FOLLA di Alessio Martini
Foto di Grae Dickason da Pixabay
Sono uscito dall’ufficio, non è tardi, faccio in tempo a passare a prendere un regalo per mia nipote Irene.
Ho già comprato un cammeo di ambra, una vera finezza, ma le voglio regalare anche una bambola.
Dovrei andare da mia cugina Isabella e da mia nipote più spesso, lo so, mi sento in colpa per essere così assente, ma è sempre tutto così difficile, il tempo che manca sempre e poi mia moglie che non ha mai avuto molta simpatia per mia cugina, chissà perché.
Non ricordo più quanti anni ha Irene. No, ora ricordo: ha la stessa età del mio gatto.
Se sapesse che per ricordare la sua età, devo pensare a un gatto…
Non ha importanza, non lo saprà mai, nella vita non bisogna sapere certe cose.
Ha nove anni. Di certo è troppo piccola per il cammeo, lo porterà a sedici o diciassette anni, a quell’età sarà di una bellezza incantevole.
Chissà se a nove anni gioca ancora con le bambole? Sì, credo di sì.
Ecco sono arrivato al negozio: bene, sembra davvero elegante e di lusso. Non ho figli, non ho mai capito nulla di giocattoli, non mi ricordo neppure chi mi abbia dato l’indirizzo.
È sistemato in un palazzo ottocentesco, una volta era la sede di una banca, adesso è diventato un negozio di bambole, che stranezza. Non ho mai fatto caso a questo palazzo, eppure non è lontano da casa mia, devo esserci passato davanti chissà quante volte e invece mi pare di averlo visto non qui a Genova ma in qualche altra città.
Entro nel palazzo e mi trovo in un salone a colonne, doveva essere il salone degli sportelli della banca, adesso ospita gli scaffali del negozio.
Davanti a me ci sono tre commesse tutte giovani e belle; tutte vestite allo stesso modo, con una morbida blusa color rosa pesca, fuseaux neri, ballerine dorate; hanno il viso incipriato, gli occhi bistrati e le labbra sottolineate da un rossetto corallo.
Una di loro mi si avvicina e mi sorride: «Buonasera signore, mi spiace molto, ma il negozio è chiuso».
Resto perplesso, non ho mai visto un negozio chiuso con la porta d’ingresso aperta e tre commesse in attesa di clienti che non saranno serviti.
Rispondo che non ha importanza e chiedo quale sia l’orario di apertura.
La ragazza risponde alla mia domanda così banale con un gesto elusivo della mano, senza dirmi alcunché sull’orario.
«Signore, visto che è qua, perché non visita il museo delle bambole, che invece è aperto? È molto bello. Si trova all’ultimo piano, troverà una mia collega che l’accompagnerà alle sale».
Sorrido a mia volta e salgo lo scalone di marmo, arrivo al vestibolo al primo piano e qui mi accoglie un’altra ragazza, vestita come le altre che ho appena incrociato.
La seguo per altri due piani e arrivo al museo. Le sale sono tutte minuscole e tutte simili: spessa moquette sui pavimenti, pareti senza finestre, boiseries color crema, tappezzerie di stoffa e dai colori scuri ‒ nero, grigio, porpora ‒ decori barocchi, soffitti bassi, applique di cristallo che emanano una luce soffusa che non riesce a prevalere sulla penombra.
Perdo di vista la graziosa commessa, le sale sono deserte, sono l’unico visitatore.
Fa un caldo torrido, l’ambiente mi dà un senso di claustrofobia, mi tolgo la giacca e mi allento la cravatta.
Le bambole sono stupende, di una bellezza eterea.
Hanno la testa e le mani di porcellana e gli occhi di vetro e sono vestite di abiti sontuosi, un défilé di moda che sembra scorrere dal 1750 al 1950.
Vicino a ogni bambola c’è un cartellino con il nome. L’onomastica femminile mi ha sempre affascinato: Lavinia, Pamela, Corallina…
Nomi che evocano dame del ‘700 e maschere della commedia dell’arte.
Alessia, Elena, Stefania, Sara, Alessandra…
Nomi femminili che evocano sogni e ricordi che mi sfiorano e mi seguono silenziosi.
E poi ancora Sylvie, Catherine, Leontine, Laforey.
Ma Laforey non è un nome, non capisco.
Man mano che procedo le stanze sembrano sempre più piccole e i decori sempre più barocchi.
Le bambole ora sono a grandezza naturale, forse è un museo della moda, sul genere del Musée Galliera a Parigi.
Sento anche una musica in sottofondo, la sinfonia K550 in sol minore di Mozart.
Mi soffermo davanti alla bambola di nome Alessia, vestita con un abito che sembra di Worth, seduta davanti a uno specchio, nell’atto di pettinarsi, lo specchio riflette il volto e lo sguardo di Alessia, dolcissimi e tristi come la sinfonia di Mozart in sottofondo. La bambola non solo è a grandezza naturale, ma sembra viva, sembra avere gli occhi lucidi di lacrime.
«Mi scusi, non si sente bene? Posso aiutarla? Le serve un fazzoletto? Un bicchiere d’acqua?».
Sento la mia voce che sussurra cortesi parole alla bambola e mi accorgo di avere un fazzoletto fra le dita, nell’atto di porgerglielo, non so cosa mi stia succedendo.
Ho un’emicrania feroce, sono in preda all’ansia. Sono arrivato all’ultima sala, una freccia in ottone reca la dicitura “uscita”. Ricompare la commessa e mi sorride, il corridoio è così stretto che la sfiorerò, sentirò il calore della sua pelle liscia e profumata, sentirò il suo respiro. No, si mette in punta di piedi come una ballerina, la mia mano passa vicinissima al suo corpo senza sfiorarla.
Sento un groppo in gola, sto per svenire, la moquette è così spessa che nessuno potrà udire il tonfo del mio corpo troppo magro che stramazza sul pavimento. Penserà che sia soltanto un vecchio malato e morente e già morto, il suo sorriso diventerà il riso leggero e gioioso di una ragazza giovane e sana e viva.
Sono nel mio letto, ho fatto un sogno. Ma l’emicrania, l’ansia, la spossatezza, il caldo sono reali. Devo avere la febbre. Guardo l’orologio, sono le cinque, fra due ore devo alzarmi. Ho dormito malissimo, non posso andare al lavoro questa mattina, arriverei alla scrivania già esausto.
Dovrò cambiare i tranquillanti, meno male che la dottoressa mi prescrive qualunque cosa. E dovrei cambiare anche i farmaci per l’ipertensione, ma non ho voglia di tornare dal cardiologo: la pressione che resta alta, il colesterolo, altri esami, non dovrei mangiare formaggi e salumi e non dovrei bere troppo.
Che incommensurabile noia!
Ma soprattutto, devo andare da mia nipote e portarle un cammeo e una bambola.
Lo sguardo di muto rimprovero di Irene sbarra la strada a Morfeo, non riesco a riprendere sonno.
Ormai sono le sette e trenta, misuro la febbre, ho un po’ più di 38.
No, non posso andare al lavoro, la febbre è poca cosa, ma sono esausto per l’insonnia.
Se mi assento qualche giorno, in ufficio non accadrà nulla.
Sono conscio che il mio lavoro noioso e ben pagato appartiene al passato.
Avevo iniziato a lavorare in un grande ente pubblico, dove avevo raggiunto un dignitoso grado di funzionario.
Poi l’ente pubblico si è trasformato in una società per azioni, proiettata verso il mercato, insomma, verso il nulla.
Il mio ruolo di eminente tecnico è sbiadito come una vecchia fotografia.
Alle otto e trenta telefono alla dottoressa chiedendole se nel pomeriggio può passare a casa mia per una visita e un certificato di malattia.
Subito dopo telefono al responsabile del mio ufficio.
Il dirigente è come sempre rassicurante e desideroso che la mia comunicazione sia la più breve possibile; come sempre sono a mia volta telegrafico.
Esco un momento di casa per prendere una boccata d’aria e comprare il giornale e il pane fresco.
Nonostante il programma da nulla mi vesto con la solita alta uniforme da ufficio: camicia azzurra, completo grigio, cravatta di seta, orologio d’oro.
La mattina mi sembra troppo calda per un giorno di maggio, sembra estiva, il caldo mi opprime.
La strada è intasata di traffico.
Molti anni fa scelsi di abitare in Corso Torino perché è una di quelle vie ottocentesche ampie e rettilinee che mi sono sempre piaciute; invece, questa mattina il corso è ingorgato da un serpentone di autovetture, furgoni, camion.
È strano, sembrano tutti fermi, o meglio avanzano di un metro alla volta, ma sembrano tutti tranquilli, nessuno suona il clacson, si sente solo il ronzio dei motori al minimo.
Arrivo all’edicola e compro il solito quotidiano. Da anni mi limito a sfogliarlo, le notizie che mi piacerebbe leggere appartengono a un’altra epoca e non le vedrò mai su alcun giornale.
Nel mondo globale, tutti sono liberali, liberisti, riformisti, europeisti, tutti sono a favore della meritocrazia, tutti sono contro la burocrazia.
Il mondo attuale non m’interessa più, non lo riconosco, mi fa sentire come Diocleziano che coltivava gli asparagi nell’orto del Palazzo Imperiale a Spalato, mentre con sguardo impassibile guardava l’Impero che si sgretolava e Costantino che si convertiva al cristianesimo.
Non provo né passione, né rabbia, né sdegno, provo solo noia e nausea.
Scambio qualche parola con il giornalaio. Gli chiedo se ha idea del perché ci sia una fila di auto lungo il corso, a perdita d’occhio.
«Dicono che ci siano dei lavori stradali che causano ingorghi in tutta Genova».
La risposta mi pare davvero vaga, lascio cadere il discorso.
Un uomo più o meno della mia età s’intrufola nella conversazione.
«Secondo me, è andata in tilt la centralina dei semafori. Tempo fa ho letto su internet che dei lavavetri marocchini si sono messi a trafficare nella centralina, in modo da allungare al massimo i tempi del rosso e avere più tempo per lavare i vetri delle auto».
«Questo è divertente, menomale che abito in centro e in città mi sposto quasi sempre a piedi».
«Divertente un fico! Quegli schifosi non capivano niente di centraline. Un paio di volte gli è andata bene, poi si sono sbagliati, regolando tutti i semafori insieme sul verde e causando una serie di scontri a catena. Bisognerebbe rispedirli tutti in Africa a calci!».
Non ho voglia di mettermi a discutere di emigrazione, drammi umanitari, sfruttamento e precariato per gli italiani piuttosto che per gli stranieri.
Non ho voglia di una caricatura di un talk show con San Francesco contro il capitano Kurtz, né ho voglia di ascoltare favole sui lavavetri diffuse su internet.
Tutto questo mi annoia e non sopporto le polemiche.
Effettuo una perfetta manovra di sganciamento, con poche parole evanescenti. «L’immigrazione… No, non so, è un problema troppo difficile».
Dopo l’edicola e la panetteria potrei continuare la passeggiata fino in Piazza della Vittoria, non è lontana. Ma non ne ho voglia, fa caldo, mi sento stanco e febbricitante, in ansia per qualcosa che non so cosa sia. Rientro a casa, dopo aver dato da mangiare ai miei due gatti e aver innaffiato le piante sui balconi non mi resta molto da fare. Mentre ho un po’ di tempo spazzolo i gatti.
Una giornata libera, come quando ero scolaro alle elementari e una settimana d’influenza era una specie di vacanza supplementare.
Mi sforzo di ricordare cosa facessi quando ero bambino e mi ammalavo, ma non lo ricordo.
E non ho idea di cosa fare oggi in questa giornata di malattia.
Domani è mercoledì: ci sarà la cameriera e provvederà alle pulizie, deve pulire a fondo il salone da pranzo. Ieri ha già stirato la biancheria, venerdì darà la solita spolverata a tutte le camere.
Non occorre che mi affanni in faccende domestiche e in ogni caso non ne ho alcuna voglia.
Entro nello studio e mi siedo alla scrivania d’epoca Direttorio perfettamente intonata alla libreria a tutta parete.
Apro uno dopo l’altro i tre cassetti della scrivania: è incredibile, sono traboccanti di carte. Devo mettere ordine, intanto accendo lo stereo e sento un po’ di musica.
I CD sono allineati in ordine cronologico, un segnalibro di cartoncino blu segna la sequenza degli ascolti. Ci saranno 300 o 350 CD, se non faccio così sento sempre gli stessi.
Sono arrivato alle 7 sinfonie di Prokofiev; dopo ci sono i 5 concerti per pianoforte e orchestra di Villa Lobos. Non faccio follie né per Prokofiev, né per Villa Lobos, pazienza.
Metto mano al contenuto del primo cassetto e trovo una cartella di estratti conto: conto corrente, deposito titoli, carta di credito. La cartella ha una pancia degna di una cavalla incinta, ci saranno gli estratti conto degli ultimi dieci anni, devo buttarne via almeno metà. Carte, sonnolenza, torpore.
I gatti saltano sulla scrivania, si fanno accarezzare, poi scendono e poi risalgono sulla scrivania.
Mi sto addormentando.
Mi risveglio. Apro gli altri fascicoli nei cassetti della scrivania.
Contengono bollette della luce, del gas, del telefono, dell’abbonamento a internet, vecchie e inutili: altre carte da buttare. Documenti delle pensioni di mio padre e mia madre, che ormai sono morti: da buttare. Gli atti notarili di compravendite e mutui: l’appartamento a Genova, la villa con il giardino e il frutteto nell’entroterra, le case e i terreni dei miei genitori. Ma gli immobili di famiglia sono stati tutti venduti e i mutui per le mie case sono tutti estinti.
Ho perso una mattina fra cartacce e colpi di sonno, che spreco di tempo.
Dopo pranzo mi stendo sul letto e cado nel dormiveglia.
Mi sveglio in tempo per ricompormi prima dell’arrivo della dottoressa, che mi visita in pochi minuti, mi dà una settimana di mutua e mi assicura che ho solo un po’ d’influenza.
Io resto perplesso, le chiedo come sia possibile un’influenza a maggio, quasi senza sintomi, a parte la febbre e la spossatezza.
«È proprio così, è un’influenza asintomatica, un nuovo virus. Le prescrivo un antipiretico, però lo prenda solo se la febbre supera i 39: vede, professore, lei assume i betabloccanti per l’ipertensione, i sonniferi per la notte, i tranquillanti da giorno, adesso anche gli antistaminici per l’orticaria, non vorrei esagerare con i farmaci».
Le spiegazioni della dottoressa non mi convincono, ma fa sempre delle diagnosi nebulose. È gentile, affabile, ha uno charme irresistibile, ma con le diagnosi è del tutto inattendibile. Chiacchieriamo del nulla, per qualche minuto.
La dottoressa mi lusinga esprimendo la sua ammirazione per il mio appartamento, di un lusso fastoso d’altri tempi.
Sorrido, mi lascio accarezzare dal suono della sua voce e l’accarezzo con lo sguardo.
Mi complimento per la delicata abbronzatura e l’abbigliamento estivo di morbida nonchalance, lei sorride elusiva.
È una donna di quarantasette anni – una volta lessi la sua data di nascita sul diploma di laurea appeso su una parete dello studio – ed è alta, slanciata, con un viso ovale incorniciato da lunghi capelli biondi.
Mi chiama sempre “professore” anche se non ho mai insegnato.
Una volta le avevo raccontato che avevo scritto alcuni saggi sull’architettura a Genova fra il 1860 e il 1940 che furono pubblicati da un dipartimento della facoltà di architettura e che poi raccolsi in un volume di una qualche pretesa. Ne feci dono di una copia alla dottoressa e da allora mi ha promosso a professore.
Sono un architetto, ma non ho mai progettato nulla.
Quando ero ragazzo, al liceo, ero già capace di disegnare ville e palazzi in stile rinascimentale, barocco, neoclassico: prospetti, planimetrie, sezioni.
Sognavo di essere Juvarra o Boffrand o Fischer von Erlach, insomma uno dei grandi del ‘700. O magari Charles Garnier, l’architetto dell’Opéra di Parigi.
Dopo la laurea, ho fatto la mia carriera lavorativa scrivendo perizie e pareri tecnici. Ora, se dovessi progettare qualunque edificio, avrei più o meno lo stile di Piacentini: disegnerei palazzi di marmo, lisci, simmetrici, perfetti come un’equazione.
A cena non mangio quasi nulla. M’infilo il termometro sotto l’ascella ed esco sul balcone dello studio: mi affaccio e l’ingorgo di traffico è ancora lì, silenzioso e inestricabile.
La febbre è salita a 38 e 5.
Mi corico e l’architettura diventa il fondale dei miei sogni notturni.
Mi trovo nell’atrio di un palazzo marmoreo del 1930 o 1940, di un classicismo stilizzato alla Portaluppi o alla Piacentini.
L’atrio è amplissimo, esagonale, sovrastato da una cupola, ogni lato dell’atrio reca un portale inquadrato da colonne e sovrastato da un timpano. Ognuno dei sei portali dà accesso a uno scalone, pure a pianta esagonale.
Forse mi trovo in un palazzo di appartamenti di lusso o forse in un ministero o un tribunale o un museo.
Devo andare da qualche parte, ma non so dove.
Ecco, mi prende l’ansia: un atrio dovrebbe avere un ingresso sulla via o su un cortile, invece qui ci sono solo delle scale, che non so dove portino.
C’è mia moglie e per un istante la sua presenza mi rasserena; è sempre presente a sé stessa, di certo sa trovare l’uscita.
Mi lascio un poco andare.
«Hai visto? È un’ideazione architettonica superba: un atrio esagonale che disimpegna sei scale pure esagonali, un gioco di geometria che si unisce alla magnificenza dei marmi».
«Alessandro, un po’ fa ridere, ma adesso basta! Fai sempre le stesse battute! Non è un atrio che disimpegna sei scale, sono sei scale che disimpegnano l’atrio!».
«No, scusami, è sempre l’atrio che disimpegna le scale, mai il contrario».
«Certo, è così perché lo dici tu. Tu che giudichi sempre tutto e tutti».
«No, non è una questione di giudizio, è una questione di logica».
«Certo, la tua logica, che è solo tua! Tu nascondi i tuoi giudizi con la logica, ma tu giudichi sempre!».
«E va bene. Ogni affermazione contiene una componente soggettiva, quindi tutte le mie affermazioni sono soggettive anche se mi sforzo di essere oggettivo e logico. Quindi non dico più nulla, va bene così. Però tu smettila di alzare la voce».
«Io non devo alzare la voce perché tu non alzi mai la voce, la tua vocina flebile da vecchio finocchio presuntuoso. Io alzo la voce quanto voglio, visto che questa casa è per metà mia».
«Appunto, per l’altra metà è mia».
La voce continua in un profluvio di polemich
e, non l’ascolto più, cerco di fissare il mio pensiero sulla geometria dell’atrio di marmo. Certo, Castel del Monte, la Villa Farnese a Caprarola, il Pentagono di Washington, la planimetria a stella a cinque punte dell’ex Teatro dell’Armata Rossa a Mosca, il pentagono triplo dei Berliner Filarmoniker.
Una risata fragorosa rompe l’incantesimo delle planimetrie e dissolve il sogno.
Mi sveglio e il pensiero fugge al ricordo di una vacanza a Parigi.
La mia mente torna a un pretenzioso bistrò sul Boulevard Haussmann, mia moglie è furibonda per il menù troppo lontano dalle sue aspettative, per un cameriere poco cortese, per la modestia del cibo.
Mi dice perentoria che fino a quando saremo a Parigi, sceglierà lei tutti i ristoranti.
Tento di spiegarle che meno di un anno prima eravamo stati nel medesimo ristorante e ci eravamo trovati benissimo, ma sul viso mi si dipinge un sorriso dispettoso.
Non immagina il motivo della mia scelta del ristorante: volevo tornarci perché la volta precedente il servizio in sala era affidato a sei o sette cameriere, tutte giovani e carinissime, vestite con una camicetta bianca dalle maniche corte a sbuffo, gonna nera, grembiulino bianco, ballerine senza calze.
Ma questa volta il mio sottile voyeurismo è stato deluso dalla presenza di una squadra di banali camerieri maschi.
Mi riaddormento e precipito in altri sogni. Passeggio tranquillo per strada, vedo alcune persone che mi stanno guardando in modo amichevole. Mi fisso su una giovane donna, elegante, slanciata.
«Ci conosciamo vero? Abbiamo studiato insieme all’università?».
«Alessandro, non mi riconosci?».
«Certo, sei Stefania! Abbiamo fatto le scuole elementari insieme, poi ci siamo persi di vista, poi ci siamo ritrovati alla facoltà di architettura, ma dopo qualche mese ti sei trasferita a Roma e non ci siamo mai più incontrati».
«No, no, dopo la laurea Stefania è andata a Bruxelles. Ha ucciso suo padre, sua madre e suo figlio. Stefania non esiste più. Invece io sono…».
Mi sveglio prima che sveli il suo nome.
Mi sveglio con una fitta al cuore e gli occhi che mi paiono scoppiare per le lacrime.
Quella ragazza era Stefania, ne sono sicuro!
No, non lo so, non ricordo più neppure il suo volto.
Ho sbagliato a non cercarla più. Era così bella.
Ma io avevo una posizione, denaro di famiglia, avrei potuto…
Invece no, non è successo nulla, non sono stato capace di dire nulla, di fare nulla.
Devo spedirle almeno una copia del libro sull’architettura a Genova fra ‘800 e ‘900, anche se non le interessa e non si ricorda certo di me.
Mi riaddormento.
Oggi è mercoledì, è mattina, è arrivata la cameriera.
Che noia.
Misuro la febbre, è sempre più alta, 39.
Esco comunque di casa, ho bisogno di uscire qualche minuto, senza una meta particolare. Anche questa mattina c’è l’ingorgo inspiegabile di ieri. C’è anche una folla smisurata di persone per strada, alcuni camminano lentamente, altri sono fermi davanti ai negozi. Ricordo l’autunno scorso, ero a Roma, in Via del Corso, c’era una folla di turisti tale da non riuscire a camminare sul marciapiede. Io avevo un appuntamento con una mia amica, in un ristorante, non potevo arrivare in ritardo e quella folla mi dava un senso di soffocamento.
Qui a Genova non ho mai visto così tanta gente.
La folla è tranquilla, non c’è alcunché di minaccioso, ma sento un’ansia che mi stringe come un cappio.
Dopo cento o duecento metri mi sento soffocare, ho paura di svenire e cadere fuori dal marciapiede, anche se nessuno mi investirebbe, il traffico è quasi fermo, al massimo crollerei contro il cofano di un’automobile.
Rientro a casa. Saluto il portinaio che sta facendo le pulizie nell’atrio.
«Ma come è possibile che ci sia tutto questo traffico, il corso è intasato di automobili. E poi c’è una folla spropositata, non si riesce neppure a camminare sul marciapiede».
«Hanno inaugurato un’agenzia di viaggi a un isolato da qua e anche un salone di parrucchiere un po’ più avanti. Stamattina fanno il vernissage, tutti e due. I titolari conoscono un mucchio di persone e le hanno invitate».
Anche oggi sento soltanto risposte insensate.
Varco la porta di casa e mi chiudo nella biblioteca.
Dovrei mettermi a letto, ma non ho voglia di presentarmi in questo stato alla cameriera. Accendo il lettore di CD.
Ieri Prokofieff, questa mattina Villa Lobos. Devo comprare il CD con la raccolta delle Bachianas di Villa Lobos.
Ripenso alla prima volta che ho sentito la Bachianas n. 8, accompagnava un balletto al quale assistevo insieme a mia cugina Fanny.
Ricordo la musica dolce e struggente, su un tema barocco e moderno al tempo stesso, una coreografia sobria affidata a una sola danzatrice, ricordo un turbinio di veli, avevo gli occhi lucidi per la commozione.
Avrei dovuto studiare musicologia, avrei dovuto studiare tante altre cose.
Ma il tempo è passato.
Nel frattempo, giro su internet, voglio pur sempre completare le mie collezioni di francobolli e di monete.
Prendo dalla libreria i miei albi di francobolli. Repubblica Italiana, 1945-1985, completa, compreso Gronchi Rosa e Cavallino Sardo, tutti fior di stampa e ben centrati. Repubblica di San Marino, 1945-1985, completa. Francia, 1900-1965, completa.
Potrei risalire fino al 1870, così avrei tutta la Terza Repubblica e potrei arrivare fino al 1970, così avrei cent’anni esatti. Vediamo le quotazioni.
Poi estraggo dalla cassaforte i plateaux di velluto rosso in cui sono incasellate le monete d’oro e d’argento.
Le collezioni tipologiche di Francia, Belgio, Svizzera, Austria, Germania, Olanda, Gran Bretagna, Russia… Più o meno dal 1850 in avanti.
Approdo al sito internet di un prestigioso numismatico di Montecarlo.
Ha messo in vendita le 100 corone d’oro di Kaiser Franz Joseph del 1908, quanto di più fin de siècle si possa immaginare, con l’allegoria della fama sotto le spoglie di una fanciulla nuda distesa su una nube che regge in mano una corona d’alloro. 7000 euro.
La ordino subito, dispongo il bonifico dal sito internet della banca. Continuo a scorrere il sito. Vendono anche i 100 franchi d’oro Confédération Helvétique del 1925, con una vezzosa testina di contadinella svizzera.
Altri 20.000 euro, altro ordine e altro bonifico.
Ci sono addirittura i 5 franchi d’oro francesi Ceres del 1878 e 1889, prezzo su richiesta. Pasticcio freneticamente sul computer, non troverò mai più quella moneta, è talmente rara che non ho mai visto una quotazione.
Sto malissimo, ho un’emicrania atroce, non capisco cosa stia facendo. Ordine eseguito.
Ma è impossibile!
Senza sapere il prezzo di vendita e senza inviare il bonifico!
Non ho abbastanza denaro per pagarla!
Sono affranto, spengo il computer, resto a lungo a contemplare i francobolli e le monete d’oro seduto alla scrivania.
Riaccendo il lettore di CD: Mozart, sinfonia K550 e poi il requiem K 626 e poi Beethoven, 7^ sinfonia op. 92.
La melanconia, una sconfinata dolcissima melanconia, un silenzioso naufragio nelle acque tiepide e immobili di un mare azzurro venato di grigio.
Poi un dormiveglia evanescente.
A sera, come un sonnambulo, mi corico nel letto.
È giovedì mattina, mi sveglio.
Non sento alcun malessere particolare, ma sono del tutto senza forze, la febbre deve essere sempre più alta.
Come un automa mi alzo dal letto, mi lavo, sfamo i gatti e mi vesto con uno dei soliti eleganti completi, questa volta blu anziché grigio.
Voglio uscire, anche se non mi reggo in piedi.
Scendo nell’atrio del palazzo: è traboccante di folla, ci saranno un centinaio persone, cosa stanno facendo? Mi affaccio fuori dal portone e vedo lo stesso ingorgo di traffico e la stessa folla di persone che passeggia, che è ferma, che aspetta qualcuno o qualcosa.
L’ansia mi assale, dopo pochi passi rientro nell’atrio del palazzo, raggiungo la portineria.
«Buongiorno professore, ha visto quanta gente?».
«Ma chi sono?».
«Non saprei. Però, la dottoressa S., che fa parte di una congregazione religiosa, mi ha detto che voleva organizzare un pellegrinaggio a un santuario».
«La dottoressa S.? La titolare dello studio da commercialista fa parte di una congregazione religiosa? E si sono riuniti tutti qui nell’atrio per andare a un santuario?».
«E ha presente l’alloggio del quarto piano, quello che è in vendita da mesi? Hanno cambiato agenzia immobiliare, si sono affidati a un intermediario che organizza eventi negli alloggi da vendere, così qualcuno li vede e li compra. Sembra che in America lo facciano da anni».
Le spiegazioni mi sembrano così insensate che non riesco a dire nulla.
Cerco di prendere l’ascensore ma è occupato, inizio a salire a piedi l’ampio scalone di marmo, ma è affollato di gente, qualcuno mi chiede se abito nel palazzo e come mi trovo, spiegandomi che stanno andando all’evento al quarto piano.
È tutto senza senso.
Nell’atrio e lungo le scale sono tutti tranquilli, si sente appena un brusio, si scansano per farmi passare, anche se con difficoltà, vista la ressa crescente. Io sto sempre peggio, mi sento soffocare, sono in uno stato di vero panico.
Raggiungo la porta del mio alloggio.
Entro e mi accascio sul divano, in uno stato di sonnambulismo.
Ma adesso anche la mia casa è piena di gente.
C’è la cameriera assieme alla figlia, sono andate in lavanderia a prendere i tendoni del salone da pranzo, del salone biblioteca e della camera da letto, devono appenderli ed è meglio che siano in due.
C’è l’elettricista che deve riparare il lampadario della sala da pranzo.
C’è anche il restauratore che mi ha portato uno dei dipinti floreali appesi in biblioteca che si stava scrostando.
C’è gente dovunque, dove posso andare? Mi rifiuto di andare nella stanza degli armadi, dietro la camera da letto.
Sta suonando il telefono, una, due, tre, quattro volte, ma non voglio rispondere.
Arriva il fattorino con le monete d’oro: mi dice che devo aprire il pacchetto e telefonare subito a Montecarlo, c’è stato un errore gravissimo, mi hanno spedito il 5 franchi d’oro Ceres ma io non ho fatto il bonifico e devo farlo subito via internet.
No, quella moneta ha un prezzo folle, non ho abbastanza fondi sul conto corrente, non posso finire intrappolato in una causa civile.
È come se le mie collezioni mi si rivoltassero contro, le mie monete d’oro mi guardano irridenti e beffarde.
Telefono al numismatico, lo conosco, ma non riesco quasi a parlare, voglio solo disdettare l’ordinativo e restituire la moneta, ma il fattorino resta piantato immobile nella hall di casa mia e aspetta che faccia il bonifico.
Sto sognando, oggi è giovedì, la cameriera verrà domani.
È impossibile che dopo un solo giorno mi consegnino le monete.
È impossibile che mi abbiano consegnato per sbaglio una moneta che costerà 50.000 o 100.000 euro.
È tutto impossibile, è tutto un sogno.
Ma ho la febbre sempre più alta, dovrei farmi portare subito all’ospedale, invece sono mezzo svenuto, incapace di muovermi e di parlare.
Non voglio finire nel caos di un pronto soccorso, dovrei farmi portare nella clinica privata dove mi hanno operato di ernia l’anno scorso, non era male, sembrava un albergo più che un ospedale.
Due anni fa, un collega d’ufficio ebbe un’infezione provocata da chissà quale virus, ebbe per qualche giorno una febbre altissima, poi per un anno restò in uno stato di coma vigile, probabilmente si vedeva morire giorno dopo giorno.
Una morte a rate, sto finendo come quel mio collega.
No, non sono mai stato ipocondriaco, non sta succedendo niente.
Sto sognando di morire, ma non riesco a svegliarmi da questo sogno.
Non c’è alcun problema, è tutto in ordine, la casa, i gatti, le bollette, il conto corrente, i mutui, le collezioni, la carriera, mia moglie da cui mi sono separato ma tutto è stato sistemato e compensato.
No, le collezioni non proprio, manca il 5 franchi Ceres. Manca la Bachianas n. 8.
Volevo portare una bambola e un cammeo a mia nipote Irene e non l’ho fatto.
Volevo rileggere con calma la Recherche e L’uomo senza qualità.
Vorrei rivedere Stefania che non ho mai più incontrato e vorrei invitarla a pranzo da Zeffirino, sarebbe elegante, ma non mi ricordo neppure il suo volto, non saprei cosa dirle.
Manca sempre qualcosa, manca sempre qualcuno.
Devo solo riuscire a svegliarmi, non ci riesco, non ci riesco…
FOLLA è un racconto di Alessio Martini presentato al progetto letterario “I sassi neri”.
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