DUE TESTE SONO MEGLIO DI UNA di Roberto Masini
GENERE HORROR
Foto di Jan Steiner da Pixabay
Io sono un pittore; un discreto pittore, secondo alcuni critici, un paesaggista manierista e un pessimo ritrattista, secondo i miei detrattori.
Questa storia, però, non parla di questo: la mia passione, però, è stata la causa indiretta di ciò che mi è capitato.
Si farà fatica a credere che quanto racconterò sia accaduto realmente, ma quello che andrò ora a riferire l’ho visto con i miei occhi, e l’ho vissuto sulla mia pelle.
Non si era ancora spenta l’eco dei disordini avvenuti la settimana prima, tra il sei e il dieci agosto, che aveva inizialmente interessato i quartieri periferici di Londra con saccheggi, episodi di sciacallaggio e rivolte.
I disordini erano incominciati nel quartiere di Tottenham, per poi espandersi senza controllo intorno alla città: Chelsea, Brixton e persino Oxford Circus, una delle maggiori attrattive turistiche di tutta la città.
La causa delle sommosse era stata l’uccisione, nel corso di una sparatoria con la polizia, di un ventinovenne, Mark Duggan, padre di quattro figli.
La rivolta si era presto propagata in altri quartieri.
Vandalismi e comportamenti violenti furono registrati anche in molte altre aree di Londra.
Molti negozi furono incendiati, saccheggiati e distrutti da gruppi di manifestanti.
Almeno trentacinque poliziotti facenti parte del Metropolitan Police Service furono feriti. Gli incidenti si diffusero anche in altre città come Birmingham, Liverpool, Bristol e Manchester. Quella era la peggiore rivolta dai disordini di Brixton del 1995.
Per quanto mi riguarda, ero già stanco di quelle notizie, motivo per cui avevo abbandonato i vecchietti che condividevano il mio albergo a Princetown, dal momento che questi non facevano altro che parlare dell’enorme casino di Londra, e mi ero rifugiato a Grimspound.
Grimspound è un sito archeologico del parco nazionale del Dartmoor, nella contea inglese del Devon, dove si trovano i resti di un villaggio dell’Età del Bronzo, formato da una ventina di casupole disposte a cerchio e che in origine dovevano essere state fornite di un tetto in paglia o in torba. Il nome Grimspound deriva dall’antico nordico grimr, che era uno degli appellativi del dio Odino.
Il termine sarebbe stato poi utilizzato dai Sassoni con il significato di “diavolo” e si ipotizza che tale termine sia stato utilizzato da questo popolo per indicare un sito preistorico considerato appunto diabolico.
Il secondo termine che compone il nome, ovvero pound, indicherebbe dei siti preistorici cinti da mura. Sull’origine del sito sono state formulate ipotesi più o meno fantasiose: in Grimspound alcuni studiosi hanno visto un sito vichingo, altri una città romana, altri ancora un tempio druido, altri un forte dell’Età del Ferro.
È stato tuttavia appurato che l’origine del sito sia da collocare nell’Età del Bronzo. Lo proverebbero i pochi manufatti ritrovati in loco e risalenti a quel periodo, anche se il sito potrebbe essere più recente.
Tra le teorie più plausibili vi è quella che si trattasse dell’insediamento di una comunità dedita all’allevamento e alla pastorizia, utilizzato durante il periodo della transumanza.
Secondo un’altra ipotesi, che prende in considerazione l’altezza della cinta muraria, si tratterebbe invece di una costruzione che aveva scopi difensivi.
Avevo posizionato il mio cavalletto vicino a un cerchio di pietre in direzione sud per poter cogliere le luci del tramonto sui massi di granito, quando udii provenire alla mia destra una specie di ruggito basso e sordo.
Posai il pennello e la tavolozza che tenevo in mano, mi alzai dallo sgabello, e volsi lo sguardo lungo la via dei minatori, verso una delle due aperture del lungo muro circolare.
Non c’era nessuno quel giovedì d’agosto, né turisti né archeologi.
L’interminabile brughiera che s’intravedeva attraverso l’apertura era accarezzata da una brezza che mitigava la temperatura canicolare e che faceva tremare l’erica offrendo lo spettacolo di un mare ondeggiante.
Improvvisamente, il mare d’erba si divise per lasciar passare un’esile figura femminile che correva a perdifiato.
Questa varcò con un balzo l’ingresso di Grimspound e corse verso di me, urlando. Quando mi fu vicino, mi abbracciò, e solo allora mi accorsi che era completamente ricoperta di sangue.
Mi gridò all’orecchio: «La Bestia di Dart…».
Pochi istanti dopo, cadde a terra, morta.
Nel frattempo, allarmati dalle grida, alcuni custodi accorsero e rimasero paralizzati davanti al cadavere della donna, il quale, solo ora potevo vederlo, aveva una profonda ferita alla schiena.
Balbettando, mi proclamai innocente e spiegai agli uomini la dinamica, per giustificarmi e sciogliere ogni dubbio, anche se non ce n’era bisogno: i custodi affermarono con certezza, dopo lo spavento iniziale, che la donna era stata sicuramente azzannata da un grosso animale, un cane, dissero.
La forma delle sue fauci era ancora perfettamente visibile.
Poco dopo, prima che arrivasse la polizia, sopraggiunse un cacciatore che mormorò: «Un’altra vittima della Bestia di Dartmoor…».
Apparentemente fui l’unico a dimostrare interesse nei confronti di quell’affermazione: questa corrispondeva infatti alle ultime parole della donna.
I custodi si allontanarono con un’alzata di spalle; io, invece, chiesi al cacciatore di approfondire.
«Vedo che lei non conosce la storia. La leggenda narra che un mostro a quattro zampe con gli occhi ardenti e un raccapricciante urlo vaghi in questa brughiera. Secondo alcuni, i quali dichiarano di averlo visto, l’animale ha un pelo folto e ispido, grandi orecchie e arti anteriori. Alcuni dicono che è simile a un orso, o a un gatto selvaggio, ma i più descrivono una specie di cane infernale. Qualunque sia la sua identità, la Bestia di Dartmoor sta procurando ad alcuni allevatori notti insonni perché temono che possa predare le loro pecore. La creatura è stata fotografata dal falconiere Martin Whitley, che affermava fosse un cane nero e grigio, paragonabile per dimensioni a un pony, i cui movimenti apparivano felini. Sa che proprio questa leggenda ispirò Sir Arthur Conan Doyle nella composizione del racconto Il mastino dei Baskerville?».
Al mio cenno di diniego, l’uomo continuò.
«Si racconta che uno scudiero, secoli fa, vendette la sua anima al Diavolo e, dopo la sua morte, una muta di cani spettrali neri con gli occhi rossi brillanti corse attraverso Dartmoor, sputando fuoco e ululando alla sua tomba. Secondo tale racconto, questi cani demoniaci vagano nella brughiera da allora e spesso si possono vedere aggirarsi intorno alla tomba dell’uomo il giorno dell’anniversario della sua morte, cercando di ottenere l’anima promessa al Diavolo. Solo gli scettici credono che la bestia non sia altro che un grande e peloso cinghiale. Ma un cinghiale non può fare tutto questo».
Quando il coroner giunse con la polizia, eravamo tutti intorno al cadavere: io, i custodi e il cacciatore.
Ci chiesero se conoscevamo la ragazza; nessuno di noi la conosceva.
Sentii il dottore segnalare al sergente che la donna era morta dissanguata in seguito ad un’aggressione da parte di più cani.
Trascorsi alcuni giorni piovosi nell’albergo di Princetown, dove i vecchietti avevano cambiato argomento di discussione: non parlavano d’altro che del mostro di Dartmoor e mi tempestavano di domande a cui, naturalmente, non sapevo rispondere.
Sul Plymouth Herald era uscito un articolo dettagliato sull’avvenimento.
Sotto, una foto a tutta pagina della ragazza deceduta si diceva che era stata identificata come Geraldine Cross, operaia presso una fabbrica di tessuti di Kingbridge.
I suoi colleghi di lavoro la descrivevano come una persona taciturna, diffidente e suscettibile. Era nata a Falmouth, una cittadina della Cornovaglia; a vent’anni aveva trovato lavoro qui nel Devon e aveva abbandonato la famiglia di origine.
Viveva sola in un appartamentino fatiscente a Loddiswell, un paesino vicino a Kingbridge.
Tutti i giovedì si recava con l’autobus a Tavistock, ai margini del Dartmoor, per andare a trovare la sua unica vecchia zia paterna, molto malata.
I viaggiatori che quel tragico giovedì erano sul mezzo, alcuni dei quali abituali e perciò perfettamente in grado di identificare la Cross, avevano tutti testimoniato che la donna era scesa a Yelverton in compagnia di un uomo alto, il cui volto non era stato visto da nessuno in quanto coperto dal cappuccio di una felpa nera.
Mano nella mano si erano incamminati lungo la strada che conduce a Princetown, che dista circa dieci chilometri dalla fermata di Yelverton.
Nessun abitante di Princetown però ha affermato di averli mai visti quel giorno e di non ricordare di averli mai visti prima.
Confrontando le numerose ferite e i calchi delle dentature che ne derivavano, l’anatomopatologo era risalito alla presenza di due cani lupo: un cane lupo di Sarloos, olandese, e un cane lupo cecoslovacco.
Il primo dalla dentatura tagliente e poderosa è caratterizzato da una chiusura a forbice, mentre il secondo, con canini particolarmente sviluppati, ha una chiusura sia a forbice che a tenaglia.
Peccato che nelle vicinanze non sia stato trovato alcun esemplare di queste due specie di cani.
Alla prima giornata di sole di quell’ultima settimana di agosto, ripresi il mio armamentario di pittore e risalii a Grimspound. I vecchietti mi sconsigliarono di farlo, ma io non li ascoltai.
La polizia brancolava nel buio, i cani assassini non si erano più fatti vedere ed io dovevo ancora realizzare i quadri promessi per una galleria d’arte a Manchester.
Salutai tutti e controllai che nel mio bagaglio ci fosse la pistola che portavo sempre con me: una vecchia abitudine.
Quel giorno decisi che non avrei dipinto le antiche pietre, ma la brughiera; quindi mi appostai fuori dal sito archeologico.
L’esplosione di violetto determinato dalla fioritura dell’erica mi colpiva sempre. All’improvviso, vidi qualcosa muoversi davanti a me, ma non riuscivo a capire che cosa fosse.
Aguzzai gli occhi in direzione del movimento e non potei non pensare a quello che era successo appena qualche giorno prima.
Ed ecco qualcosa che si muoveva a una velocità impressionante dietro all’altra cosa sconosciuta.
Due cani?
Mi alzai, estraendo la pistola dalla valigia e stringendola spasmodicamente.
Poi, vidi ancora qualcosa che sembrava inseguire le altre due. Infine, un frullar di ali, uno sparo e il latrato di un cane.
Era un bracconiere; aveva cacciato un bell’esemplare di gallo cedrone.
Ancora tremante per lo spavento, urlai insulti e improperi al suo indirizzo.
L’uomo si fermò, scaricò il fucile e dopo aver accarezzato il cane, me lo aizzò contro.
Vidi arrivarmi addosso non un cane da caccia, ma un cane lupo dal manto nero che correva con le orecchie abbassate.
Decisi di sparargli, ma lo mancai.
Lui non mancò me; mi azzannò alla mano e la pistola cadde a terra.
Ero perduto.
Pensai che quello fosse uno dei due cani che avevano dilaniato la Cross.
Poi altri due spari seguiti da un fischio prolungato.
Il cane mi mostrò le gengive e sparì insieme al cacciatore di frodo.
La mia vita era stata salvata da un ranger di passaggio.
Dopo aver verbalizzato l’incidente, tornai con il mio armamentario all’alberghetto di Princetown.
I vecchietti si affollarono intorno a me ed io incominciai a raccontare la mia storia.
Feci però l’errore di citare la preda sfuggita al bracconiere, e cioè il gallo cedrone.
Una volta evocato, il più vecchio dei miei ascoltatori mi domandò: «E non l’hai portato qui per poterci fare una bella mangiata?».
Non feci in tempo a rispondere che quello continuò: «Per prepararlo devi fare così: spennalo, taglia la testa e la coda. Alcune persone suggeriscono di riempire l’interno di bacche come per esempio i mirtilli. Personalmente preferisco un po’ di aglio schiacciato e qualche bacca di ginepro. Poi, devi infornarlo per quindici minuti. Successivamente devi tirare la carne fuori, piegare le cosce, e poi infornarla di nuovo per altri cinque minuti. Qualcuno afferma che le cosce sono troppo amare e per questo motivo è meglio usarle per preparare una salsa. Aspetta da cinque a dieci minuti prima di piegare il petto. Il gallo cedrone va appeso intero e con le penne per circa sette giorni per far frollare la carne. Appena cacciato, il gallo cedrone non sa di niente. Per gustare il gallo cedrone al meglio è opportuno servirlo con una ricca salsa a base di una riduzione di selvaggina e Porto. Se mischi il fegato tagliuzzato con la salsa, arricchisci il sapore ulteriormente. Anche la mollica di pane fritta in burro e servita a parte può aggiungere consistenza. Anche una confettura o una gelatina a base di ciliegie esalta il sapore. Il gallo cedrone va accompagnato con la verza o la barbabietola rossa arrostita, ma anche una purea fatta di cubetti di patate, carote e cavolo navone che sono stati stufati e poi schiacciati con burro e pepe e successivamente infornati per circa quindici minuti nel forno può andare».
Tutti ascoltavano rapiti: ormai era chiaro, del mio incidente e del cane infernale non importava più a nessuno.
Il giorno dopo, a metà pomeriggio, ero di nuovo al parco di Dartmoor: qualcosa mi continuava a spingere ad andare.
Grosse nuvole nere si stavano addensando nel cielo; erano i colori che volevo e, anzi, speravo che dopo la pioggia sarebbe tornato il sole e forse avrei potuto fermare sulla mia tela un arcobaleno.
Si era alzato un improvviso vento da est che faceva ondeggiare l’erica tutta intorno a me.
Avevo faticosamente terminato di fissare il mio cavalletto, quando udii un ululato.
Ora non ero più vicino a Grimspound e ai suoi custodi: ero in un luogo isolato, lontano dai percorsi turistici… e mi accorsi di aver dimenticato in albergo la mia pistola.
Ed ecco arrivare la pioggia.
Scrosci sempre più violenti mi costrinsero a ripararmi alla meglio sotto un albero.
Mentre aspettavo che la pioggia smettesse di cadere, mi guardavo intorno; il nubifragio era così intenso da causare uno sconvolgente annebbiamento del panorama circostante.
Sentii ancora quell’ululato; ricordo che tremai di paura.
In mezzo a tutta quella nebbia acquea mi sembrò di scorgere un’ombra che correva ed emetteva un suono prolungato che però non riuscivo a distinguere.
Mentre cercavo di penetrate con lo sguardo in quella coltre umida, vidi arrivare da destra un’altra ombra che raggiunse la prima.
Mi sembrava di assistere a quegli spettacoli di ombre cinesi in cui pochi ballerini riuscivano ad assumere le forme più strane.
Poi risentii l’ululato; era vicino e sembrava provenire da una delle due ombre.
La pioggia cominciò a diminuire d’intensità e allora potei vedere meglio; anche se lontani, potevo intravedere due cani che si stavano avventando su un uomo.
Li vidi entrambi balzargli alla gola mentre un urlo lancinante squarciava l’aria.
Rimasi paralizzato dal terrore.
Poco dopo, l’uomo era caduto in mezzo all’erica e i due cani si erano dileguati.
La pioggia era sempre meno intensa.
Afferrai un ramo abbattuto dal vento e mi avvicinai dove lo avevo visto cadere.
Avanzai circospetto tra l’erica con il bastone alzato, l’orecchio teso per cogliere il minimo rumore.
Improvvisamente, urtai contro qualcosa o meglio contro qualcuno; era quello che rimaneva di un uomo.
Letteralmente sbranato, della faccia non rimaneva altro che il brandello di un orecchio, delle gambe solo le ossa; non aveva più le braccia e il poco che era rimasto era totalmente imbrattato di sangue.
Mi girai e vomitai, cadendo in ginocchio.
Quando mi rialzai, notai sul collo del cadavere un bizzarro ciondolo d’avorio: sembrava un uomo con tre teste, sei braccia e tre busti che si riunivano alla vita.
Più tardi, dopo l’arrivo della polizia da me allertata, fui sottoposto a un serrato interrogatorio: le forze dell’ordine avevano considerato non casuale che io mi trovassi lì anche in quest’ultima circostanza.
Mi tenni a disposizione per due settimane e poi tornai a Plymouth.
La polizia aveva accertato che non c’era alcun rapporto tra le due vittime.
L’ultima era Theofanis Agritis, lo stalliere di una villa ai margini del Dartmoor, di proprietà di un ricco commerciante di bestiame greco, Apollon Kostandinis.
Lessi sui giornali locali che era stata messa a soqquadro la villa di Kostandinis ma senza successo; erano stati trovati due alani arlecchino i cui morsi non potevano combaciare con quelli trovati sulle vittime del Dartmoor.
Solo pochi giorni dopo, i cadaveri di due contadine vennero ritrovati nella campagna circostante: la causa della morte andava imputata di nuovo alle ferite provocate dai morsi di due cani di grossa taglia.
Erano passati ormai più di sei mesi dalle mie avventure nel Devon.
Avevo cambiato soggetti, dipingevo scorci della mia città: Plymouth.
In uno di quei giorni in cui non trovavo l’ispirazione, m’imbattei in una galleria d’arte che ospitava opere di pittura vascolare greca.
Entrai, curioso, e m’intrattenni a esaminare copie di vasi greci che riproducevano storie mitologiche.
All’improvviso fui attratto da un vaso: sulla didascalia c’era scritto: “Hydria attica a figure nere da Cerveteri, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma. Ercole contro il mostro tricorpore Gerione. A sinistra l’eroe con pelle leonina e faretra imbraccia con la sinistra l’arco ed è in atto di scoccare la freccia verso Gerione che avanza protetto da tre grandi scudi e armato di altrettante lance: una delle teste del mostro, già colpita, è rovesciata all’indietro; a terra tra i due giace morente il pastore Eurizione e il cane bicefalo Ortro”.
Incuriosito sempre di più, perché la figura di Gerione mi ricordava lo strano ciondolo che avevo visto a quello che rimaneva del collo dello stalliere, mi rivolsi alla curatrice della mostra, per avere maggiori particolari.
«Si tratta» mi rivelò, trascinandomi vicino alla teca «della decima fatica di Ercole. Gerione, quel gigante lì con tre corpi, possedeva dei buoi che tutti gli invidiavano, compreso Euristeo, il quale ordinò a Ercole di portarglieli. I luoghi dove abitava Gerione si trovavano agli estremi confini occidentali della terra ed Ercole riuscì a raggiungerli, attraversando il mare su una coppa che Elio, il dio del sole, gli aveva prestato. Giunto allo stretto di Gibilterra eresse le due famose colonne, dopo di che si recò nel regno di Gerione. Ercole, per impossessarsi dei buoi, uccise il loro guardiano Eurizione, il suo cane a due teste, Ortro, e infine Gerione. Anche Era cercò di ostacolare l’eroe, ma fu messa in fuga dalle sue micidiali frecce. Ercole caricò i buoi sulla coppa e attraversò il mare anche grazie alla sua pelle di leone che per l’occasione funse da vela permettendogli di arrivare ad Argo».
Ringraziai e me ne andai: mi era venuta un’idea.
Mi recai alla biblioteca centrale per consultare i quotidiani; dopo un intero pomeriggio passato a sfogliarli, ottenni la conferma di ciò che sospettavo.
Infatti, in nessun giornale era riportata la notizia del ritrovamento di quello strano ciondolo.
Certo, come prova di colpevolezza nei confronti di Kostandinis era poca cosa, ma per me era un inizio.
Non ho mai avuto doti d’investigatore, e qualcosa dentro di me mi diceva che era meglio lasciar perdere questa storia, ma ero stato preso da un‘inesplicabile frenesia.
Raggiunsi Princetown il giorno dopo, in tempo per scoprire che erano ripresi gli assalti mortali dei cani a Dartmooor.
Cadeva un nevischio misto a pioggia che formava solo larghe pozzanghere e non imbiancava nulla.
Gli unici due vecchietti rimasti all’albergo dicevano che il turismo era morto a causa di quelle morti.
Chiesi informazioni su Kostandinis.
Non mi rivelarono novità: mi dissero che era stato indagato e poi rapidamente scagionato perché i morsi dei suoi alani non si adattavano a quelli rinvenuti sulle vittime.
Scoprii più tardi dalla locandiera che il greco, ogni tanto, apriva la sua villa per feste principesche.
Decisi che sarei entrato in quella villa per cercare indizi.
Non fu facile ottenere un invito: dopo parecchi tentativi andati a vuoto, mi aiutò uno dei miei vecchietti.
Aveva sentito che Kostandinis cercava un ritrattista e il vecchietto, attraverso una serie di sue conoscenze, mi aveva regalato lettere di referenze da parte di Lord Hector Mayfield, Sir James Montagu e Lady Gwendalin Hatford, che nessuno avrebbe potuto ignorare.
Dopo aver inviato le mie credenziali, fui chiamato dal magnate greco.
Prima di entrare nella sua villa, il suo maggiordomo mi fece visitare l’enorme parco che comprendeva frutteti, fontane, piante profumate, parterre d’acqua, terrazzi, orticelli e un labirinto.
Quando giunsi in prossimità della facciata, mi resi conto che quella sembrava una piccola Hatfield House.
Si poteva scorgere il turrito stile Tudor delle ali con le finestre con volta a quattro centri. Il complesso era simmetrico e le due ali erano raccordate da una facciata cinquecentesca italiana.
Mi fecero attendere in una lunga galleria che probabilmente fungeva da stanza di ricevimento principale.
Dopo circa mezz’ora, giunse il padrone di casa, un tipo allampanato, dalle mani affusolate, e che indossava una giacca da camera in velluto verde con chiusure in alamari, sotto la quale spiccava una cravatta color Chartreuse.
Esauriti i convenevoli, mi disse che aveva già sentito parlare favorevolmente di me, che aveva già visto alcuni miei quadri, non solo paesaggi, ma anche ritratti.
Mi portò in una grande sala, dove troneggiava un pianoforte a coda.
«Ecco» mi propose «io vorrei che lei realizzasse il mio ritratto seduto, vicino al mio fedele pianoforte».
E così dicendo, si sedette e suonò brillantemente un brano di Mozart.
Terminata la sonata, mi condusse a visitare la villa.
Passammo attraverso sale più o meno grandi alle cui pareti erano appesi arazzi di pregio e quadri di Matisse, Picasso ma soprattutto di pittori russi quali Archipov, Cistjakov, Perov, Renin e altri minori a me sconosciuti.
Poi uscimmo e mi fece visitare le sue stalle, dove mi decantò le lodi di un sauro arabo, di un palomino quarter horse e di un baio purosangue inglese.
Si chiamavano rispettivamente Bailo, Xanto e Pedaso, come i cavalli di Achille.
Vidi anche i suoi due alani arlecchino, Argo e Lelapo.
Lanciò loro due pezzi di carne, sui quali si avventarono furiosamente.
Sembrò approfittare della scena per parlarmi dei cani che pareva infestassero la brughiera. Io, dal canto mio, raccontai gli episodi dei quali ero stato testimone.
Formulò l’ipotesi di una muta di cani randagi della quale però non era stata trovata alcuna traccia, nonostante le battute della polizia.
Mi accomiatai, stipulando un contratto che prevedeva la mia presenza solo nei giorni di giovedì e venerdì, per circa un mese, nei tardi pomeriggi, vicino al pianoforte, illuminato dai lampadari.
La prima parte del mio piano era andata a buon fine; ora dovevo trovare il modo di poter girovagare liberamente per la villa senza destare sospetti.
Il giovedì successivo arrivai con il mio cavalletto, le mie tele, i miei pennelli e i miei colori e lo vidi già seduto vicino al piano. Indossava un frac nero con le caratteristiche code di rondine, pantaloni neri, senza piega né risvolti, un panciotto di piqué bianco; la camicia era bianca, con lo sparato rigidamente inamidato e il colletto diplomatico, ovvero ribattuto in alto con le punte piegate verso l’esterno.
Completava l’abbigliamento da direttore d’orchestra il farfallino di piqué bianco e le scarpe di vernice nera.
Cominciai di buona lena e il mio modello fu assolutamente disciplinato, quando gli ordinavo di non muoversi.
Alle dieci, un maggiordomo ci comunicò che era pronta la cena.
Dopo essermi cambiato, lo raggiunsi in sala da pranzo.
Fu servita una cena rigorosamente inglese: pollo arrosto, filetto di manzo e, come dessert, uno sticky toffee pudding.
Nei giorni seguenti, invece, mi furono serviti solo piatti etnici: indiani, vietnamiti, cinesi, giapponesi, greci e italiani.
In quel primo giorno, e nei giorni successivi, nonostante il freddo intenso dell’inverno, ci concedemmo una sosta sulla grande terrazza della villa per fumare una sigaretta, parlando dei grandi pittori del Seicento.
Dopodiché, il greco mi congedò.
Decisi che avrei dovuto muovermi con cautela per non insospettirlo e quindi, dopo due settimane, mi capitò l’occasione per ispezionare posti che non avevo visto.
Avevamo casualmente cominciato a parlare della Retsina rosata, un vino da tavola greco, e quindi il discorso scivolò sulle cantine.
«Voi avete una cantina fornita?» domandai.
«Certamente. Non gliel’ho ancora fatta vedere? Mi dispiace. Rimediamo subito».
Lì mi decantò le doti degli innumerevoli vini italiani, francesi e spagnoli che vedevo esposti in bell’ordine.
Non c’era nulla d’interessante neanche lì: solo bottiglie.
Quando uscimmo, mi accorsi che proprio di fronte a noi, dall’altra parte del cortile, vicino al canile c’era una porta simile a quella che avevamo appena chiuso alle nostre spalle.
«Lì c’è un’altra cantina?» domandai, forse con troppo interesse.
Me ne pentii subito, poiché Kostandinis mi rispose evasivamente: «No, è solo un ripostiglio».
Temevo di averlo allarmato, per cui non chiesi altro.
Notai invece, senza farne menzione al greco, che la porta era presidiata costantemente da un custode.
Dovevo riuscire a entrare lì, anche se non sapevo esattamente cosa avrei trovato.
Contavo ormai solo su un colpo di fortuna.
Un venerdì, mentre mi avvicinavo alla mia tela, fui raggiunto da un servitore che mi portò le scuse del padrone che non poteva essere presente perché quella sera si sarebbe tenuta, nella villa, una festa alla quale non poteva non presenziare.
Uscii, stretto nel mio cappotto, calpestando il manto di neve che ricopriva l’intero cortile. Dalle finestre chiuse e illuminate provenivano echi di strane litanie a cui seguivano scoppi di risa e urla.
Decisi di approfittare della distrazione generale per avvicinarmi alla porta misteriosa, che trovai non sorvegliata, ma chiusa.
I piccoli arnesi da scasso che mi aveva procurato uno dei miei vecchietti di Princetown mi tornarono utili.
Riuscii a far scattare la serratura e, con la pistola in pugno, scesi le ripide scale che mi trovai davanti, illuminandole con la luce di una torcia che avevo con me.
Giunto in fondo, mi trovai di fronte ad un ampio spazio del tutto simile alla cantina che avevo visitato, ma completamente sgombro.
Percorsi infatti il periplo del seminterrato senza incontrare ostacoli.
Mi fermai un istante perché mi sembrava di sentire ululare entrambi gli alani.
Decisi di spingermi al centro della stanza e allora illuminai qualcosa di pazzesco.
Mi sovvenne per una frazione di secondo quello che avevo letto su una rivista medica a proposito dei disordini cefalici congeniti, dopo la mia visita alla mostra di ceramica vascolare.
Gli animali bicefali o tricefali sono gli unici tipi di creature con più teste presenti al mondo, e hanno la stessa origine dei gemelli siamesi.
Sono infatti il risultato di una fallita separazione di gemelli monozigoti; non sopravvivono a lungo.
Al centro dello scantinato invece, dormiva, vivo e vegeto, un enorme cane con due teste. Non feci in tempo a fuggire: la luce lo aveva svegliato e subito, ringhiando, mi si avventò contro.
Sparai in rapida successione cinque colpi che andarono tutti a segno, data la piccola distanza che ci divideva.
Ma non successe niente: non uscì sangue, le due teste si scrollarono un po’, agitando le orecchie, e riattaccarono.
Esplosi ancora un colpo, invano e poi mi rannicchiai: avevo letto infatti che attraverso questa mossa era possibile scongiurare l’attacco di un lupo.
Ma fu tutto inutile: le due teste mi afferrarono le braccia e le tirarono, per poter raggiungere la gola.
Si accese la luce e sentii Kostandinis che urlava:
«Ortro, fermo!».
Le due bocche, dalle quali colava bava, si arrestarono e mollarono la presa.
Il cane bicefalo si avvicinò, uggiolando a Kostandinis che lo accarezzò e poi disse rivolto a me, che ero rimasto in ginocchio con il sangue che usciva copiosamente dalle braccia:
«Che termine usate voi inglesi? Ah, sì, ficcanaso. Lei non mi è piaciuto fin dal primo giorno. Ho pensato però che se l’avessi accolto l’avrei più facilmente controllato».
Le due teste dell’immonda creatura alzarono lo sguardo verso il magnate che estrasse da un sacchetto che aveva con sé due mani e gliele lanciò.
Mi fu chiaro chi aveva azzannato quegli infelici nella brughiera.
Feci un ultimo tentativo per guadagnare tempo:
«Perché l’ha fatto? Da dove salta fuori questa creatura? C…Cos’è?».
«Vuole spiegazioni? Non le avrà» urlò l’uomo, con il volto paonazzo.
A quel grido, la bestia si slanciò nuovamente su di me, ma il greco la fermò nuovamente:
«Buono, Ortro: stanotte dovrai rinunciare a un lauto pasto ma poi questo signore allontanerà da noi ogni sospetto».
Dalle scale, improvvisamente, arrivarono due uomini, robusti e armati, che mi tramortirono con dei manganelli.
Fui risvegliato dalla neve copiosa che si posava sulla mia faccia; quando aprii gli occhi, mi ritrovai in piena brughiera illuminata dalle fotoelettriche con volti di poliziotti chini su di me. Mi girai per alzarmi e nel farlo vidi accanto a me il corpo di una ragazza martoriata.
Fui arrestato e condannato con prove schiaccianti.
Il sangue sulle mie mani era quello della ragazza: questa era stata violentata, lo sperma era il mio, sotto le mie unghie c’erano frammenti di pelle della vittima.
Raccontai come erano andate le cose, gridai la mia innocenza; il mio avvocato costrinse le autorità a effettuare un nuovo sopralluogo nella villa di Kostandinis.
Non trovarono nulla.
Anche se non furono trovati i cani, giudicati miei complici, mi furono attribuite anche le altre morti. Il mio avvocato invocò la totale infermità mentale, e questa fu confermata dai periti del giudice.
Dissero che ero affetto da sindrome allucinatoria paranoide scatenata da quella visita alla mostra di pitture vascolari greche.
Venni rinchiuso in un ospedale psichiatrico, sorvegliato giorno e notte da poliziotti e infermieri.
Cominciai veramente ad impazzire.
Sognavo tutte le notti quel cane infernale che si cibava del mio corpo, strappandomi lembi di carne dappertutto con estrema lentezza senza che io potessi reagire.
Ricevevo ogni tanto la visita del veterinario di Princetown, l’unica persona che in qualche modo credeva che io fossi innocente.
Al mio processo aveva testimoniato che le impronte rinvenute sul terreno appartenevano in realtà a un solo cane di una razza, a lui non nota.
Sono passati tre anni dagli avvenimenti assurdi che ho appena raccontato: i dottori ritenevano che io fossi inguaribile, poiché continuavo a raccontare la storia del cane bicefalo.
Pochi giorni fa, sono stato convocato senza una spiegazione nella sala riunioni dell’ospedale.
Quando sono entrato, accanto ai dottori ho visto il mio amico veterinario e due ispettori di polizia. Il professor Handle mi ha fatto cenno di sedermi davanti a lui.
«Ieri sera, durante una festa organizzata da Kostandinis nella sua villa, si è sviluppato un furioso incendio che ha distrutto tutto. Le autorità intervenute sul posto hanno accertato la morte del magnate greco ma anche di molte giovani donne che erano già morte prima della distruzione; violentate e poi azzannate a morte. Si è potuto così ricostruire che Kostandinis era un perverso carnefice, sacerdote di riti satanici che prevedevano il sacrificio di giovani e ragazzi. Qualche volta si divertiva a lasciare apparentemente alle vittime la possibilità di cavarsela, scappando nella brughiera. Ma venivano sempre raggiunti da questo».
Fece un gesto a due inservienti che portarono sul tavolo un pacco che il professore aprì delicatamente, mentre diceva:
«Le ossa dei crani sono le più difficili da incenerire».
DUE TESTE SONO MEGLIO DI UNA è un racconto di Roberto Masini
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