ÁSTRIÐRR E LA NASCITA DEL TEMPO di Vanessa Maggi
Il cuoio logoro degli scarponi, imbibiti fino all’orlo, aderisce a tal punto che la pelle dei polpacci, le procura una spiacevole sensazione di bruciore. Soffi d’aria ghiacciata fendono il viso madido come lame affilate, e le ciglia, intorpidite da crisalidi di calaverna, divengono stalattiti di ghiaccio. Il corpo, indolenzito, procede a rilento, con i piedi sommersi nella neve. I fiocchi sospinti da raffiche incostanti sono presto inghiottiti dalle crepe delle labbra arse e sembra impossibile scorgere il sentiero, poiché attorno la nebbia rimescola e scompagina il mondo. Col fiato corto e la gola raggelata, un senso di vertigine l’assale, sedato da echi di tamburi, e tintinnii argentini di ossa di renna, rigurgitati dalla memoria. Il pesante fagotto, trainato a fatica, sospinge le gambe, instabili, nel folto strato di fogliame bagnato, una sabbia mobile che inabissa, mentre la massa bionda scarmigliata, sgocciola sulla schiena, disperdendo quel tepore conquistato a fatica, nella pelle di renna. Avanzando, tratti di bosco si schiudono alle fessure affilate degli occhi, ma finalmente scorge uno spazio rado, di abeti, di ontani e betulle. La scure rimossa dall’involto è ora putrida, e sembra pesare di più, mentre taglia e affastella la legna nel cumulo, un lavoro faticoso da uomini. Alonata di turchino, pian piano è avvolta da una coltre azzurrognola che accarezza, come un abbraccio tiepido, e spingendo la nuca all’insù, oltre i fusti illanguiditi dalla bruma, di scaglie nere di corteccia, e di fronde di smeraldo, i contorni sfumano nella nebbia e filtrano luce paglierina, che irrora il volto, una speranza, forse, un barbaglio lontano, come opportunità di raccolti copiosi, alla prossima stagione.
Dopo aver riposto i tronchi nel manto di pellame, si accoccola un poco, stropicciando la pietra focaia per ardere il rogo, e ringraziare gli dei. Nello spiazzo rado d’aria umida, avverte un sentore nauseabondo, di pelo bagnato, di orina, di fango e di sangue rappreso. Ululati distanti s’appressano, rimescolati dal muggire del vento e dalla burrasca che incalza. Eppure, racchiusa in quell’involucro ovattato, non percepisce l’imbrunire avanzare, e si assopisce, il tempo dissoltosi nel nulla. Nel sogno, immagini sbiadite di aghi frastagliati, appannate dallo spasmo dei muscoli tesi nello sforzo, mentre lei, impavida, ghermisce avanzi di carne cruda dall’involto, per donarli alle fauci affamate, e impugnata con vigore una scure, i polsi di vene palpitanti, smaniosa di fendere gole, per la sua risurrezione. Man mano, avverte il manto pungerle la pelle, finché lo sguardo si dilata, e i denti digrignano, mentre s’inoltra nel bosco, svincolata dai suoi stessi movimenti, e fiuta, ululando e muggendo, uno stridio antico, già conosciuto, adesso farsi suo, e le orme, di zampe che si bagnano nella neve, circospette, a smaniare quell’avanzo sanguinolento. Destatasi, di colpo, avverte quegli scalpiccii farsi sempre più prossimi, e sollevarsi tra le fronde, e fiuta esalazioni di preda, nello stomaco vuoto. Rallentata, trattenuta in un blocco di terrore, le gambe la spingono coi ginocchi verso il fondo melmoso e gelido, ormai circondata da un branco che incede, annusa le sue orme molli, affila i denti e muggisce di piacere.
All’esterno, oltre un filare di frassini bui, il cielo si oscura lentamente, inghiottito da strie fosche venate di porpora. A tentoni, tremante, nel ricordo suggerito dal sogno, afferra i brandelli che scaglia in più direzioni, provocando un tumulto generale, poi impugna le ossa incise, e con le dita gelide produce un lieve scampanellio, intanto che intona una nenia di suoni sottili, e gorgheggi che placano le bestie, attorno l’aria è pervasa da odore di muschio e di paura. Imperlata di sudore raggelato, emette guaiti che irretiscono e spingono i lupi alla fuga. Il tempo rallenta, ma ritrova il coraggio, e, riunite le forze, avanza in un territorio ormai caliginoso di confini smaltiti, trattendo il respiro, il cuore in tumulto, ché dappresso l’approssimarsi dei guaiti si fa ancora palpabile. La raffica sbuffa e solleva tronchi e avanzi di boscaglia, fendendo le iridi, le dita irrigidite che più volte si disfano del fardello e ancora raccolgono affaticate la mannaia.
Riverberi di luna si espandono avvolgendola, nel percorso forse reso più lungo, mentre una lama fende la vista. Schiacciata dalle forze allo stremo, si accuccia nuovamente, i ginocchi nel ghiaccio, l’animo e il corpo come unità indistinte, di gelo e di brina. Sulla via del ritorno, solleva lo sguardo, e invoca una litania ancestrale alla sfera di luce, e comprende, dalla rotta irrorata di bagliore, che si tratta di un dono privilegiato, custodito per lei dagli antenati. Con i muscoli aggranchiti e i movimenti allentati, ora le membra si muovono a stento nell’aria ghiacciata, mentre inneggia agli dei e ringrazia il mondo degli spiriti e delle ombre, gli elfi e i satiri e gli alberi scari, recitando le rune in un farfugliare sommesso. L’indomani è assicurato, da una luce tiepida che riscalda le assi della malga.
Sul ballatoio il legno scricchiola allo scalpiccio impaziente di Björn, che sbraita con veemenza, perché ambisce il legname. L’aria è sottile, lattea, aspersa di sole. Piegato, sotto il peso della vecchiaia che preme, e di ferite, che squarciano la schiena, intarsia i legni, mentre un filo di luce barbaglia sulla barba canuta, e sui capelli scarmigliati, che appaiono neve caduta in trucioli, sulle spalle. Quando si piega, il ricordo è rinnovato dal dolore atroce, come se fosse appena trascorso quel giorno, che nella lotta furente contro il lupo, una notte di luna piena, lo scagliò nella foschia, lasciandosi il giorno alle spalle. La sagoma, smossa dai nervi, si profila all’ombra del tetto, mentre s’alza per impugnare il bastone di frassino, fremendo di quel ritardo. Sotto il pendio del naso aquilino, le labbra ritorte in una smorfia, non lasciano presagire nulla di buono. Ástriðrr ammucchia in cono i ceppi nel fumaiolo, e, ricoperta di cenere, si precipita verso il letto di pelle d’orso, mentre quello strepita ancora: «Non avresti dovuto rimanere così a lungo!», «Lo so padre», e, china sul focolare, ferma un singulto, mentre alita sulle braci, «Sono stata trattenuta». Rincantucciatasi poi nelle pellicce, accarezza il pelo maculato di Feima, la timida gatta dagli occhi di cristallo, che gnaula al tocco tiepido delle dita, addolcite dal tepore. Finalmente, stremata, si addormenta al fuoco asperso di erbe, che accendono il buio della baita, baluginando come fiaccole sferiche, che trascinano in sogni senza fine. Il giorno dopo, annunciato da un chiarore pallido, filtrata appena dalle lame degli scuri, il risveglio trova ristoro nella zuppa calda di galamost sciolto e dal cuore di cervo, violaceo, fumante nel piatto, condito da licheni e marmellata di mirtilli. Si sperimentava, talvolta, in quelle ricette antiche, che cambiava, non avvezzo ai fornelli, come quando sua madre imbandiva, le conserve di zucchero e le spezie, il lutefisk salato dai mari, lei maestra e maga di rune, a cui doveva tutto, e che adesso, con gli occhi tumefatti nelle lacrime, rimpiangeva. Björn, inasprito da quella perdita, ogni tanto dissimulava il vuoto di una nostalgia perduta, sbraitando o ferendola con aspre parole, mancandole di ogni riguardo, ma celava con l’orgoglio, un cuore d’agnello, che addolciva, come a chiedere perdono, con le sapidità di pietanze, che scaldassero l’animo. Sua madre aveva elargito doni importanti, prima di partire per quel lungo viaggio, dal quale non avrebbe più fatto ritorno, inerpicandosi sulla montagna sacra del dio ghiaccio e di quel Lug, dio distate dal mare, che antiche genti le avevano riferito, luminoso, tuonare dal cielo, stella tra le stelle, i cui rituali dal potere straordinario, aveva appreso dalle rune incise nella pietra. E adesso, a Ástriðrr, il cui nome appostole comunicava la deità di una stella, con suo padre, rimasto solo, incupito dal tempo, spettava di salire su quel trono, la sedia sacra su cui era solita accomodarsi sua madre, a narrare leggende di mondi occulti e di genti lontane.
Sugli intagli, i racconti scalfiti di rune scorrevano sotto le dita, palpandone i rigonfi, gli incavi, tra petali di fiori e intrecci di draghi, scolpiti come sugli antichi rostri. Determinata a imbastire un abito di pelli e un copricapo di piume per il rito propiziatorio del solstizio d’inverno, si persuase all’idea di aver sedotto il branco inferocito, e, senza nulla proferire al genitore, borbottò antiche litanie, un dono che andava ammaestrato. Lui, incollerito dai ricordi fugati, che gli laceravano il cuore, ripensava malinconico alle trecce biondo rame, e agli occhi di foresta ammandorlati, sul volto splendido, largo di latte, quando la sacerdotessa recitava. Allora Björn la cingeva tra le braccia, vigoroso e forte, prima d’avventurarsi nei boschi per giorni, trainato da slitte e da cani fedeli, per reperire cervidi e altra selvaggina. Mentre alla sposa, Arndís, spettavano quelle somme divinazioni alle lune, poiché la piccola non aveva ancora potere di replicare, o perlomeno così supponeva. Nei ricordi di Ástriðrr, la madre, avvolta nella veste bianca, parlava al regno animale e agli spiriti dei boschi, quel volto come un miraggio, rifratto adesso nel vetro brunito: la sua stessa mascella decisa, le medesime labbra rosse, e lo sguardo fondo, che per lei aveva serbato cieli di zaffiro. Avrebbe indossato la corona di palchi di cervo, per il rito della notte più lunga, il cui ingresso bisognava onorare, scendendo a valle, una vestale di luna piena e di ghiaccio polare. Si accinse a colmare l’aia con cataste e pire, che avrebbero rischiarato l’empireo, e narrato i misteri sepolti. Attorno alla malga, creò recinti di fiaccole e ceri per illuminare la notte, rievocando le origini di cui andava fiera, che quei gentili nominavano paganesimo, e che osteggiavano in massacri efferati, quegli stessi invasori, increduli, che, cinti d’alloro e ammantati di porpora, avevano rapito sua madre durante quel viaggio incauto. Odino si era pronunciato, e sotto lo Yggdrasill, l’albero sacro, lei aveva riposto il suo nome nelle rune, che quella stessa notte avrebbe mantenuto la promessa di celebrare la Nascita del Tempo. Su una pergamena, la madre aveva indicato rappresentazioni rituali di magici cerchi e disegni, istruendola sulle erbe curative e pozioni; avrebbe incantato gli abitanti dei mondi sotterranei e dei cieli, osannato Madre Natura, gli spiriti e i numi.
Da giorni si era provata ad allestire la tavola di vivande d’ogni tipo, licheni e crema di renna, lutefisk come sua madre prescriveva, e salmoni affumicati sotto abeti ardenti, e fårikål di capra, la testa mozzata apprezzata dalle divinità, e dagli elfi dei boschi. In soffitta il liquido coagulava, intanto, sotto gli scuri, per non svelare il segreto al padre, custodito dal nisse, l’amico elfo di casa.
Il giorno dopo fece ritorno al bosco di frassini e tassi, scalando il percorso stretto di rocce acuminate, inalando l’aria rarefatta. Tentò di rintracciare bacche di vischio per la sua corona, e agrifoglio e erbe per i decotti, che quella sera avrebbero assicurato l’estasi, e la trascendenza. Frantumò con la selce, una mistura amara che trangugiò d’un fiato, e improvvisamente capì d’esser stata rapita, avvinta da una forza misteriosa. Divenne aquila, volteggiando ad ali spiegate, la vista diluita sotto il becco, e il collo nervoso di scatti, un’infinità di abeti e di frassini, di laghi sommersi in cui rispecchiarsi, e di foreste selvagge, di querce e d’aceri e tigli, abitate da cervi dai palchi enormi, e sulle sommità di alture frastagliate di roccia, dimore innevate degli dei, mandrie di renne, e volpi che inseguono lepri. Planò, d’istinto ghermendo una preda, e furono attimi infiniti, mai percepiti così vitali, permeati da un’energia primordiale. Riconoscendosi, quale elemento indispensabile nell’atto della creazione, scoprì un confine invalicabile fatto di linfa, di piacere, e di pura esistenza. Finì frastornata su di un prato punteggiato di fiori, un tappeto madido e verde, che carezzò lievemente le abrasioni dei seni graffiati dalla lotta con la preda, quando si riscoprì nuovamente donna, le vesti lacere, i piedi melmosi. Sfregandosi le palpebre, si accorse di un atro, una grotta oscura che decise di valicare. Penetrò a brevi passi, indugiando sulla soglia, voltandosi ancora per poco indietro, investita da un sole abbagliava, e, giù, oltre il dirupo, vide una distesa primaverile bagnata di luce, schiusa allo sbocciare di primule e papaveri rossi, certamente di un altro mondo. Scivolando con le dita sulle pareti aguzze, sebbene umettate di stille, attraversò l’andito tenebroso nella roccia, raggiungendo uno spazio riposto, dove finalmente, assiso su di un trono di impalcature cornee, con lo scettro, puntato verso la tetra volta, ad attenderla c’era Alfarinn, il re della montagna. Resa cieca dal volo e dalla vista sgranata di volatile, si avvicinò per conoscerne le fattezze, celate nell’ombra, che frammentarie giungevano alla vista, occasione per l’indomita, di tastarle a più riprese, figurandosele man mano, come elementi di un volto mostruoso, di bitorzoli e crespe, e si avvide, dalla stretta del polso, impugnato di scatto, di dover accogliere i termini di quella prigionia. Colta da un panico che torceva le viscere, le vene avviarono a pulsare sotto i polsi e nella gola, ma, stretta da un destino che sapeva irremovibile, si prosternò al suo cospetto. Poi, con un barbaglio di acume, che agognava libertà, simulò un’offerta, e, raggiunta la bisaccia alla cintola, porse l’unguento residuo. Un orrendo gorgheggio fuoriuscì dall’ugola da quel mostro antico, e l’essere immondo comandò di seguirlo e di rendersi docile, tanto quella sarebbe stata ormai, la sua sorte. Approdata all’esterno del mondo degli uomini, avrebbe vissuto all’est, in quel luogo, dimora di Giganti, chiamato Jǫtunheimr. L’avvenenza l’aveva tradita, rendendola prigioniera.
E così Ástriðrr cadde in prigionia di un’era letargica che durò decenni, che parvero eoni, trascorsi nella tenebra, ammansita e narcotizzata dall’orco. Intanto Björn, non vedendola tornare s’allarmò, giacché il tempo laggiù, nell’altro mondo, viaggiava rapido, benché intuisse dal disegno delle rune, che il suo cuore si sarebbe spezzato nuovamente. Alcune ore pilotavano al tramonto, salì sulla balconata di travi sconnesse e allungò un’occhiata, quasi a volo d’uccello, poi si spinse oltre la scarpata, gridando ancora il suo nome. «Insensata», sbraitò, rivolgendo le collere agli agnelli, che belavano ignari e intenti a brucare, «Sarà nel bosco?», e voltosi di spalle, si diresse alla stalla, dove le giovenche attendevano frementi il tocco delle sue dita nodose, per la mungitura. Sempre più impensierito, dopo alcune ore temette il peggio, ché sapeva laggiù, la foresta, essere satura di lupi, e si arrischiò oltre la staccionata che chiudeva la stalla, riprovando, stavolta con più contrizione, ma nessuno rispondeva al nome, che echeggiava solitario nella valle.
D’un tratto, parvero secoli a trattenerla rinchiusa in quel ventre oscuro, quando udì quella eco attutita, come un vagito neonato, appena distante, e lo riconobbe, risvegliandole il cuore e la memoria di vita. Avvedutasi del tempo trascorso, si destò, e in un baleno, un fremito di gioia l’avvampò, nel desiderio di ricongiungersi al padre, di cui per la prima volta, percepì tutto l’amore.
Corse, rapida come il vento, slegatasi come per incanto dal sortilegio, e, precipitatasi dal dirupo, incurante delle ferite, ruzzolò sui ciottoli aguzzi e sulla cresta di roccia, scivolando dal colle per innalzarsi subito in volo, seguita dai grugniti del mostro.
Approdando sul sentiero innevato, opalino, gli artigli ormai pulsanti di dita, penetrò nella selva nera di fusti torreggianti, dove fu invasa da odori familiari di pino e di borraccina. Ammantata dall’atmosfera rosata, una bambagia soffice sconosciuta e incantata, ripose nella bisaccia gli averi dispersi nel volo, che sua madre aveva serbato per lei, trasportati dalle conquiste di Dagfinnr, nelle terre remote d’Oriente, e dalle dimore di capri, di cimbali, e di menadi folli. La maga aveva ricevuto quei doni di spezie e di stoffe, trasportati per nave, coi misteri di antichi riti, accolti dal suo popolo, per nuove rappresentazioni runiche e rituali. Così, predispose la pira e cantò e volteggiò in piroette nel ringraziamento che pregava per la vita che Madre Terra le aveva restituito e, sentendosi tutt’uno col mondo, con il suo popolo, e con la madre, si tinse di cenere il volto, e invocò le stelle, e la luna, per un percorso di luce nel bosco.
Giunse in tempo nella notte senza luce e fu pervasa da una penosa angoscia, mentre rimestava l’unguento e predisponeva la tavola. Gli invitati avrebbero fatto il loro ingresso e forse sarebbero ritornati nel mondo sotterraneo, mentre “gli altri”, spiriti o ombre, avrebbero potuto irretirla. Sorvegliò oltre l’uscio schiuso, mentre bagliori lunari sfarfallavano nell’aria buia e nera, il tempo chiuso in uno stillicidio di attimi, una sospensione prolungata da sembrare eterna. In agguato, a tergo della parete decorata di travi, finalmente un fragore risuonò oltre la porta, più feroce di un branco di lupi o di orsi. Erano in molti, e già saettavano, con grugniti e schiamazzi, mentre qualcuno, più ozioso, si era assiso a trangugiare. Quel ciangottare stridente e i tamburi che crepitavano grevi, straziavano i timpani. Narravano gesta di uomini uniti agli dei, intonando una musica oscura, vegliando a lungo, ore che sbiadirono soltanto l’indomani. Inghiottì d’un fiato l’intruglio, e raccolta l’aria in gola, ebbra, fu trasfigurata in una luce crepuscolare. Avvertendo le intenzioni degli ospiti, ispirata, sentì di potersi fidare: «Benvenuti, amici!» proruppe, con il cuore in tumulto, un tuono nel petto. Con le nacchere d’ossa produsse uno scampanellio, e, agguantato il bastone, li ammaliò, conducendoli sul piazzale antistante la casa. Accese quindi il fascio di spighe, mentre il fumo saliva, disegnando rivoli di bigi ricordi, e desideri da realizzare. Attorno al rogo tutti presero a piroettare, e perfino i più orridi, dai musi ritorti, i denti aguzzi e le orecchie tagliate, si prostrarono al suo cospetto, ora Fata dei Boschi. «Andate!», ingiunse, e quelli, in baluginii di smeraldo, di giallo e di porpora si dissolsero, aurore che sfumavano oltrepassando le montagne e inabissandosi nei laghi, abbandonando per sempre la casa. Fugata ogni distanza tra uomini e dei, lo spirito trovò liberazione. L’improvviso inizio del nuovo giorno, tinteggiò l’aria di luce dorata, il tempo era compiuto, e il solstizio d’inverno celebrato nella Nascita del Tempo. Ed ecco, a Björn, balenargli ricordi, di quando discendeva da stirpe guerriera, sui rostri a vogare gli oceani, e di quando, alla scomparsa dell’amata, la bimba aveva saputo trattenere quel demone, col solo dito puntato. Tuffando gli occhi raggrinziti, in quelli ora stanchi di Ástriðrr, i due laghi azzurri s’incrociarono, in uno scoperto bisogno, d’amore reciproco. E, sospirando un poco, rincantucciatosi di lato di una pietra incisa, svelò un incarto, e gliene fece dono, annunciando: «Soltanto ora capisco, qual è il tuo destino, figlia». Dal bauletto borchiato, lei svelò una luce remota, e, rialzato lo sguardo verso il genitore, ascoltò conciliante. «Sono tuoi, adesso, come desiderava tua madre. Sapeva in cuor suo che avresti seguito la tradizione». Infine, il fuoco si spense, e s’incamminarono verso casa, il padre stringendole la mano, le fece cenno del capo, annuendo, infondendole coraggio, cosciente che sarebbe spettato ora a lei, domare quegli indomiti demoni, e gli spiriti folli.
ÁSTRIÐRR E LA NASCITA DEL TEMPO è un racconto di Vanessa Maggi
maria grazia MAGGI
bello avvincente favolistico surreale!
pino MAGGI
mi è piaciuto molto. interessante da leggere con calma
Pino
Un racconto bellissimo pieno di emozioni che ti salgono dal cuore.
tiziana
molto coinvolgente e una descrizione dei luoghi veramente dettagliata brava
Andrea
Il Racconto di Vanessa ha tutte le caratteristiche del genere fantasy: il fantastico, il soprannaturale e, sul piano della scrittura, il ricorso alla metafora, all’allegoria, alla simbologia e al mito. Richiede, però, un lettore attento e solidale con l’autore, disposto ad accettare ad occhi chiusi un modo differente di immaginare la realtà.
Luigi
Molto belle le atmosfere magiche e sognanti di una mitica terra Iperborei…
vanessa maggi
vorrei ringraziare tutti i vostri bellissimi commenti. con affetto a tutti anche quelli che li hanno inviati diversamente…metteteli qui.
Maria
Mi è piaciuto molto il racconto di Vanessa e l’ho letto tutto di un fiato. L’ho trovato magico e fantastico. Penso che se ampliato potrebbe divenire un romanzo
Mario
Mi è piaciuto molto il racconto di Vanessa e l’ho letto tutto di un fiato. L’ho trovato magico e fantastico. Penso che se ampliato potrebbe divenire un romanzo
Giovanni
Mi sono sempre piaciute le storie fantastiche e astridrr e la nascita del tempo ha tutti gli ingredienti. Brava
Giuseppe
Il racconto Astridrr e la nascita del tempo parla di un mondo che si discosta dalla realtà, è surreale ma per questo adatto ai tempi che stiamo vivendo.
Gennaro
Racconto molto bello
Angela Biallo
Rumori.. Suoni../Crolli.. Rinascite../ Paura.. Coraggio../
Tutto Immerso in un turbinio di colori che abbagliano gli occhi e Offuscano la mente, trasportando il lettore in un mondo parallelo dal quale vorrebbe fuggire… ma nel quale intende restare..
IL SUO .
Brava Vanessa.
Angela
Rumori … Suoni … Crolli … Rinascite …
Paura … Coraggio…
tutto immerso in un turbinio di colori che abbagliano gli occhi e offuscano la mente, trasportando il lettore in un mondo parallelo dal quale vorrebbe fuggire… ma nel quale intende rimanere… IL S U O !!!
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ANGELA
umori..Suoni::/Crolli..Rinascite../Paura.. Coraggio../ Tutto immerso in un turbinio di colori che abbagliano gli occhi e offuscano la mente, trasportando il lettore in un mondo parallelodal quale vorrebbe fuggire… ma nel quale intende rimanere… IL SUO!!!
Nicola
Meraviglioso!
Suscita potenti onde e sfumature emozionali, a volte poetico a volte da brividi, tiene il lettore in costante attenzione e vigilanza fino alla Fine.Un viaggio nel tempo attraverso immaginazioni vivide, quasi un realismo palpabile,annusabile, udibile di eventi che si susseguono rocambolescamente,in continuo divenire.