solo creando strutture specifiche per chi avrebbe dovuto temporaneamente soggiornarvi.

Alcuni mesi prima, Heftar Kjkruzk era stato invitato alla riunione dei Servizio Esploratori. L’ordine del giorno prevedeva la presentazione delle nuove ipotesi di esplorazione e l’assegnazione dei ruoli ai singoli esploratori.

Heftar sperava che gli fosse assegnata finalmente una missione. Si sentiva pronto e non vedeva l’ora di mettersi alla prova.

La riunione con il Comitato Direttivo era stata molto interessante.

Era stato messo a disposizione un documento, elaborato dal Comitato Scientifico del Servizio, dal titolo “Ipotesi su forme di vita presenti nella Galassia 11-1315”, che tutti i presenti potevano visionare sul loro monitor. Riguardava una parte ben precisa dell’universo, una galassia a cui era stato assegnato il nome di Via Lattea, costituita da una scia luminosa di astri con un diametro di circa centomila anni luce, e con un numero di stelle stimato tra i 200-400 miliardi.

Poi, ne era stata presa in esame una specifica parte, dato che dagli studi era stato stimato che solo nelle aree ai margini di questa galassia vi potessero essere le condizioni adatte a una colonizzazione, ovvero fossero presenti gli elementi essenziali quali acqua, aria, temperatura e pressione.

La presentazione prese tutta la giornata, e solo a sera il Comitato Direttivo passò all’attribuzione dei ruoli.

Heftar Kjkruzk trasalì quando sentì pronunciare il suo nome, e la sua assegnazione alla navicella “Super-Vel” numero 7.

Era arrivato il giorno della partenza. Non aveva dovuto salutare nessuno.

I suoi genitori erano morti quando lui era ancora piccolo.

Facevano parte dell’equipaggio di una grande nave spaziale. Lì, si erano conosciuti nel corso della loro prima missione e, al ritorno, si erano sposati.

Anche dopo la sua nascita avevano continuato a viaggiare verso le altre galassie, e lui veniva sempre affidato al nonno materno, l’unico dei nonni ancora in vita.

Un giorno, qualcuno era venuto ad avvisare il nonno che sua figlia e suo genero risultavano dispersi nello spazio.

Non si sapeva cosa fosse effettivamente accaduto. Si diceva che la nave spaziale fosse stata colpita da un grosso asteroide durante la missione e che, a seguito di questo impatto, fosse andata alla deriva nello spazio, finendo chissà dove. L’unica cosa certa era che si erano persi i contatti con l’equipaggio e non se ne era saputo più nulla.

Il nonno, anche dopo la loro scomparsa, si era sempre occupato di lui.

Lo aveva seguito non solo negli studi, ma anche nelle attività sportive, andando sempre a sostenerlo quando era impegnato negli incontri di scherma, in cui Heftar aveva vinto diverse gare.

Poi, anche lui, aveva lasciato il mondo, proprio qualche settimana prima che fosse accettata la sua domanda per entrare a far parte del Servizio Esploratori.

Il nonno non avrebbe voluto che lui seguisse quel corso di Laurea in Ingegneria Spaziale, e tanto meno che facesse domanda per entrare nel Servizio Esploratori.

Da quando erano scomparsi la figlia e suo genero aveva sofferto immensamente e, ora, sapere che l’unico nipote aveva deciso di seguirne le orme lo aveva reso ancor più triste. Ma non aveva fatto nulla per ostacolarlo, salvo elencargli i pericoli che quel tipo di attività comportava.

Suo nonno aveva idee liberali e credeva fermamente che ognuno dovesse essere ben consapevole delle scelte e, quindi, padrone del proprio destino.

L’impegno nello studio e nello sport aveva fatto sì che Heftar non avesse stretto grandi amicizie. Andava qualche volta nei ritrovi degli studenti, ma non scambiava più di qualche parola.

Lì c’era una giovane studentessa che gli piaceva: era stato colpito dal suo sguardo, da quegli occhi neri e penetranti che per diverse notti aveva sognato, ma aveva deciso di non fare alcun passo in quella direzione. Non aveva intenzione di prendere degli impegni e lasciare a casa qualcuno ad aspettarlo. Ci avrebbe pensato a suo tempo.

Ora, per lui, era importante riuscire a realizzare il sogno che aveva fin da bambino: seguire le orme dei suoi genitori.

Due giorni dopo la riunione aveva preso posto sulla navicella monoposto “Super-Vel”, contrassegnata con un bel numero 7, proprio sull’esterno del portellone di accesso.

Era una navicella di ultima generazione, a propulsione post-nucleare, che permetteva di attraversare velocemente e, in modo automatico, distanze misurabili in anni luce.

Poi, arrivati nella zona dello spazio che interessava visitare, si procedeva alla così detta guida manuale, che veniva fatta usando una serie di computer e di visori presenti all’interno della navicella. L’avevano chiamata manuale perché il pilota interagiva direttamente con le apparecchiature e poteva definire, di volta in volta, quale era l’operazione che gli strumenti dovevano eseguire.

La navicella era già fornita della dotazione individuale di bordo, che comprendeva le razioni speciali a cui l’esploratore poteva attingere secondo necessità, costituite da prodotti liofilizzati, che venivano rigenerati all’occorrenza, e la provvista di quel liquido super dissetante che veniva definita acqua.

Lui non aveva portato con sé nulla di particolare, se non due piccoli libri che suo nonno teneva con cura, e che facevano parte di una raccolta ben custodita in una cassapanca in solaio.

Il nonno gli aveva raccontato di averli avuti in regalo dal padre e che, ogni tanto la sera, prima di andare a dormire, gli piaceva rileggerli standosene seduto sulla sedia a dondolo.

Li teneva prudentemente in quel luogo, non perché ci fosse qualche divieto specifico nel possederli, ma quei libri erano stati tutti ritirati dalla circolazione da molto tempo e le autorità non vedevano di buon occhio chi ancora li aveva e li leggeva.

Gli erano venuti in mente poco prima di uscire da casa, era salito in solaio e aveva preso i primi due, dato che altri non ce ne stavano riposti nella tasca interna della sua giacca mimetica. L’idea era di leggerli in tranquillità, in un momento di riposo, là nello spazio dove non c’erano occhi indiscreti, per capire che tipo di letture avevano interessato così tanto suo nonno e quali argomenti fossero mai trattati in quei libri.

A bordo aveva trovato tutte le istruzioni necessarie per la sua missione.

Vide che gli erano stati assegnati alcuni sistemi solari nella parte estrema della Via Lattea. Avrebbe viaggiato per un bel po’ di tempo.

Era andato al quadro comandi e aveva subito avviato e controllato il corretto funzionamento dello strumento che gli avrebbe definito il trascorrere del tempo nello spazio. Lo riteneva fondamentale: mantenere i ritmi giornalieri del sistema biologico, in un mondo dove giorno, notte e tempo non avevano senso, era l’unico mezzo per evitare che il suo metabolismo naturale finisse per incepparsi.

Oramai era in giro da alcuni mesi e aveva visitato e relazionato su quasi tutti i sistemi che gli erano stati assegnati, senza alcun risultato positivo.

L’ultimo visitato era stato quello che gravitava intorno a una stella nana rossa, che distava circa quattro anni luce dal punto dove si trovava, e che aveva dato il solito risultato.

Non gli rimaneva che visitare quell’ultimo Sistema Solare.

Era un po’ scoraggiato. Era partito pieno di buoni propositi, convinto di trovare sicuramente qualcosa di positivo, anche perché così dicevano le valutazioni fatte dagli scienziati del Servizio Esploratori, ma, ora, non aveva più grandi speranze.

Sarebbe tornato indietro come si diceva “a mani vuote”, e questo non lo avrebbe certo favorito, anche se la cosa non dipendeva assolutamente da lui.

Guardò attentamente la mappa sul monitor.

Era un piccolo sistema. Intorno a quel minuscolo e vecchio sole giravano pochi pianeti. Ne contò 8. Forse anche un altro poteva definirsi pianeta, dipendeva da con che occhio si guardava la cosa, e decise di aggiungerlo agli altri, dato che era proprio quello che aveva più vicino.

Individuò altri tre pianeti nani, molto distanti dalla fonte solare, una serie di asteroidi più o meno grandi, e una miriade di corpi piccolissimi. Tutti questi, però, non erano degni di alcun interesse.

Aveva perciò cominciato da quello esterno, che era il più vicino alla sua navicella. Proprio quello che poteva definirsi un pianeta nano.

Si era avvicinato con il controllo manuale.

La prima cosa che aveva visto era stata che aveva 5 lune. Arrivato alla distanza prefissata, aveva messo in stand-by la “Super-Vel” e attivato le sue apparecchiature a raggi infrarossi per le attività di analisi di base. Aveva cominciato con l’atmosfera, per poi passare alla superficie del pianeta.

I suoi monitor rilevarono la presenza di una tenue atmosfera, formata da azoto, metano e monossido di carbonio. La superficie risultava formata, sostanzialmente, da ghiaccio. Temperatura rilevata al suolo -220° C.

Tutto ciò portava a scartare immediatamente quel piccolo pianeta.

Così si mise a compilare la relazione che descriveva per sommi capi la situazione trovata e si concludeva con: Pianeta A – Esito Negativo.

La inserì nell’archivio numero 7.

Gli archivi da 1 a 6 erano già stati completati con le relazioni relative ai sistemi visitati in precedenza. Anche lì le relazioni mostravano tutte risultato negativo.

Decise di riposare e perciò inserì i comandi automatici della navicella sulla funzione “Stand-by”.

Per prima cosa, era previsto che dovesse fare gli esercizi fisici inseriti nella guida di bordo.

Lo stress per quei continui spostamenti e l’angusto spazio a disposizione richiedevano che, ogni volta che aveva necessità di prendersi un meritato riposo, dovesse prima effettuare la ginnastica, come da manuale.

Inserì il programma ed eseguì gli esercizi nell’ordine e secondo il tempo che gli veniva proposto. Prima della fine si addormentò.

Il mattino si svegliò molto presto e di buon umore. Non aveva puntato il contatore e non sapeva quanto avesse dormito, ma aveva la sensazione di aver fatto un buon sonno.

Decise che era bene mettersi subito al lavoro, non vedeva l’ora di dare un’occhiata al pianeta successivo. Per ora sapeva solo che era più grande di quello appena identificato e più vicino al suo sole.

“Vediamo se questo mi da qualche soddisfazione!”, disse ad alta voce, anche se sapeva di non aver altri compagni a bordo, se non  la sua strumentazione. Oramai, con il passare del tempo, gli veniva naturale raccontarsi le cose in quel modo.

Infilò la tuta spaziale per gli spostamenti veloci, il casco e controllò che tutto fosse ben sigillato. Si mise ai comandi, impostò i dati direzionali e lasciò che la navicella andasse, velocemente e in modo automatico, nella direzione che aveva indicato.

La sua mappa di bordo rilevava una distanza di 78 minuti/luce, ovvero qualcosa come 1.400 milioni di chilometri, tenendo conto che la luce viaggia a circa 300 mila km/secondo.

Ci sarebbe arrivato in pochissimo tempo.

Poi, giunto nelle vicinanze, avrebbe dovuto passare, come al solito, alla gestione dei comandi in modo manuale.

Il nuovo pianeta si presentava di un colore azzurro intenso. La strumentazione di bordo rilevava la presenza di gas metano nella sua atmosfera interna e, subito sotto, idrogeno in gran quantità, insieme a elio e, ancora, tracce di metano.

“Ecco spiegato questa strana colorazione!”, disse mentre era davanti al computer, “però la presenza di questi gas non promette nulla di buono.”

Fermò la sua navicella a debita distanza, la mise in posizione di sicurezza e cominciò a osservare. Vide diversi satelliti che ruotavano intorno al nuovo pianeta e si mise a contarli. Erano 14 e solo uno aveva una dimensione significativa.

Dispose tutto affinché le sue apparecchiature a raggi infrarossi cominciassero a esaminare attentamente la superficie di questo nuovo mondo: anche qui tutto era ghiacciato, con presenza di acqua, ammoniaca e metano, e con una temperatura media intorno a -220°C.

Ma la cosa che più lo colpì era la velocità del vento al suolo. Il suo strumento di misurazione andava fuori scala. Le raffiche dovevano avere una velocità superiore ai 2.000 km/ora, visto che quello era il massimo che lo strumento considerava.

I risultati erano chiari. Anche quel pianeta non aveva alcuna possibilità di colonizzazione.

Decise di non perdere altro tempo. Si mise a compilare la sua relazione che, dopo aver descritto per sommi capi la situazione trovata, si concludeva con: Pianeta B – Esito Negativo.

Venne riposta nell’archivio 7, assieme a quella del piccolo pianeta precedente.

Decise di fare il punto della situazione sul lavoro che gli sarebbe spettato il giorno dopo.

Cercò sul computer di bordo il pianeta successivo e vide che distava circa 91 minuti luce, ovvero 1.640 milioni di chilometri. Aveva, pressappoco, le stesse dimensioni di quello che era sotto di lui in quel momento.

“Speriamo di trovare qualcosa di meglio!”, disse ad alta voce, parlando come sempre al computer. Poi, chiuse i collegamenti e si preparò per il riposo.

Si era ricordato dei due libri che aveva lasciato nella sua giacca mimetica, rinchiusa nell’apposito armadietto, ma non aveva proprio alcuna voglia di leggere. Inserì il programma per gli esercizi ante sonno e ben presto si addormentò.

Quando si risvegliò, si preparò subito per la partenza. Doveva fare un salto di diversi minuti luce e non vedeva l’ora di arrivare a destinazione.

I computer di bordo gli segnalarono che era a contatto con il nuovo pianeta.

La cosa che lo colpì fu il colore, che subito definì come ciano, ritenendolo un incrocio tra il verde e il blu.

Fermò la sua navicella a debita distanza, la mise, come al solito, in posizione di sicurezza e cominciò a osservare tramite le sue apparecchiature.

Capì subito il perché di quella colorazione. Gli strumenti indicavano la presenza di una gran quantità di metano nella parte alta dell’atmosfera del pianeta, che ha la proprietà di assorbire la luce rossa e di riflettere quella blu.

Un’analoga situazione l’aveva già riscontrata durante la visita al sistema solare precedente e non aveva dato risultati positivi.

“Però”, convenne con se stesso, “l’effetto cromatico è particolarmente affascinante.”

Vide diversi satelliti che ruotavano intorno a questo nuovo pianeta e si mise a contarli.

“Perbacco!”, esclamò ad alta voce. “Questo pianeta ha ben 27 satelliti!”

Era la prima volta che ne contava così tanti e la cosa lo aveva anche divertito perché, essendo questi in continuo movimento, aveva più volte perso il conto.

Poi, passò agli esami più approfonditi sull’atmosfera e il suolo del pianeta. Era proprio come aveva pensato. Nessuna speranza.

Anche qui la facevano da padrone idrogeno, metano e ammoniaca con una temperatura, al suolo, intorno a -220°C, a cui si aggiungeva una pressione elevatissima e venti con raffiche che andavano da 400 a 800 km/orari.

“Peccato!”, disse ad alta voce, “questo pianeta è proprio bello visto dallo spazio, con quel colore e con tutte quelle sue lune. Piacerebbe anche a mio nonno.” Allora si ricordò dei libri che con tutti quegli impegni aveva finito per lasciare là dove li aveva inizialmente riposti.

Si mise a compilare la sua relazione. Questa volta descrisse con dovizia di particolari quello che aveva visto e rilevato, soffermandosi sull’aspetto visivo del pianeta.

Infine, concluse con: Pianeta C – Esito Negativo.

La relazione venne posta nell’archivio 7, insieme a quelle dei due pianeti precedenti.

Era stanco, e gli esiti negativi avevano ancor più inciso sulla sua stanchezza che, ora, oltre che fisica, era anche psicologica.

Decise che doveva prendersi un meritato riposo. Avrebbe finalmente letto qualcosa di quello che si era portato dietro; la vista di questi ultimi pianeti gli aveva ricordato il nonno e i suoi libri.

“Ora mi sdraio un attimo”, si disse. “Mi rilasso per bene, recupero uno dei due libri e comincio a leggerlo. Voglio proprio vedere che cosa interessava così tanto mio nonno.”

Si sdraiò e subito la sua mente, per chissà quale ragione e connessione, riandò a un discorso che gli aveva fatto il nonno qualche giorno prima che lasciasse, per sempre, l’universo.

“Ricordati di due cose”, gli aveva detto. “Chi sei e da dove vieni. Sono le due ragioni che devi sempre avere ben chiare nella tua mente.”

Lui lo aveva guardato con uno sguardo perplesso.

“Arriverà il momento in cui ti troverai a fare delle scelte fondamentali per la tua vita, e che coinvolgeranno anche quella degli altri”, aveva proseguito il nonno. “In quel momento non ti potrai affidare che a questi due punti fermi, e li dovrai avere ben chiari per poter fare la scelta giusta.”

“Scusa nonno! Non ho ancora capito quello che vuoi dirmi.”

“Verrà il momento in cui lo capirai”, gli aveva risposto e aveva cambiato discorso.

Heftar ripensò ancora al vecchio.

“Non conosco quella che è stata la scelta giusta di mio nonno” si disse, “So solo che, sicuramente, aveva fatto qualcosa che andava contro il pensiero corrente.”

E la sua mente rievocò quanto era successo nell’ultima parte della vita del nonno e al momento della sua morte.

Quelle immagini e quei pensieri passarono, in un attimo, davanti ai suoi occhi: il nonno, la sera, seduto sul suo dondolo di vimini, davanti alla grande porta-finestra che dava verso la collina di fronte a casa, mentre leggeva uno dei suoi libri. L’assenza di amici. Forse perché quelli veri erano già morti da molto tempo.

Il suo addio al mondo, quando quella mattina Heftar l’aveva trovato ancora sulla sua sedia a dondolo e aveva pensato che si fosse addormentato lì, tanto gli era parso sereno. La cerimonia funebre, a cui avevano partecipato tre anziani signori che si erano presentati come vecchi commilitoni. E la scoperta di ignorare che suo nonno avesse fatto parte di un importante reparto militare.

La mesta e semplice cerimonia funebre, dopo la quale il corpo venne cremato e le ceneri a lui consegnate.

Due lacrime scesero sul suo viso a quei tristi ricordi. Si passò la mano sugli occhi per asciugarle.

Il nonno gli aveva detto, qualche tempo prima, di aver lasciato nella cassapanca, dove teneva i libri, una busta con le indicazioni delle sue ultime volontà post- mortem.

Recuperata, l’aveva aperta e letto quanto aveva scritto, con la solita matita copiativa con cui aveva l’abitudine di fare le sue piccole annotazioni sulle carte che leggeva:

Seguivano poche righe in cui, dopo aver espresso tutto il suo amore per il nipote, unica ragione della sua vita in quegli ultimi anni, gli chiedeva che le sue ceneri fossero sparse al vento in cima alla collina di fronte a cui si metteva a leggere i libri seduto sul suo dondolo, e che non mancava mai di guardare la sera, all’imbrunire, quando il sole tramontava proprio lì dietro.

Seguivano, infine, le indicazioni relative ai pochi beni che possedeva, compresa la vecchia casa, che venivano lasciati tutti al nipote.

Infine, quattro sole parole di commiato.

Al tramonto, Heftar aveva portato le ceneri sulla vicina collina.

Era una giornata particolarmente ventosa. Aveva aperto la piccola urna e sparso le ceneri, che volarono via come il nonno gli aveva chiesto di fare.

In quel momento, rivivendo quelle immagini e quei pensieri, percepì che, in realtà, non conosceva quasi nulla di suo nonno. Non gli aveva mai raccontato nulla della sua vita passata, e lui non gli aveva mai fatto domande.

“Se leggo quei libri, a cui teneva così tanto e che conservava nascosti a tutti, forse riuscirò a capire qualcosa di più su di lui e del perché non mi ha mai parlato della sua vita militare”, disse, tornando mentalmente ai due libri che aveva lasciato nella sua giacca mimetica, ma sopraffatto dalla stanchezza inserì il file per gli esercizi ante sonno e, prima della fine del programma, come sempre, si addormentò.

Si svegliò abbastanza tardi, almeno così pensò subito, dato che si sentiva molto bene fisicamente. Era da tempo che non succedeva.

Si era nuovamente dimenticato di mettere in funzione il contatore di bordo. Era recidivo e la cosa, anche se molto grave dal punto di vista organizzativo, non gli dispiaceva.

Lo avevano addestrato a essere estremamente meticoloso in tutte le attività. Gli era stato insegnato che era fondamentale l’organizzazione del tempo e, ora, stava piano piano perdendo il ritmo.

Gli venne subito in mente che non aveva ancora programmato nulla per il prossimo spostamento.

La cosa era ancora più grave.

Poi, il suo pensiero tornò alla sera prima e a suo nonno.

“Sì!” disse ad alta voce e sorridendo, dopo tanto tempo, “mio nonno sarebbe stato felice di vedermi questa mattina, svegliato in ritardo e senza un programma per la giornata. Lui era così che vedeva la vita o, almeno, mi ha sempre dato questa sensazione da quando aveva cominciato a seguirmi. Non che fosse uno che amasse scansare le fatiche”, volle ricordare a se stesso. “I suoi impegni iniziavano all’alba e finivano ben oltre il tramonto. Ma odiava seguire pedestremente un programma giornaliero; amava fare le cose man mano che gli venivano in mente e gli andava bene così.”

“Ecco, bisogna che mi metta anch’io a leggere qualcosa di quello che ho qui con me”, disse alzando la voce, come se parlasse con qualcuno assai distante. “Faccio la prossima visita e poi mi prendo una giornata di riposo e di lettura!”

Iniziò con il fare il punto della situazione sul lavoro che lo aspettava.

Cercò sul computer di bordo il pianeta successivo e vide che distava circa 80 minuti luce, ovvero 1.440 milioni di chilometri. Era di dimensioni molto più grandi di quelli visitati fin’ora e con delle strane strutture intorno.

Si preparò subito per la partenza. Doveva fare il solito salto di diversi minuti luce in quel sistema solare.

La strumentazione di bordo gli aveva segnalato che era arrivato a contatto con il nuovo pianeta. Guardò il monitor ed ebbe un sussulto. Davanti a lui c’era qualcosa di straordinario, un grande pianeta dall’aspetto giallognolo.

“Sembra che abbia avuto dei problemi di itterizia e, sicuramente, con quel colore che si ritrova ha il fegato che non è a posto!”, disse scherzando.

Intorno un’infinità di satelliti e una serie di cerchi, uno dentro l’altro, lo avvolgevano.

Rimase a lungo a guardare quell’immagine incredibile.

“Quali spettacoli affascinanti offre l’universo! Mi sembravano meravigliosi i mondi che ho visitato fino ad ora, ma il cosmo non smette mai di stupirmi!” Poi, si riprese da quel momento di completa estasi e si ricordò che era lì solo per lavoro.

Cominciò con l’individuare i satelliti che ruotavano intorno a questo nuovo pianeta e si mise a contarli.

“Perbacco! Ma quanti sono!” esclamò ad alta voce, “ma questi sono molti di più di quelli che ho visto in precedenza!”

Era la prima volta che ne vedeva e cercava di contarne così tanti. Alla fine arrivò, tra grandi e piccoli, al fantastico numero di 82.

“Bene!”, disse. “Ora passiamo a dare un’occhiata a questi anelli che lo circondano.”

Si trovava in una posizione verticale rispetto al pianeta e gli anelli, sotto di lui, formavano una fascia larga migliaia di chilometri, senza contare l’ultimo cerchio, quello più esterno, che, da solo, poteva avere una larghezza maggiore della somma di tutti gli altri. Ma la cosa che lo colpì di più era che questi cerchi si presentavano particolarmente sottili, sicuramente con uno spessore di poche decine di metri.

“Mi sembra di vedere un giocoliere!”, disse ad alta voce come se gli stesse parlando. “Con tutti questi satelliti, che assomigliano a tante palline, e quei cerchi mi fanno venire in mente quando mio nonno mi portava a vedere il circo. Ce ne erano alcuni che riuscivano a tenere in aria un gran numero di palline, facendo contemporaneamente girare diversi cerchi sulle gambe e sulle braccia. “

Si fermò un attimo a pensare.

“Ebbene sì! Ho deciso di darti il nome di Giocoliere!”, disse, con un dolce sorriso infantile.

Si mise ad analizzare la natura di quei cerchi. Le apparecchiature gli risposero subito.

“Oh! Bene! Sono fatti di particelle di ghiaccio e polveri di silicati”, disse guardando lo schermo.

Si accorse che si stava veramente divertendo a guardare quello strano mondo che aveva davanti, ed era già un bel po’ di tempo che non gli succedeva.

“Veramente lo spazio offre delle realtà incredibili e delle inaspettate sensazioni. Ecco perché i miei genitori, le poche volte che tornavano dalle loro missioni, pur essendo ben contenti di rivedermi, avevano tanta nostalgia. Seppur bambino glielo leggevo negli occhi.”, disse con un velo di tristezza e di commozione. “Finalmente comincio anch’io a capire quello che loro veramente provavano.”

Si guardò ancora intorno attraverso i suoi schermi.

“In effetti le devi vedere, perché non le puoi descrivere. Non ci sono parole che siano in grado di spiegare le meraviglie di questo universo.”

Si ridestò da questi pensieri e passò agli esami più approfonditi sull’atmosfera e sul suolo del pianeta, mettendo in funzione le sue apparecchiature a raggi infrarossi.

I rilievi furono, ancora una volta, disastrosi.

La faceva da padrone l’idrogeno, con piccole quantità di elio e cristalli di ammoniaca, che conferivano al pianeta quel brutto aspetto giallognolo. La superficie risultava formata da silicati e ghiaccio, con una temperatura intorno ai -130°C.

Raffiche di vento spazzavano la superficie del pianeta, e arrivavano fino a 1800 km/orari.

I risultati erano chiari. Il pianeta, come tutti i precedenti, non aveva alcuna possibilità di colonizzazione, neppure temporanea.

Si mise a compilare la sua relazione e stava per concludere con le solite parole.

Si fermò un attimo, e gli venne da sorridere.

“Da ora voglio scrivere anche un nome, oltre che una lettera, per ogni pianeta che archivio”, disse, e compilò l’ultima riga.

Pianeta D – GIOCOLIERE – Esito Negativo.

E quel nome lo scrisse, volutamente, tutto in caratteri maiuscoli perché rimanesse evidenziato e potesse richiamargli subito alla memoria le sue principali caratteristiche.

Poi, inserì il tutto nell’archivio 7.

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