LA DIPARTITA DEL PROFESSOR FERMIONI di Ninetta Pierangeli (prima parte)

Fra tante intelligenti scoperte sulla natura che la specie homo sapiens sapiens ha recentemente squadernato agli occhi della mente di alcuni fra i suoi membri più dotati di materia cerebrale, c’è quella che disegna lo spaziotempo come un campo di particelle elementari in sempiterna danza, le cui movenze rapide e fluttuanti non si fissano permanentemente ma solo quando entrano tramite avanzatissima tecnologia in relazione con l’osservante sapiens, solo allora esse si situano in un locus, cioè in un limite contenente del contenuto.

Si potrebbe dire di tali particelle che fintantoché non entrano in relazione con un fisico nucleare, la loro esistenza potrebbe essere dubbia e fintanto chimerica, ma, poiché tali eventi si sono succeduti sul pianeta Terra negli ultimi decenni, la loro esistenza, seppur manifestantesi solo nella suddetta relazione di coppia etero o omo che sia, sembra ormai accertata.

Così come pare certo che lo spazio che i sapiens sapiens e con loro tutti i viventes occupano sia non certo un vuoto contenitore che l’horror vacui non potrebbe sostenere, bensì un insieme di particelle fisiche in pulviscolare movimento spiralico costituenti ragnatele che tessono e ritessono di continuo la trama non soltanto dello spazio, ma anche del parcheo tempo, che già da più di un secolo si sa che non possiede esistenza propria.

Ambientato dunque il racconto nell’alveo scientifico di cui gli studi leggiadri l’aspirante Nobel, arcinoto professor Luigi Fermioni, talor lasciava per accompagnarsi a Lucia, cuore di nonno e amore della sua vita, sono qui a illustrare ai miei venticinque lettori lo strano caso della sua dipartita.

Il venerdì 14 ottobre 2022 nell’aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma, il Magnifico Rettore nonché Chiarissimo Professore Avvocato Daniele Testaduovo, nerovestito e con fascia viola appuntata sull’omero, contornato da Chiarissimi docenti nerovestiti e di fronte a platea non in religioso silenzio, ma poiché il luogo non era religioso in funebre chiacchiericcio, davanti alla cassa che tutti sapevano contenesse la salma del Professor Luigi Fermioni, pronunciò un discorso di encomio enunciando meriti preclari e alludendo a quello che gli astanti mormoravano fra loro, ossia come il preclaro docente, pur proveniente da italica stirpe, popolo di santi, poeti e navigatori, e avendo dunque egli diritto a ricevere il Premio Nobel per la Fisica, era stato con sgambetto metaforicamente abbattuto mentre si accingeva a salire il podio di Stoccolma da un collega d’oltreoceano, sconosciutissimo ai lettori di Focus, Science, Nature, ma non al Fermioni stesso: il professor George Armstrong Custer, epico vincitore con impunturata sul bavero della giacca coccarda a stelle e strisce.

La cerimonia funebre in pompa magna come non poteva essere altrimenti poiché Magna era l’Aula in cui si svolse, fu breve e significativa.

La cassa in elegante ciliegio, priva della consueta croce in ossequio al perseverante agnosticismo dell’illustre suo ospite, fu trasportata adorna di crisantemiche corone rosse da becchini in completo armani fino al carro funebre, così chiamato dalla gente nonostante somigli più a una limousine ornata di vetrate antiproiettile che a un carro a cui attaccare l’asino.

Dietro al suddetto carro, partì l’auto della figlia signora Nadia Fermioni, trasportante anche sua sorella la signorina Eleonora Fermioni, nomata signorina sebbene la legge prescriva di chiamare signora ogni donna ultradiociottenne maritata o zitella che sia, e la dolce e buona Lucia, figlia di Nadia e nipotina del cuore del professore.

Il funebre corteo si diresse al vicino Cimitero Campo Verano, dove, vista la chiarezza del professore, il Municipio S.P.Q.R. aveva eccezionalmente concesso uno spazio sufficientemente ampio per sepoltura individuale sotto autentica romana terra sufficiente a essere coperto con lapide marmorea indicante nome cognome e due date: 14 ottobre 1955 e 14 ottobre 2022.

Svolto il procedimento cimiteriale secondo quanto previsto dalle norme municipali, pagata la relativa tassa e quietanza, la signora Nadia Fermioni, tinta bionda e stivaletto alto, si accinse a riempire il tempo del pomeriggio successivo, uno di quei sabati di ottobre particolarmente uggiosi e malinconici, come più si addiceva al tempo meteorologico, cioè compiendo il compito filiale di sgombrare il paterno appartamento in vista di un fruttuoso utilizzo affittasi o vendesi.

Eleonora diceva ma che facciamo? Vendiamo l’appartamento di papà, contenente i ricordi della nostra infelice infanzia? Come potremmo poi ancora rammentarcene? Ma Nadia, donna pratica e per di più madre, opinò che era necessario vendere e intascare ambedue relativa quota di eredità, la propria essendo utile da investire in celebre Università inglese dove Lucia si sarebbe prossimamente, mancavano solo poco più di dieci anni, recata per ricevere Laurea Magna cum Laude consona a nipote preclaro professore.

Alla materna considerazione, Elenora zia molto presente, non ebbe nulla da obiettare e accettò di buona voglia il patto vendesi così poi dividiamo l’eredità.

Come già ho fatto notare, i sabati pomeriggio piovosi servono per mettere in ordine le cose dei congiunti trapassati, soffermandosi aria mesta a contemplare disordini ormai insensati. Nadia si era recata dunque nell’appartamento del defunto Luigi, in cui l’aria maleodorava nel caratteristico modo di maleodorare che hanno gli appartamenti dei vecchi.

Quando sarebbe diventata vecchia, lei non avrebbe mai consentito un simile olfattivo accadimento. Avrebbe provveduto con oli essenziali diffusi elettricamente da appositi bruciatori. Ormai si vendevano anche dai cinesi.

Tappandosi il naso, attraversò il corridoio, entrò nello studio precipitandosi ad aprire la finestra onde evitare di profondere sul pavimento rigurgiti del pasto meridiano, con il risultato che la pioggia battente si riversò immantinente sulla troneggiante scrivania 200 cm per 120.

L’acqua si avvicinò pericolosamente al portatile ivi appoggiato che fulmineamente Nadia prelevò e appoggiò sulla sedia al riparo dall’umidità.

Ciò che ne fu, invece, inevitabilmente colpita fu la polverosa pila di carte che si trovava anch’essa sulla scrivania, come da rigida prescrizione delle norme che disciplinano il modo di accatastarsi degli ingombri intellettuali in ogni studio di pensatore, scienziato ricercatore giornalista cultore della materia o disoccupato che sia.

Trattandosi di materiale riciclabile sebbene umidiccio, Nadia lo infilò nella relativa busta di plastica con scritto “CARTA” che aveva avvedutamente portato per adempiere a compito pulizia.

Nello studio era presente ovviamente e come non poteva esserlo? l’immensa libreria che Nadia cellularmente fotografò, inviando al momento su Whatsapp al numero acquisto libri usati della bancarella sul Tevere la foto con l’incalcolabile patrimonio da cui sperava ricavare almeno euro 20 dopo che l’acquirente si fosse recato in loco per l’acquisto.

Si accinse poi a ispezionare sempre tappandosi il naso l’adiacente camera da letto, dove materasso molliccio e incavato era pronto per discarica, mentre gli abiti fuori moda contenuti nell’armadio, furono inseriti in due buste di plastica grandi con scritto “ABITI USATI”.

Non restava che infilare il portatile nella borsa apposita che il defunto Luigi aveva lasciato per terra accanto alla scrivania 200 x 120; lo strumento sarebbe stato utile per i compiti di Lucia.

No, che scema, mancava l’ultima cosa: telefonò al rigattiere per lo sgombro finale, prima che il sabato pomeriggio piovoso terminasse e scadesse il tempo consuetudinalmente dedicato a sgombro appartamenti congiunti trapassati.

Il cellulare squillò a vuoto per 20 volte, ma lei non si arrese, cercò su Internet altro numero rigattiere che quindicesimo squillo rispose ma signora è sabato. Sì, ma i sabati pomeriggi piovosi non durano per sempre e lei doveva sbrigarsi a tornare a casa dalla piccola Lucia. «Naturalmente, verrò signora lunedì.»

«No, le ho detto, ho fretta devo sgombrare oggi, facciamo subito.»

Tramite incentivo sostanzioso che avrebbe dedotto dalla quota di eredità di Eleonora l’accordo fu terminato con materializzazione di rigattiere italiano e aiutante albanese che svuotarono il piccolo appartamento ben prima delle 20.00, in breve, brevissimo tempo.

Era ciò che Nadia voleva, poiché non possedeva la dote paterna di immaginare un mondo senza la variabile tempo. Variabile implacabile, procedeva a ritmi che diventavano ogni giorno più serrati.

Aveva già da tempo notato che la velocità del suo scorrere aumentava. Non certo come quella dell’auto che aveva ripreso per tornare a casa e che zigzagava tra buche e rigagnoli rapidi.

Si trattava di due moti inversamente proporzionali. Una cosa che aveva studiato alle medie. La velocità dell’acqua del rigagnolo aumentava, mentre quella della macchina diminuiva.

Tra un rosso e uno stop, un motorino riverso in un effimero laghetto e la radio che diceva allerta meteo, arrivò a premere il telecomando del garage.

Il garage non si aprì. Pigiò con più forza il pulsante, attese un momento infinito, niente. Riprovò ancora, non attese e scese incavolata nera a inserire la chiave apposita nella serratura.

Cric, girò. Cric, girò. Nadia capelli fradici parcheggiò, si ascensorò e si proiettò fulminea nella stanza di Lucia con il portatile sotto il braccio.

«Niña! Niña! Guarda la mamma che ti ha portato!»

La bambina, riccioli scomposti e occhi mosci, sollevò il viso dal videogame e guardò la mamma.

«Niña, amore, che hai? È per il nonno vero?»

Le diede coccole e baci materni, la prese in braccio e la strinse, mentre l’acqua dolce proveniente dai capelli bagnati dall’autunnale pioggia scendeva giù mischiandosi a quella salata veniente dagli occhi cerulei della figlia.

Poi la ripose per terra, le carezzò la faccia e abbozzò un sorriso annunciando: «Amore, guarda il nonno cosa ti ha lasciato!»

Il portatile era ora lì, posato per terra, vicino al piccolo device per i videogiochi.

Lucia si avvicinò. Era nero. Tutti i pc erano neri. Lo toccò, lo sollevò. Non era pesante, non era piccolo. Non era piccolo come il tablet che aveva la sua amica Lila.

Lila e Manuel erano gli unici ad avere il tablet a scuola. Non avevano libri loro, né quaderni. Neanche l’astuccio. Avevano solo il tablet.

Tutti pensavano che Lila e Manuel fossero ricchi. Ma se non avevano niente, solo il tablet, come potevano essere ricchi? Lei, invece, Lucia, aveva tante cose. E i libri usati, sottolineati, con gli esercizi già fatti.

Quando la prof. di inglese occhialuta e lenta passava tra i banchi a controllarli, sentences perfette nereggiavano sbiaditamente sui fogli.

Lucia era contenta che mamma le aveva comprato i libri di seconda mano. Aveva anche un diario, rosa ma non troppo da femmina, e l’astuccio con tanti pennarelli. Era orgogliosa del suo corredo scolastico e non l’avrebbe cambiato con un piccolo solitario tablet nero.

Ora Lucia aveva un portatile, non era un dispositivo abbastanza piccolo per portarlo a scuola.

A che poteva servirle?

Lo sapeva. Nonno, nell’ultimo anno non andava più all’Università. Aveva scaricato un software e faceva i video.

Poi mandava il video con la lezi0ne ai suoi alunni.

Loro gli mandavano i messaggi con le domande e lui rispondeva nella chat della piattaforma dell’Università. Nonno le faceva vedere i video qualche volta, e anche la chat. Ora anche lei poteva fare i video.

Sarebbe stato divertente.

Alessio si svegliò alle 9.00.

Che palle! Il prof. di fisica nucleare era morto e ora c’era il ricercatore che faceva le lezioni fisiche, in presenza.

Lui si era dimenticato che quello era il primo giorno fisico e ormai non faceva in tempo ad arrivare in facoltà. Autobus, treno, piedi. Un’ora e mezza. Più la doccia. Più il caffè. Sarebbe arrivato a mezzogiorno. La lezione fisica era alle 9.30. Inutile alzarsi. Si ributtò sul letto.

Woooooom…. woooooom….

«Cazzo mamma, a che ora accendi l’aspirapolvere?»

«Vado a lavorare io, mica dormo la mattina.»

Alessio barba sfatta si alzò, andò in cucina, c’era del caffè nella moka.

«Ale, che fai oggi? Hai lezione on line?»

«Sì», disse lui che non voleva rogne.

Per rendere più credibile la situazione, così impigiamato com’era, accese il laptop della sua scrivania.

Andò con noncuranza sulla classroom di fisica e trovò una nuova lezione del prof. Fermioni.

Ma non era morto costui?

Forse era una vecchia lezione messa lì da qualcun altro.

Controlliamo.

Aprì il video.

Schermata dei titoli: Il tempo nella fisica quantistica. Data impressa sotto: 18 ottobre 2022. Dopo la schermata del titolo, apparizione del prof. Fermioni seduto alla cattedra. Dietro la cattedra, lavagna di ardesia stile ‘800.

Audio: Buongiorno a tutti, oggi parliamo del tempo. Tutti voi, conoscete il diagramma cartesiano, e lì il prof. si alza dalla cattedra e comincia a disegnare alla lavagna le coordinate del mondo newtoniane.

Alessio, sigaretta pendente tra le labbra, Alessio, sigaretta fra le dita, Alessio sigaretta fumante nel posacenere, si dispose all’ascolto.

Strano: la lezione era on line anche oggi che c’era la lezione fisica? Il prof. doveva aver registrato anche questa prima di morire.

Ottimo.

Alla richiesta del prof. di interagire in chat con domande e questioni, Alessio distrattamente perplesso cominciò a chattare su Whatsapp nel gruppo dei ragazzi del corso.

Daniele non aveva capito la lezione, cercava aiuto pomeridiano. Marco era indeciso se fare o no una domanda al prof. Nina aveva le sue cose e non gli andava. Simone scrisse: «Ma non era morto?»

Nico si decise e mise su whatsapp:

«Provo io» e contemporaneamente nella chat della lezione:

«Prof., ma lei ora dove sta?»

La cenere brillava ancora china sul mozzicone senza voler cedere alla forza di gravità che l’avrebbe fatta cadere nella rotonda vitrea cavità del suo locus naturalis, quando il prof. rispose:

«Qui, no? Lo sapete, ragazzi che sto a casa mia e non all’Università. La cattedra e la lavagna sono virtuali. Ma cosa cambia?»

In quel momento, Alessio notò, a lato del video la data e l’ora della registrazione, 18 ottobre 2022 – 10.25, subito sotto c’erano quelle del suo pc: 17 ottobre 2022 – 10.25. Erano diverse. Il giorno del video era domani. L’ora invece era la stessa di oggi.

Un guizzo di soprassalto lo scosse dal torpore tabaceo e scrisse in chat:

«Prof., ma dove sta lei che giorno è?»

«C’è scritto sul video che giorno è, ma che domande sono? Non lo sapete voi, che giorno è?»

Poi riprese:

«Dunque, dicevo che, secondo Newton, siamo immersi nelle due coordinate spazio-temporali, ma, dopo la formulazione della teoria della relatività generale, sappiamo che in realtà c’è un unico spaziotempo. Domande?»

La chat della classroom tacque, tacque la chat di Wathsapp, per quanto nessuna delle due in genere parlasse, ma sempre utilizzassero entrambe per lo più la forma scritta, il messaggio vocale essendo riservato ad ambiti più familiari.

Alessio aveva preso molti appunti. Alessia era al lavoro. L’avrebbe raggiunta e avrebbero preso un pezzo di pizza. La pizzeria dove lavorava Alessia era aperta anche a pranzo. E in pizzeria non mancava mai un pezzo di pizza.

Devo qui doverosamente far notare che allitterazioni, consonanze, rime e ripetizioni appesantiscono la scrittura di questo racconto, come di tutti i precedenti pubblicati e successivi pubblicabili in questa nazione, ma sono parsi in questo capitolo espressivi per comunicare al lettore il senso e l’importanza che l’alimento simbolo dell’italica cucina nel mondo rivestiva nella vita dei due giovani traducendosi nel loro personale simbolo di corrispondenza di amorosi sensi.

La maestra era stata gentile e aveva portato a Lucia un sacchetto con gli ovetti di cioccolata.

«Maestra, non è Pasqua!» aveva obiettato lei, ma quella rispose etimologicamente: «Pasqua vuol dire passaggio e siccome tuo nonno ha compiuto il passaggio in una vita migliore, io ho pensato di portarti degli ovetti».

«Grazie maestra, ti voglio bene.»

Lucia si sedette nel banco e ci appoggiò sopra il sacchetto. Non aveva capito dove era passato il nonno. Aveva visto una cassa con sopra tanti fiori e la mamma le aveva detto che il nonno era lì dentro. Ma la maestra aveva detto che il nonno era passato in una vita migliore. Che ne sapeva la maestra? Lei non c’era il giorno della cassa. La maestra sa tante cose. Se dice una cosa lei, sicuro che è vera.

La maestra disse che oggi dovevano studiare la storia degli Ebrei, che passarono dall’Egitto in Palestina e passarono il Mar Rosso camminandoci in mezzo.

Cavolo! Il mare si aprì e formò due pareti di acqua. Gli ebrei, guidati da Mosè, passarono sul corridoio asciutto che si era formato. Poi le pareti d’acqua crollarono e gli egiziani che inseguivano gli ebrei furono inghiottiti dalle acque.

Un archeologo importante aveva trovato in fondo al mare tante ruote. Sono proprio come quelle dei carri dei comandanti dell’esercito egiziano. Sulla Lim, comparve un disegno con le pareti di acqua e gli ebrei che camminavano in mezzo.

Poi la maestra concluse la lezione:

«Gli ebrei passarono il mare e giunsero a una vita migliore nella Terra promessa. La celebrazione di questo passaggio si chiama Pasqua. È una festa degli ebrei, ma anche dei cristiani. E i cristiani la festeggiano con le uova e danno ai bambini le uova di cioccolato».

Lucia si era sforzata di capire questa storia, il disegno del mare aperto in due che stava sulla Lim era una ficata, la cioccolata le piaceva, ma che c’entrava col nonno? Una similitudine doveva essere, come nelle poesie. Gli ebrei avevano passato il mare e nonno era passato… dove era passato?

Driin! Driin! Ricreazione.

«Me lo dai un ovetto?» si era avvicinata Lila.

Ricca com’è, vuole gli ovetti da lei.

«Prendi, però uno solo.»

Tutti si erano avvicinati al banco di Lucia per avere un ovetto. Lucia aveva paura che non restasse neanche un ovetto per lei, ma tutti ne presero uno e quello per lei rimase.

Capì tutto e fece un grosso sorriso alla maestra. Lei che sa tutto e prevede tutto, aveva messo nel sacchetto un ovetto per uno. Era proprio brava la sua maestra.

Lucia era tornata a scuola dopo tre giorni di assenza.

La morte dei nonni è difficile da affrontare per questi piccoli, cresciuti più con loro che con i genitori, pensava la maestra con la più ovvia delle sociologiche contemporanee osservazioni.

 Il nonno di Lucia era un grande professore universitario, quasi prendeva il Nobel se non c’era quello americano che aveva fatto anche lui la stessa scoperta.

Ma che scoperta? Non se lo ricordava. Mai capito niente di fisica. Per fortuna alle elementari non si insegna. Ci mancava pure quella. Già c’erano gli insiemi, la narratologia, la cittadinanza, le competenze digitali, le ability skills. Cose che prima non esistevano. E come erano nate? Le skills chi le aveva partorite? Da dove venivano se non c’erano prima?

Ecco, se il professore fosse ancora vivo, lei lo avrebbe fermato all’uscita della scuola e glielo avrebbe chiesto a lui.

Quando Lucia era in prima elementare, veniva spesso a prenderla a scuola. Era un uomo gentile e educato, alto come lei, capello bianco, viso abbronzato, per giunta vedovo.

Poi quando Lucia andò in seconda, lui si ammalò e lei non lo vide più. Mantenne nel candido puro cuore di maestra la speranza di nuovi possibili incontri finché seppe della fatale dipartita.

Nonostante la sua inevitabile tristezza, quel 18 ottobre era riuscita ad appassionare i bambini. Le storie antiche della Bibbia piacciono sempre.

E poi questa cosa importante: la Pasqua è un passaggio. E il professore aveva fatto questo passaggio. Ora era in una vita migliore. Migliore di questa. Nella vita migliore non ci sono malattie, tutti ti vogliono bene e, soprattutto non si muore. Non si muore perché si è già morti e quindi si vive per sempre.

Oddio no! Un ossimoro. Gli ossimori per lei erano sempre stati incomprensibili. Ma i morti vivono una vita migliore è un ossimoro. Una vita da morti. Da zombie? No, da zombie no, gli zombie sono infelici.

Nella vita migliore tutti sono felici. Quando pensava a mamma, pensava a questo: era nella vita migliore ed era felice. Era un pensiero rassicurante.

La sera avrebbe voluto telefonarle e raccontarle tutto di tutti, di Marco, di Stella, di Nino e pure di Lucia.

Allora prendeva il telefono in mano, lo guardava con tutta la tenerezza che aveva e, mentre lo guardava, tutte le cose che voleva dire andavano via, piano piano, sussurrate senza pronunciarle, leggere, agili, lente si posavano di là, dove non c’è fretta a riceverle e c’è tutto il tempo per ascoltarle.

Alessia, puliva il bancone con lo spray lucidante, riassettando continuamente la bianca cuffietta da cui ogni tanto un nero capello si permetteva svagatamente di scivolare giù, proprio sulla lucidatura appena ripassata.

La pizzeria stava finalmente per chiudere e presto sarebbe venuto a prenderla Alessio. Alessio era fuori di testa.

Continuava a raccontare questa stronzata del video del professore con la data di domani. Ma si sarà sbagliato, no?

Se ha registrato il video prima di morire, magari ha fatto una serie, l’assistente l’ha messa sul canale, ma i giorni li avrà messi un po’ a cavolo.

Per forza, no?

I giorni mica li poteva mettere il prof. Che ne sapeva lui di quali sarebbero stati i giorni dopo la sua morte? Gliel’aveva detto ad Alessio.

Lui le aveva risposto:

«Ma tu solo dietro al bancone potevi stare. Ma sei scema? I giorni sono sempre uguali, quindi lui, il prof., lo sapeva prima di morire che dopo il 14 ottobre viene il 15 e poi il 16 e il 17, no? Succede tutti gli anni».

Quando diceva questa cosa che lei poteva stare solo dietro al bancone la faceva incazzare. Perché? Dove doveva stare? A lei piaceva questo lavoro e ci pagava l’affitto e le bollette. Casa divisa con Leska, la rumena.

Lui invece ancora stava a casa con la madre e gli raccontava ‘sta stronzata che stava a fare l’Università.

«Ma quando andiamo a vivere insieme?» Anche questo gli aveva detto ieri.

«Ma non ti rendi conto, Alessia, che, quando mi laureo, trovo un lavoro da tremila euro al mese? E se non sto da mamma, come faccio a finire l’Università?»

Tremila euro al mese sarebbero andati bene. Avrebbero potuto vivere felici. Avrebbe pensato lei alla casa e avrebbe preso il part time al lavoro. E avrebbero avuto anche un bambino. Ci pensava sempre la sera che voleva avere un bambino. Sarà un futuro bellissimo. Antonella, che prima serviva ai tavoli, era andata in maternità. Tra pochi giorni sarebbe arrivato il bambino. Nel futuro anche lei avrebbe avuto un bambino. Antonella era già nel futuro.

La macchina correva, davanti ai rossi semafori Nadia guardava a destra e a sinistra e poi passava.

Lucia usciva prima perché mancava la maestra del pomeriggio.

Quando papà stava bene, in questi casi andava lui.

Nadia gli diceva:

«Ma con tutto quello che hai da fare in Università, come fai?»

Ma lui mi rispondeva:

«Non ti preoccupare, ci sarà tempo».

Invece se n’è andato e il tempo non ci sarà più. Se fosse stato meno impegnato con la piccola, forse lo avrebbe vinto lui il Nobel, invece di quell’americano che ha scopiazzato tutti i suoi studi. Lui era contento di stare con Lucia e non si preoccupava tanto di questo professore americano. Se avesse vinto lui il Nobel, loro sarebbero ricche. Lui ai soldi non ci pensava mai, era dentro la sua bolla e non pensava a null’altro. Non era un uomo pratico.

Lei era praticissima. Organizzatissima. Planning quotidiano, planning settimanale, planning mensile, planning annuale. Ore, giorni, mesi, anni scanditi dall’orologio della sua agenda. L’aveva caricato su Alexia, segretaria virtuale. Le chiedeva:

«Alexia che devo fare ora?»

E Alexia rispondeva:

«Sono le 11.00 e devi fare il breefing con l’architetto».

Dopo il breefing, chiedeva:

«Alexia che devo fare ora?»

E Alexia rispondeva:

«Ora hai il pranzo con il dottor Menichetti».

Quel giorno, dopo il pranzo, Alexia aveva detto:

«Alle 14.00 devi prendere Lucia a scuola».

Cazzo però. Alexia non interrogava mai prima le app del traffico. Doveva dirglielo prima, no? Mo come faceva ad arrivare?

Col bluetooth chiamò Stefania:

«Stefi, se non faccio in tempo, prendi tu Lucy e mi aspetti al bar all’angolo? Intanto prendi il gelato alle bambine, offro io».

Insomma, Alexia era come le agende di carta. Ti ricordano le cose che devi fare a una certa ora, ma non ti calcolano il tempo che ci vuole. A che serviva una segretaria virtuale se neanche sapeva calcolare, stante le condizioni meteo, i lavori in corso e il traffico abituale e speciale quanto tempo ci voleva per andare da Parco dei Medici alla scuola Buon Pastore? Inutile, veramente inutile.

Pare che con il Metaverso la situazione degli assistenti virtuali migliorerà.

Macchina in seconda fila davanti al bar:

«Stefy! Lucy! La mamma è arrivata!»

Nadia si catapultò dal sedile dell’auto a quello del bar all’aperto, a Roma a ottobre se non piove fa caldo, i tavolini non hanno sedie libere e non c’è parcheggio se non in divieto di sosta.

 «Avete mangiato il gelato?»

Lucy e Dany, la sua amichetta, annuirono con soddisfazione.

Stefania messa in piega profumata assicurò che non voleva affatto che lei offrisse il gelato, non se ne parlava nemmeno, aveva già pagato.

«Stefy, come farei senza di te! Mi salvi sempre all’ultimo momento!»

Stefania, messa in piega profumata, era sempre disponibile. Non lavorava lei, faceva la casalinga. Aveva un amministratore a cui aveva delegato la gestione di tutte le sue proprietà in Sudafrica: terre, miniere, case, una compagnia assicurativa.

Non dubitava dell’onestà dell’amministratore, perché le rendite arrivavano puntuali sul conto alle isole Cayman. Mese per mese il conto in banca cresceva e il tempo era sempre dalla sua parte.

Lei intanto faceva la vera casalinga. La mattina accompagnava Daniela a scuola. Poi tornava a casa e faceva le pulizie. Poi andava al centro sportivo. Il lunedì superabdominal, il martedì total body, il mercoledì partita a tennis con Aldo compagno di gioco, il giovedì idrobike, il venerdì multisport training.

A casa, lunch veloce e riposino. Poi prendeva Daniela a scuola, la portava al bar a fare la merenda e dopo la accompagnava a compiere diligentemente le sue attività: lunedì inglese, martedì pianoforte, mercoledì ginnastica artistica, giovedì catechismo, venerdì ginnastica artistica di nuovo.

Quando tornavano dalle attività, lei faceva la spesa e poi preparava la cena.

Luca, il marito era felice. Aveva sposato una donna perfetta: casalinga, moglie e madre. Ricca anche, ma lui non aveva bisogno. Anche lui aveva terre e imprese, in Italia, che era peggio.

Conto però pure lui alle Cayman, meglio.

Dopo il gelato, salendo sul seggiolino cinturassicurato dell’auto materna, Lucia riferì con precisione la lezione impartitagli dalla comprensiva maestra dichiarando con tono trionfante:

«Mamma nonno è passato in una vita migliore».

«Certo, niña, lo sappiamo tutti.»

«Nonno mi aveva detto tutto della sua scoperta ma non mi aveva detto che lo aveva detto anche alla maestra.»

«Che ti aveva detto?» distrattamente aveva chiesto la madre al volante.

«Che andava da un’altra parte, ma ci sarebbe stato sempre».

«Amore, certo, il nonno sarà sempre nel tuo cuore» disse Nadia mano sulla spalla della bimba e bacetto al semaforo.

«Mamma, nonno non ha detto che andava nel mio cuore. Ha detto che andava da un’altra parte.»

Sapeva la bimba che la pazienza materna era notoriamente scarsa, eppure quella volta Nadia fece uno sforzo per approfondire la questione e chiese scivolando sul rettilineo:

«E dove andava nonno?»

«Ha detto che andava dall’altra parte del tempo.»

Nadia tacque con adulta accondiscendenza senza ovviamente far entrare né registrare nell’emisfero sinistro del cervello tale assurda affermazione e prese a tormentare il telecomando del garage che porco giuda forse si era rotto sul serio.

Anche stavolta scese incavolata nera a inserire la chiave apposita nella serratura.

Che cazzo serviva un cancello elettronico se il telecomando non funzionava mai?

Non si accese nel già citato emisfero deputato la banale lampadina eureka che potesse farle sospettare il naturale decadimento delle batterie al litio, solito causare imprecazioni contro innocenti aggeggi elettronici colpevoli solamente di esseri afflitti dall’incuria dei proprietari, talmente insensibili nei loro confronti da scagliarli violentemente sul duro asfalto presi dalla lampante grave difficoltà a gestire la propria rabbia.

Triste destino a cui fatalmente non sfuggì il succitato telecomando, mentre Lucia, toltosi senza permesso la cintura di sicurezza, aprì lo sportello e si precipitò a raccoglierne con sollecitudine i pezzi ormai scomposti.

Ascensore non funzionante con pulsante color rosso fisso, madre e figlia salirono le scale a piedi fino al terzo piano.

Tale attività fisica fu sufficiente a calmare i nervi della genitrice che entrata finalmente in casa, ordinò Alexa accendi la luce e l’obbedienza solerte con cui la sua assistente compì l’atto illuminante la rassicurò che era giunta nel luogo dove non si sarebbero verificati altri deplorevoli eventi avversi.

Lucia dopo la pipì andò a rifugiarsi nella sua cameretta ikeata e accese il pc appena ereditato.

Comparve un avviso di google calendar che la informava che prima di cena, ore 19.45 c’era una riunione su Meet con il signor Luigi Fermioni a cui lei, signorina Lucia Trovatelli era invitata.

Che palle questa cosa delle lezioni fisiche.

Il 19 ottobre, Alessio andò fisicamente in Università.

Si buttò al terzo banco dell’aula.

«Bella Ale’!» una batosta che intenzionalmente voleva essere una accogliente e amichevole pacca piombò sulla precoce iniziale chierica del suo cranio.

«Lassame sta’. Ciò sonno.»

«Mo mentre parla il prof. dormi pure, dopo però andiamo tutti al Coffee Break. Ci sta anche la ragazza di Claudio con le sue amiche.»

La prospettiva di vedere codeste amiche non era male, visto che le aule di fisica erano per lo più frequentate da homines sapiens di genere maschile, mentre lui era pervicacemente appassionato di frequentazioni eterosessuali.

Questa passione era insorta in lui durante gli anni in cui frequentava la scuola media e purtroppo l’adolescenza non aveva cambiato i suoi gusti, che ora sembravano in tutto sorprendentemente naturali.

Quindi sì, Alessio sarebbe andato al Coffee break, baretto mediocre economicamente sostenibile. Locale per studenti universitari.

Quando sarebbe finita ‘st’Università? Alessia con quella storia della sua amica Antonella che tra qualche giorno gli arrivava il pupo stava a comincia’ un po’ a rompere.

Non era stata una buona idea mettersi con una che lavora, che cià casa sua… La casa, quando non c’era Leska coinquilina rumena, tornava comoda, ma mo’ lei si era messa a fantasticare… Che si credeva? Che lui sarebbe andato a vivere da lei? A fare i poveracci, pagare affitto, bollette e magari pure avere un pupo? No, lui si sarebbe laureato, avrebbe trovato un lavoro importante e poi si sarebbe vista la vicenda. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Tre anni forse. Cinque. Cinque anni. Non erano molti, Alessia avrebbe potuto aspettare.

La lezione fu di una noia mortale.

Sempre su questa cosa della gravità quantistica. La forza di gravità è un campo e il campo è formato da quanti. I quanti sono materia. Materia invisibile, ma reale. Tutto è materia dice il prof.

Perché non ce n’eravamo accorti che tutto è materia? E cosa dovrebbe essere? Per questo studiamo fisica, perché il mondo è fisico e purtroppo ormai anche le lezioni sono fisiche. Era post covid, le lezioni virtuali sono poche. Vabbe’, almeno quando tocca andare fisici all’Università, dopo si può andare al Coffee a toccare femminee epidermidi.

Finita l’interminabile lectio, il piccolo branco di sapiens genere maschile si spostò nel modo in cui usano i bipedi, cioè pedibus calcantibus, verso il mitico bar.

Tavolo esterno con panca ove sedenti erano un branco di sapiens genere femminile, tutte tisananti.

«Aho, rega’, che fate?» sbiascicò Claudio Er Nasca, individuo con evidente protuberanza sul viso.

«Bella, rega’, stamo a studia’.»

Le ragazze tisananti stavano in effetti studiando, come dimostravano volumoni pagati centeuro aperti in fila sul lungo tavolo, intervallati da bicchieri e posaceneri.

I sapiens maschi si sedettero anche loro e Alessio notò che la donna di Claudio aveva portato una amica nuova.

«Nasca, chi è quella?»

«Una sfigata.»

«A me sembra carina, piccolina, ma carina.»

«Ti dico che è sfigata.»

«A te piacciono solo le boccione. Mi dici perché è sfigata?»

«Allora» riprese la bocca sotto la nasca «uno: gli so’ morti il padre e la madre in un incidente e cià pure due fratelli; due: sta a fare una scuola di specializzazione in psicologia. Peggio di così».

«Embè?»

«Embè, orfana è da sfigata e psicologia pure è da sfigata, no?»

Alessio si avvicinò alla moretta piccolina sfigata nasino all’insù e facilmente scoprì che aveva un nome: Laura; e un cellulare: 367 0869452.

Le cose importanti furono dette in breve e la sera, sì, (tanto Alessia lavorava ma questo lui non lo disse) la sera lui a cinema a vedere un film d’autore, non supereroi, lui ci sarebbe andato volentieri. Jean-Pierre Jeunet, Il favoloso mondo di Amélie andava bene?  E come no?

Stabilito questo, Alessio aprì anche lui il suo volumone e si accinse all’approfondimento della spettroscopia dei neutrini solari così come recentemente studiata nel superlaboratorio del Gran Sasso. Ancora non c’era andato, era il luogo cult di tutti gli studenti di fisica, dove le particelle elementari si mostrano senza veli nella loro danza continua, ballerine che esibiscono il ventre davanti a sceicchi dottorandi ingrifati.

Nel negozio dei cioccolatini dove l’aveva portata Stefania a fare la merenda con Dany – mamma anche oggi ritardante all’uscita di scuola – Lucia vide un cioccolatino a forma di cuore.

Timorosamente, quando Stefy le chiese che voleva, lo indicò col dito e la commessa lo prese dal banco frigo e glielo porse in un tovagliolino.

Dany, invece si buttò su un’enorme sfera al cocco.

La situazione sembrava soddisfacente per entrambe, quando Lucia addentando il cuoricino di cioccolato affermò:

«Mamma ha detto che nonno sarà sempre nel mio cuore».

«Certo che sarà sempre nel tuo cuore». Si sentì doverosamente di osservare Stefania con genitoriale comprensione.

«Sì, però poi ha detto che stava nella cassa.»

«Sì, certo, stava nelle cassa.».

«Ma come fa a stare nella cassa e nel mio cuore? Non può stare da due parti insieme! E poi…»

«E poi?»

«E poi mamma non lo sapeva, nonno mi ha detto che andava dall’altra parte di un altro posto».

«Di quale posto?»

«Mo non mi ricordo, del tempo mi sembra. Così sono tre posti e nonno è andato in tre posti.»

A questa osservazione, una e trina, Stefania messa in piega profumata non aggiunse niente, però la annotò nella mente come importante conversazione da riferire alla rispettiva madre della bimba, non appena il fiume di macchine proveniente da Parco dei Medici avrebbe con la sua corrente trasportato Nadia alla merenderia.

Quando non trafelata ma trafelatissima, quella si materializzò, Stefania la prese da una parte e le riferì tutto. Poi, dimostrando come sempre la sua bontà e generosità, unite a competenza e riflessione, aggiunse:

«Domenica pensavo di portare Daniela in campagna a fare una gita. Verrà anche Antonio, posso portare con noi Lucia? Si distrarrà un po’, la morte del nonno deve essere stato un trauma per lei».

«Già» disse Nadia «sarebbe una buona idea. Il padre tanto non si è fatto sentire. Toccherebbe a lui questo week end, ma, come al solito, è scomparso. Se lei viene con voi, io posso approfittare per finire di sistemare le cose di papà. Sicuro che non è un problema per voi?»

«Ma certo cara, figurati! Così le bambine stanno insieme» concluse Stefania messa in piega profumata gloriosa della sua buona azione.

Ogni buona azione che faceva aumentava sensibilmente la stima e la fiducia nel suo ego, che ora si ergeva mostrando la sua sollecitudine per il prossimo, innalzandosi verso la meta della santità che ben presto – molto prima dell’infausto giorno – avrebbe raggiunta.

Era cristiana lei, faceva il bene lei, non come il suo vicino di casa di professione volgare macellaio e per hobby noto cravattaro generosamente disponibile accensione prestiti e mutui agli abitanti del quartiere.

Ella riponeva la sua grande fede non soltanto verso la celeste divinità ma anche verso l’amministratore sudafricano che riusciva a garantirle sempre l’innalzarsi mensile dell’estratto conto giungente talvolta anche a miracolose consistenti impennate.

La sua immensa fede granularmente formata da quantità innumerevoli di granelli di senape non era necessario comprendesse come l’amministratore compiva i suoi benefici miracoli e questo dubbio pur di elementare ideazione, non si affacciava mai all’interno della sua scatola cerebrale e quindi non si affacciò neanche in quel sublime momento in cui si impegnò misericordevolmente a portare in gita con la sua esemplare famiglia la povera Lucia, bambina sofferente e traumatizzata.

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