IL VICEISPETTORE SPERLING di Peter Genito

Nel corso degli anni della sua maturità, l’eventualità, sempre incombente, della morte quale conclusione della vita, gli aveva sempre messo ansia, senza mai tuttavia riuscire a condizionarlo.

Così rifletteva tutto solo nel suo ufficio il viceispettore Ottaviano Sperling della caserma “Salvo d’Acquisto” di San Crispiano.

Era un mattino soleggiato e fresco di fine aprile.

Dalle campagne spirava un leggerissimo libeccio, che sfrugugliava le foglie dei lecci e agitava i rami più alti dei pini marittimi.

Con una ischemia causata dal fumo la sua vita aveva subito una prima battuta d’arresto. Da un mese gli avevano diagnosticato anche un tumore alla prostata: nonostante che il glaucoma fosse benigno da quel giorno non sapeva più a quale santo affidarsi.

Era paralizzato dal richiamo della morte, dal sapere della ferita originaria, dalla certezza assoluta della fine imminente. Faticava ad aprirsi a una progettualità, si scopriva incapace di qualsiasi disegno di ricerca del senso, al di là di ogni perdita di senso. Non riusciva a resistere a tutte quelle innumerevoli potenze dell’animo che si erano scatenate alla notizia del tumore che sarebbe stato il compagno di viaggio nel tratto finale del suo percorso di vita.

Già per indole, tendeva a rilassare tutte le energie positive della sua coscienza.

Tutto questo ora gli pareva derivare non tanto dalla sua storia e attitudine personale, quanto dal precipitare degli eventi.

La moglie Serafina l’aveva lasciato.

Ma quel mattino aveva un sapore diverso, quel giorno pulito sembrava offrirgli inedite e irrinunciabili opportunità.

Proseguì con le sue sconsolate riflessioni, visto che il commissario Mazzotta era in ritardo all’appuntamento.

Da consumato poliziotto ormai a fine corsa, ostentava indifferenza per la imminente possibilità di un’irruzione della morte nei suoi giorni, a interromperne il corso improvvisamente.

“Che mi importa”, pensava, “se arriverò presto alla fine dei miei giorni, ho vissuto appieno la mia vita e voglio godermi ancora più intensamente questo ultimo tratto”.

Quel referto medico sembrava tuttavia rendergli attuabili svolte professionali e personali mai considerate prima. La finitudine della vita gli si delineava per contrasto ora: non solo come esigenza di non perder tempo, di fare in fretta, di decidersi, ma anche come senso inedito per i suoi giorni oziosi.

La morte non gli faceva paura, ma piuttosto era un destabilizzante tremendo. Dopo la vicenda del lago rosso, finita l’emergenza del Covid, Sperling sentiva come possibili, a sessant’anni suonati e a due mesi dal pensionamento, nuove chances di vita.

Andava facendo varie ipotesi.

La più concreta era richiedere un’aspettativa per ritirarsi dalla Polizia di Stato e buttarsi nelle investigazioni private.

Si trattava di una decisione piuttosto delicata, che conglomerava tutte le occasioni peculiari della sua lunga carriera intorno a un compito preciso, vocazione ed elezione.

Questa svolta era attuabile sia sul piano contrattuale sia su quello economico (avrebbe richiesto e ottenuto con facilità, dopo tanti anni di servizio, un’aspettativa “senza emolumenti” e con “conservazione del posto”).

Mentre il suo caffè scendeva nel centro esatto del bicchierino, centripetate tutte le forze e le energie residue della sua coscienza sulla lucida consapevolezza della morte, si convinse che quella era l’unica cosa da fare.

E l’avrebbe fatta.

Decise di parlarne dapprima informalmente a Mazzotta, il commissario. Anzi prima di dirlo al commissario, ritenne opportuno parlarne al vicequestore Pocorobba. Poi avrebbe scritto e protocollato la sua lettera di dimissioni.

La decisione prendeva corpo come una scelta matura e consapevole.

Il ritardo del commissario aumentava, era già quasi un’ora, lo aveva convocato per le ore 9:30 ed erano ormai le 10:20.

La morte, la possibilità concreta dell’ineluttabile evento, era una prova cui la sua coscienza si era trovata sottoposta affinché potesse rinvenire un senso al di là di ogni pretesa di un fondamento assoluto.

Non credeva che qualcuno, un dio, potesse avergliela mandata questa prova.

In termini filosofici, poiché una laurea in filosofia l’aveva anche presa, era una possibilità di esperienza ‘produttiva’ di esistenza riflettuta.

Quel senso l’aveva avuto da ragazzo, quando voleva diventare poliziotto, in quella tenace ostinazione nel voler indossare una divisa e salvare il mondo dal male.

Gli derivava anche da un impedimento rispetto a qualsiasi ricerca ragionevole di un senso (quantunque ancora infranto) oltre l’infranto, di una vera e propria riflessione o apertura produttiva.

Poteva anche trattarsi del sintomo di un arresto definitivo della volontà! Anziché un principio di quell’aumento di riflessività all’essere costretti infine ad affrontare il pericolo, a misurarsi con la sofferenza.

“Neppure la vita fulgida e piena di poliziotto potrà mai ricomporre l’infranto”, pensava il viceispettore Sperling, “la ferita mortale sanguina sempre, non servono vocazioni né missioni, martìri o dedizioni”.

Una volta i colleghi Ananìa e Cadeddu gli avevano chiesto perché insultava sempre la morte. Forse volevano da lui quelle illusioni a buon mercato che le religioni promettono sino alla nausea. L’illusione più grande, la vita eterna dopo la morte del corpo.

Ma Sperling non aveva mai creduto alla vita eterna, non ne sapeva niente di religione. Era nato e cresciuto in una famiglia atea, né sua madre né suo padre né sua sorella avevano mai avuto niente da dire o a che fare con la religione cattolica.

Il suo orgoglio consisteva nel non aver non mai lusingato la morte.

Nei momenti più bui della sua vita se l’era augurata a volte, ma nessuno aveva mai sentito da lui una lode della morte. Tutti sapevano che non aveva mai piegato il capo dinanzi a lei, non l’aveva mai temuta, non si era mai compromesso con lei. Gli sembrava un accadimento inutile e malvagio.

Fare il poliziotto era sempre stato il suo riscatto, il suo tentativo di ricomporre l’infranto. Aveva sempre indagato sulle morti delle persone come fossero il male primordiale dell’universo, irrisolto e incomprensibile, il nodo che da tempo immemorabile ha stretto e preso tutto e che nessuno ha mai osato recidere.

Il peggior nemico non merita la morte, gli aveva detto una volta Mazzotta, e senza il riconoscimento della morte non ci sarebbero i peggiori delitti.

Ci pensava sempre a quella cosa che gli aveva detto Mazzotta, ma non l’aveva mai capita. Nonostante i suoi studi di filosofia, e il commissario che aveva soltanto la terza media. Nessuno dovrebbe mai morire. Gli aveva detto un’altra volta sempre Mazzotta, e questa frase era più facile da capire.

E infatti l’aveva capita, ma non gli piaceva.

In quello stesso momento entrò in ufficio il commissario, scusandosi del suo ritardo.

«Maledetto il traffico di questo paese», disse.

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