STORIE DI FAMIGLIA di Elisabetta Sinibaldi

Foto di Candelario Gomez Lopez da Pixabay

Stanotte ho sognato che correvo.

Correvo veramente molto veloce ed ero felice.

Non mi è mai capitato di sognare di correre, né di cadere nel vuoto, né di nuotare nel mare, né di camminare… E di provare emozioni nel farlo.

Stanotte sì, per la prima volta in quarant’anni, correvo.

Correvo e sentivo il mio corpo nel pieno delle energie che godeva dell’aria e del sudore, sentivo il respiro che dai polmoni fuoriusciva vigoroso, il cuore che pompava, le gambe che spingevano via il suolo senza fatica.

Mai ho sognato di correre; ho sognato di essere in labirinti bui e senza fine, ho sognato scale su scale in penombra, mi sono stati donati bauli pieni di vestiti in antichi e grandi manieri, ma di correre, mai.

E allora stamattina mi sono detta di scrivere.

Perché la pelle di foca è un po’ rattrappita, perché nella vita non sono abbastanza.

Non sono abbastanza volenterosa, non sono abbastanza potente, non sono abbastanza impegnata, non sono abbastanza spigliata né abbastanza brillante.

Corro da un anno, questo sì.

E per me è importante perché non sono una sportiva ma non sono più pigra né sedentaria.

In potenza sono tante cose ma in pratica non sono.

Potrei, ma mi blocca qualcosa, ed è sempre stato così.

E allora mi sono detta di scrivere un bel libro autobiografico, un po’ alla Italo Svevo.

Per raccontare di me, del mio passato e del mio presente.

Mentre facevo la ciclette, stamattina. Perché corro coi lupi solo nella mia testa.

Allora ho buttato giù una scaletta mentale: infanzia, adolescenza, maturità; un flusso di coscienza.

Poi però…

Molto tempo è passato prima che questa volontà in potenza si concretizzasse.

È intervenuta una pandemia mondiale, il Covid 19, che ha forzato la mia creatività e probabilmente lo stile di vita e il sentire di tanti di noi.

Alcuni continuano ad andare avanti come se nulla fosse successo. Perseguono il successo, rincorrono il profitto, vivono all’insegna dello spreco, depauperando e violentando la nostra Madre Terra.

Altri hanno recepito il messaggio, per adesso. Io l’ho interiorizzato ma forse la mia sensibilità era pronta ad accoglierlo.

Prima della pandemia ci siamo trasferiti qui, nella casa della mia infanzia, quella che i miei nonni costruirono con fatica, picconando le pietre dal bosco, lavorando in economia la domenica, mentre il prete passava con la processione e storceva il naso verso i peccatori che non santificavano le feste.

Ci siamo trasferiti nella casa dei miei nonni, quella dalla quale ho simbolicamente lasciato il nido quando mi sono sposata, quella che ha accolto tutti noi dalla nascita e che ci ha protetto nei solidi muri impastati con calce, lacrime e sudore.

Ricordo che nonna ci raccontava delle nottate insonni, quando nonno era preoccupato di non riuscire a farcela a pagare le spese per questa costruzione che aveva un grande significato: quello dell’affrancamento dal padrone, quello della crescita nella società: da mezzadri, affittuari e servi del marchese, a uomini liberi.

Era il boom economico, il periodo che ha permesso ai deboli di crescere e di ribellarsi alla società statica nella quale erano relegati da secoli.

Era il periodo nel quale fu permesso ad una giovane figlia di contadini di laurearsi, di indossare gonne corte, di portare la 500 e di prendere il treno verso la capitale.

Era un periodo duro ma brillava la speranza del futuro radioso: un futuro che prometteva libertà, felicità, prospettive di crescita e di valorizzazione.

Le prospettive che avevano i nostri genitori, nati nella povertà ma cresciuti in un mondo pieno di opportunità di cambiamento non è stato dato a noi.

Nati e cresciuti nell’abbondanza, ci ritroviamo adulti, genitori, privati di quella speranza che la generazione prima di noi aveva, appesantiti dalla consapevolezza che per i nostri figli nulla più ci sarà, di quella speranza.

Quando ci siamo trasferiti abbiamo dovuto svuotare la nostra casa per renderla affittabile agli studenti che ora la abitano, portare qui le nostre cose e scandagliare ciò che c’era.

Anni e anni di abiti accantonati per non essere buttati, libri ingialliti dei vari cicli scolastici di ognuno, quaderni polverosi della scuola elementare, giocattoli, cianfrusaglie varie e una scatola a quadretti verdi e bianchi, la scatola che conteneva saponi e profumi che papà mi regalò alla nascita.

Qui sono raccolte tutte le foto di famiglia: le guardo, leggo le scritte malferme annotate dietro ai santini, le richieste di protezione durante la guerra, le preghiere… E cerco di scrivere ciò che ho vissuto e ciò che mi è stato raccontato.

CONTINUA

STORIE DI FAMIGLIA è un romanzo di Elisabetta Sinibaldi

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