ARGENTIUS di Elisa Panunzio (prima parte)

genere: FANTASY

La maledizione

La maga incuteva terrore in ogni singolo gesto.

La tonaca nera fluttuava pesantemente passo dopo passo. Le ossa del corpo scheletrico spiccavano da sotto la stoffa, come a voler uscir fuori dalla pelle. Il mantello del colore della notte non si distingueva dai folti capelli corvini che inondavano le spalle appuntite. Gli occhi sfumati di giallo dorato come quelli di un felino si stavano lentamente dilatando nel buio.

La maga aumentò il proprio passo, picchiettando sul terreno di pietra e provocando un’eco acuta sulle fragili pareti degli specchi intorno.

Un’ ombra minuta e leggera la seguiva con andatura frenetica, tentando invano di starle dietro.

Il vicolo era stretto e dalla bassa parete del soffitto pendevano stalattiti affilate come spade.

Ai lati erano state appese torce infuocate che illuminavano debolmente il tragitto e gli infiniti specchi che si susseguivano uno dopo l’altro.

Tutti mostravano incisioni di simboli antichi e unici: non ne esisteva uno identico ad un altro. Ciò che essi rappresentavano era sconosciuto ai molti. Soltanto gli esseri eterni ed immortali erano in grado di saperli interpretare correttamente.

L’ambiente odorava di zolfo ed era possibile percepire anche il profumo dell’acqua. Probabilmente il vicolo portava ad un lago sotterraneo e la presenza di zolfo era dovuta al fatto che il luogo era ciò che rimaneva di un vulcano spento da secoli.

Dopo un lungo camminare, la maga e la giovane alle sue spalle giunsero all’interno di una grotta imponente ed ampia.

Avrebbe potuto tranquillamente contenere un palazzo intero. Tutt’intorno confluivano innumerevoli viottoli di cui, a causa dell’oscurità, era possibile intravedere la sola entrata. L’acqua del lago appariva alla vista pesante come pece e sulla superficie si formavano bolle che scoppiavano rilasciando vapori nerastri.

Nonostante l’ambiente fosse un luogo vulcanico, il freddo era insopportabile.

Chiunque vi fosse entrato, sarebbe morto nel giro di pochi minuti. Milioni di aghi parevano infilarsi e conficcarsi nella pelle. L’alito e i vapori emessi dal lago che venivano a contatto con l’aria si trasformavano immediatamente in condensa.

Ma nulla di tutto ciò influenzava minimamente la maga.

Ciò non si poteva dire anche per la ragazza. Ella tremava e si contorceva meccanicamente su sé stessa.

«Sta’ calma Ruth! Tra pochi istanti avrai ottenuto ciò che brami» sentenziò la maga.

La sua voce si distese su tutte le pareti, facendo precipitare due stalattiti che si infransero.

La donna riprese il cammino e imboccò una delle vie al centro della grotta.

A fatica, la ragazza fece altrettanto, scivolando su un granito appuntito e provocandosi un profondo taglio sullo stinco.

Ma la determinazione era più forte e le consentì di proseguire velocemente, benché ferita.

Le gocce di sangue argentato che colavano sul terreno evaporavano e si condensavano all’istante nello stesso tempo.

La giovane non era mai stata a contatto con un luogo tanto misterioso e terrificante, in cui coesistevano calore e gelo opposti ma in perfetto equilibrio.

Quando si ritrovarono dinanzi ai piedi di un altissimo muro di porfido, le due si arrestarono. Il muro si innalzava fino a raggiungere i centocinquanta metri. Al posto dei numerosi specchi che le avevano accompagnate lungo tutto il percorso, un unico specchio ampio ricopriva la parete.

Dopo circa due secondi un vortice di luci variopinte apparve sulla superficie liscia dello specchio, mostrando l’immagine tridimensionale di alcuni differenti soggetti spaventosi.

Erano migliaia di esseri antropomorfi, nudi e ammassati l’uno addosso al corpo dell’altro. La composizione era quella di un unico cumulo di carne intrecciata e incatenata da braccia e gambe.

La ragazza cacciò un urlo e si coprì il volto fra le fragili dita dalla pelle chiara.

La maga scoppiò in una risata malvagia.

«Perché questo timore, Ruth? Ciò che vedi è ciò che si trova dentro di te».

La fanciulla scosse il capo furiosamente

«No! Non è vero!».

Una mano affusolata e dalle unghie affilate come artigli le toccò i capelli ramati.

«Lo sai che è così! Ormai è troppo tardi».

Ruth frignò e si piegò sulle ginocchia, facendole scricchiolare.

«Ma io non pensavo! Non credevo!».

Si portò le mani nei capelli ed iniziò a torturarsi la lunga chioma.

La maga la ignorò e posò una mano sullo specchio del muro.

«Queste creature sono la nostra parte più crudele e malvagia, quella contenuta nell’angolo più nascosto del nostro cuore. I buoni troveranno in questo specchio la loro essenza maligna, che possiede le stesse sembianze fisiche del corpo della parte onesta…» spiegò la strega con crescente e crudele indifferenza.

Ruth stava ansimando tra gli stenti e pativa il freddo, mentre grosse lacrime le colavano sulle guance rosee e delicate.

«Invece tu, guardando in questo specchio scorgerai la tua parte e la tua anima pure e senza macchie di peccato, poiché il male è già dentro di te e scorre nelle tue vene!».

La gioia per le azioni scorrette e l’odio verso tutto ciò che costituisse qualcosa di buono, riempivano l’essenza della maga. Ella rideva tronfia e soddisfatta riguardo a quanto stava operando.

«Naturalmente io non trovo la mia parte buona né in me stessa né nello specchio perché, semplicemente, non esiste!».

Un’altra risata potente fuoriuscì gagliarda dalla sua gola, come un suono fragoroso da uno strumento a fiato.

Ruth sembrava in preda ad una forza esterna che la scuoteva e la faceva dondolare furiosamente su sé stessa come indemoniata.

«Non è vero! Ho paura! Ho paura!».

La maga le lanciò uno sguardo ricolmo di odio e pura cattiveria.

In quel momento avrebbe volentieri ucciso Ruth, ma vederla soffrire e pentirsi era ancora più appagante che usare la violenza.

«Mi disgusti! Sapevo che non sei altro che uno schifoso insetto da schiacciare subito! Sei debole!».

«Voglio tornare indietro! Le mie intenzioni sono cambiate!» si dimenò la fanciulla.

I capelli color del fuoco le ricadevano leggeri sulle spalle, zuppi di lacrime trasparenti come diamante.

«Non si può tornare indietro!» ribatté acida la megera, schiaffeggiandola bruscamente. «Eppure mi sembravi così convinta e piena di odio, di rabbia, di invidia e di vendetta quando hai pronunciato il patto».

Le anime all’interno dello specchio ridevano, emettendo grida strazianti e suoni bestiali.

L’anima pura di Ruth veniva sopraffatta, schiacciata e pestata dalle altre. Il volto candido era rigato da rivoli di sangue e il corpo lacerato da ferite inguaribili.

Ruth osservò il proprio riflesso, sottomesso e maltrattato a morte.

La ragazza si sentiva imprigionata da sé stessa, dal proprio operato e dal proprio odio interiore che l’aveva condotta fino allo smarrimento.

La maga fece un sorriso beffardo e la schernì:

«Ricordi ciò che hai pronunciato?».

Ruth annuì rassegnata e ormai persa. In lei non c’era più vita né speranza.

«Hai detto: voglio la morte di mia cugina alla quale è stato promesso il trono del Regno di Diamanti. Voglio la sofferenza, la malattia e la strage di tutte le sue discendenti. Voglio che il corpo di Argentea si consumi di giorno in giorno, seguendo il disgregarsi del suo stesso ritratto. Quando il ritratto di mia cugina sarà completamente sbiadito, ella morirà e la maledizione finalmente si compirà!».

Queste erano state le parole di Ruth. Ferme e dure, prive di qualsiasi pietà. La maga le aveva rievocate e riportate alla memoria.

«Tu hai imprigionato te stessa, Ruth! Tu mi hai chiesto di pronunciare la maledizione e di aiutarti a conquistare il trono».

Ruth cadde in avanti con la faccia nella terra. Il pavimento bollente le arse il volto, bruciandole occhi e guance. La ragazza urlò e tentò di rialzarsi, fra le risa maledette della maga e delle anime dannate:

«È giunto il momento!».

La maga si avvicinò ulteriormente allo specchio e sfregò le unghie sulla superficie, emettendo un suono stridente. Evocò uno fra i molteplici specchi che avevano visto percorrendo il tragitto nei viottoli oscuri.

Lo specchio si librò nell’aria e fluttuò lentamente posandosi accanto alla strega. Alla sua sommità stava inciso il simbolo di un cigno con un sole sul capo.

Sulla superficie apparve l’immagine di una giovane donna, bellissima e ignara di tutto.

«L’invidia è una brutta cosa…» scherzò malefica la maga, guardando Ruth che giaceva a terra. «In effetti è più bella di te, più alta e fisicamente meno fragile e sottile. Hai ragione a desiderare di prendere il suo posto. Ha tutto meglio di te… anche il ruolo sociale e la ricchezza materiale. Esattamente quello che ognuno brama più di qualunque altra cosa…e anche tu, Ruth!».

Una dopo l’altra, queste parole trafiggevano il cuore malato di Ruth come tante potenti frecce. «Il destino è ormai deciso. Tutto è stabilito».

La maga cominciò ad agitare le mani e a evocare la magia. Scie di luce e polveri si addensavano sopra la sua testa, creando nubi colorate.

«La Regina Argentea morirà non appena il dipinto che ritrae le sue dolci fattezze si sarà completamente sbiadito. Così anch’ella si consumerà giorno dopo giorno ed il suo corpo si indebolirà, appassendo come un delicato fiore. E la sua discendenza patirà il dolore, la sofferenza, la strage e la malattia…».

La maledizione fu confermata e dallo specchio di Argentea prese vita il ritratto, che avrebbe scandito le ore della sua proprietaria.

Argentea e tutte le sue discendenti erano condannate a morte e chi fra esse fosse sopravvissuta, avrebbe condotto un’esistenza legata al dolore. E tale sofferenza era stata inflitta proprio da qualcuno di caro e vicino, una cugina. Proprio da una familiare, da chi era stata amica e confidente, compagna di giochi di infanzia e avventure adolescenziali, adesso aveva commesso un crimine terribile.

Fra le nubi di vapore colorato, fra lo zolfo e la condensa, la maga aveva sentenziato la maledizione e Ruth aveva perso per sempre la propria anima.

L’anima pura era stata sopraffatta, era scomparsa tra i corpi dannati.

Ma l’anima di un uomo si fece innanzi, arrivando a toccare la superficie interna dell’enorme specchio.

«Attenta signora» disse, assumendo un tono crudele e colmo di soddisfazione maledetta. «Nonostante il futuro sia segnato e ogni discendente femmina della Regina Argentea sia condannata, il passato è in grado di fornirle aiuto e speranza».

La maga si incuriosì e prestò ascolto alle parole dell’anima.

L’anima si sentiva lusingata e sperava in una riconoscenza o in una ricompensa da parte della potente strega, dopo averle rivelato ciò che sapeva riguardo alla maledizione ed alle possibili contro-maledizioni.

«È possibile che una antenata della Regina possa interferire nella sua vita e donarle la propria Essenza Vitale non appena il ritratto si sarà completamente consumato, in modo da salvarla». La maga non rispose e continuò a fissare l’anima dell’uomo.

I suoi occhi gialli erano iniettati di odio.

Guardando quell’anima, credeva di avere di fronte a sé un viscido verme.

«Taci, sudicio individuo!».

E una saetta infuocata attraversò il vetro e lo colpì al petto, disintegrandolo in cenere.

Le altre anime spaventate si allontanarono, fissando sconvolte il mucchietto.

«Ora Ruth, in cambio dell’aiuto che ti ho offerto, esigo una ricompensa!».

Ruth non aveva forze per ascoltare e rispondere, ma le sue labbra emisero comunque un ultimo respiro.

«Prenditi ormai… quello che vuoi!».

La maga le si avvicinò e posò una mano sul suo cuore.

«Tu diverrai Regina e governerai il Regno di Diamanti, ma io mi prendo parte della tua Essenza Vitale di Principessa e con la tua cattiveria unita alla mia, sottometterò i Dieci Regni, i quali conosceranno le piaghe del dolore e verrà meno quell’equilibrio per cui da sempre, voi Principesse, avete lavorato affinché durasse perpetuo».

Una luce fuoriuscì dal corpo esanime di Ruth e penetrò in quello scheletrico e tumefatto della maga.

«Tutti mi chiameranno Lady Chiromanthia e mi temeranno!».

Da quel preciso istante ogni regno avrebbe detto addio a pace e prosperità, scacciati e sostituiti dal male divampante. 

La fata spirito

“Lampi furibondi esplodono nel buio.

Tuoni minacciosi rimbombano nel cielo nero.

Fulmini carichi di elettricità squarciano le dense nubi, solide quasi come cemento.

La pioggia scende a catinelle, pesante sopra la vegetazione, rivoltando e distruggendo i campi coltivati.

Un vento incessante e violento scuote gli alberi e solleva la sabbia in riva al mare.

Alcuni tronchi prendono fuoco colpiti dai fulmini, ma subito l’acqua provvede a domare e spegnere le fiamme che, nel frattempo, si erano alimentate creando disegni e lingue ardenti. Grosse cascate scorrono fra le radici degli alberi che vengono abbattuti e trascinati dalla corrente, scatenando frane e generando torrenti.

Il fiume si ingrossa e esce dal letto, provocando alluvioni e sommergendo i villaggi.

Il fango ricopre sassi, case, tane di animali e le sabbie mobili costituiscono un grave pericolo per tutti gli esseri viventi privi di branchie che vengono inghiottiti.

I Dieci Regni Incantati sono precipitati nell’oblio e i disastri si abbattono sugli abitanti senza permettere ad alcuno di salvarsi, sfuggendo all’apocalisse.

Le Fate Spirito in alto nei cieli vengono soffocate e spazzate dall’aria, che piega e spezza le loro fragili ali impedendone il volo.

Le Donne Api della radura fiorita si riparano nel Grande Alveare, ma la pioggia abbondante appesantisce la struttura, facendola precipitare a terra. Il tutto scompare nel fango in una manciata di secondi ed esse muoiono annegate.

I Folletti e gli Elfi resistono a lungo nella Quercia Millenaria, sigillando tutte le entrate e cercando di non far penetrare acqua nel legno.

Purtroppo, la quercia non è come il giunco, il quale si piega alla forza del vento senza spezzarsi; l’enorme vegetale tenta di contrastare la furia invincibile della natura, ma ciò si rivela vano.

A metà del tronco, l’albero subisce uno squarcio netto e i rami e la chioma vengono trascinati a valle dallo scorrere del fiume.

Anche il mare è incredibilmente agitato e le forti onde si infrangono sugli scogli, fino ad allagare le spiagge e le coste. Al largo si formano mulinelli che fanno affondare le barche e si generano vortici e tornado.

Le trombe d’aria risucchiano con potenza gli oggetti che incontrano sul cammino e sollevano e sradicano edifici e piante.

Il Palazzo di Corallo in fondo agli abissi sopporta scossoni e tumulti a causa di quello che avviene in superficie.

Le Sirene trovano rifugio fra le mura, facendosi coraggio a vicenda e sostenendosi nel momento di tensione e sconforto.

Questo è, però, completamente inutile poiché l’ira del mare non risparmia alcunché.

Anche il Palazzo di Corallo cede e si disintegra, schiacciando i sudditi sotto le macerie.

Tuttavia, non è solamente la natura ad essersi brutalmente scatenata e rivoltata contro qualsiasi essere dotato di vita o respiro che popola uno fra i regni incantati.

Altre minacce incombono rabbiose contro i puri di cuore.

Il male trionfa crudele sopra ogni cosa.

Anche la violenza di spade e frecce avvelenate agisce contro i deboli e gli innocenti.

Coleotteri giganti, vespe dal pungiglione affilato, ragni e scorpioni dal veleno letale, orribili scarabei e Mosconi attaccano il Castello di Diamanti su tutti i fronti.

Si infilano nelle finestre, abbattono le porte e infrangono le vetrate lucenti dei colori dell’arcobaleno, penetrando negli ampi saloni regali per uccidere le Principesse, custodi dei Dieci Regni.

Migliaia di cuori costituiti da petali di rosa e sangue argentato vengono infilzati da lame taglienti e arrugginite.

I Mosconi estraggono le proprie spade e squartano morbidi ventri materni, gambe e braccia vengono amputati con un unico colpo e teste di donne bellissime dalle lunghe chiome lucenti sono mozzate e strappate dalle fauci fameliche di Lupi affamati “.

*****

Questa fu la più terribile guerra dei Dieci Regni mai raccontata, accompagnata dall’azione furiosa della natura e dei quattro elementi.

La maledizione della maga, tanto desiderata da Ruth, provocò la morte e la sofferenza di innumerevoli innocenti e non solo della Regina Argentea.

Ormai la Principessa dalla chioma ramata e dalle guance di zucchero caramellato si era macchiata di peccato mortale. Il suo cuore fresco come una rosa, in cui scorreva sangue argentato e puro, era mutato in pietra.

Ruth non poteva più provare sentimenti o stati d’animo. La sua anima buona era stata sconfitta dalle anime dannate e soffocata dai corpi nudi e pesanti. Un fragile e piccolo corpo come quello di Ruth racchiudeva un cervello ed una mente che avevano concepito gli orrori della guerra. L’anima buona di Ruth era morta atrocemente tra gli stenti e gli spasmi di dolore. Una fine angosciante e tragica si era consumata all’interno di quello specchio maledetto, celato negli antri profondi e proibiti della Grotta degli Spettri.

Ruth era salita al trono al posto della Regina Argentea, dichiarando che la cugina era stata uccisa dall’Esercito dei Mosconi, i quali avevano attaccato il castello per governare sui Dieci Regni e spezzare l’equilibrio che li controllava.

Ruth era stata scelta come sostituta della Regina Argentea fin dalla nascita poiché era la sua parente più stretta. La giovane si era presentata alle Consigliere di Corte con il volto segnato da lacrime di sangue, fingendo dispiacere per l’omicidio della cugina e in mezzo al pianto sincero dei sudditi aveva ottenuto scettro e corona.

Finalmente era riuscita nel proprio intento e aveva conquistato la ricchezza ed il potere.

Ma, dopo i primi momenti di soddisfazione e gioia malata, aveva compreso perfettamente che la situazione le era sfuggita di mano sin dal principio e che non poteva fare nulla per impedire il protrarsi della guerra.

Infatti, questo era ciò che aveva chiesto la maga in cambio dell’aiuto fornito alla crudele Principessa ed ella le aveva concesso di prendersi ciò che desiderasse, ormai in preda alla follia e alla rassegnazione.

Il Castello di Diamanti, che un tempo era stato meta e centro di incontri importanti fra i rappresentanti più illustri dei Dieci Regni e antico baluardo inespugnabile, decadeva e si disintegrava sotto i colpi incessanti sferrati dai quotidiani attacchi.

Però, a differenza degli altri palazzi, il Castello di Diamanti era più solido ed era sostenuto da fondamenta possenti e resistenti. Le mura non erano in sasso, ma in duro diamante e rilucevano di mille colori e infinite sfumature, con i chiari raggi del sole. Le stanze dentro il palazzo erano impossibili da contare e uno straniero che non le avesse mai attraversate, si sarebbe certamente perso tra gli innumerevoli corridoi scavati lungo l’intera struttura. Alle pareti erano stati appesi molti quadri che raffiguravano le antenate delle Principesse a iniziare dalla fondatrice del Castello di Diamanti.

Esse erano tutte bellissime e la loro pelle era rosea e delicata. Il sangue che scorreva nelle vene delle Principesse era argentato poiché era dovuto all’estrema purezza che invadeva loro gli animi. Le Principesse possedevano un corpo longilineo e leggero, paragonabile alla fisionomia aggraziata di una libellula. I capelli non erano uguali per tutte, ma di diverse sfumature. Tutte erano comunque caratterizzate dal fatto di essere luminose e brillanti, come ricoperte di polvere magica e dorata. La maggior parte delle Principesse aveva una chioma bionda o ramata; tuttavia, esistevano anche coloro che possedevano capelli mori.

Gli occhi delle Protettrici del castello erano anch’essi splendenti e variopinti come pietre preziose.

La Regina Argentea era mora e la sua chioma era lunga e liscia fino ai fianchi.

All’interno del palazzo, tante Principesse sarte si occupavano di cucire e confezionare abiti per tutte le altre che vi abitavano. La stoffa utilizzata era morbida e soffice come piuma d’oca e la fantasia delle cucitrici era evidente nelle meravigliose realizzazioni.

Il palazzo sorgeva in una valle immensa, verde e rigogliosa: due cascate scendevano da un colle a nord del Regno e l’acqua confluiva in un lago cristallino, i cui emissari sfociavano lontani nel mare.

I prati di erba fresca erano ricoperti da fiori di ogni specie, di tante differenti forme e dimensioni. Le farfalle che si posavano su di essi donavano al paesaggio un’ulteriore immagine di colore. Gli alberi formavano vasti boschi e foreste, dove permaneva un delicato senso di freschezza e aria pura.

Qui vivevano specie di animali rari e incantevoli alla vista, dal pelo e dal piumaggio stupendi e unici in tutti i Regni.

La Regina Argentea era cresciuta in un mondo magico e speciale: tutto era sempre stato governato dalla pace e dalla fertilità.

Le stagioni avevano sempre seguito il giusto corso e si erano susseguite in modo equilibrato, secondo il controllo costante delle Principesse protettrici. Argentea era stata educata all’arte del canto, della danza e della musica strumentale. Sapeva suonare l’arpa e il violoncello e dipingeva soggetti e paesaggi stupendi, presenti all’interno dei propri sogni. Sua compagna e migliore amica d’infanzia era stata Ruth.

Le bambine avevano attraversato i prati correndo fra i fiori. Si erano tuffate nelle limpide e trasparenti acque del lago e si erano più volte inoltrate nel bosco per arrampicarsi sugli alberi o giocare con gli animali. E poiché la pace vigeva fra tutti i Dieci Regni, la convivenza fra gli abitanti era salda e tutti amavano socializzare e sentirsi uniti.

Quindi, anche Argentea e Ruth erano state ospiti degli altri Regni e avevano felicemente frequentato i luoghi all’infuori del proprio Castello di Diamanti.

Tutto era stato perfetto e stabile fino a quando Argentea aveva dovuto assumersi le proprie responsabilità di Regina. Provvedere alla sicurezza e al mantenimento del Regno costituiva un impegno importante e richiedeva attenzione e sapienza.

Perciò, la Principessa Argentea si era assunta il dovere di studiare e apprendere diverse discipline al fine di conoscere la storia della civiltà e l’operato delle antenate.

Questo era fondamentale per agire saggiamente e garantire il Bene Collettivo. Di conseguenza, Ruth era stata trascurata e messa in disparte.

Argentea non aveva più trovato il tempo per divertirsi insieme a lei, condividere i segreti e i racconti dei primi amori adolescenti e trascorrere le giornate lungo le vie del Regno.

Dapprima era stata la solitudine ad impadronirsi del cuore fragile di Ruth.

Spesso la fanciulla si era chiusa nella propria stanza a meditare e a piangere ininterrottamente per ore. Aveva sprecato molte giornate di sole da vivere all’aria aperta serenamente, barricandosi fra pareti e corridoi bui.

Benché la stanza fosse un rifugio incantato e bellissimo, come ogni salone appartenente al Castello di Diamanti, non era sano e comprensibile per una giovane rinunciare a godere gli anni più belli della propria vita, tormentandosi a pensare che a qualcun altro fosse capitata una sorte migliore. E in quella stanza celata al mondo e alla gioia di esistere, Ruth aveva sviluppato la propria inquietudine e più trascorreva il tempo, maggiormente cresceva l’odio e l’ira, nei confronti della futura Regina Argentea.

 Ella era sbocciata nel fiore della gioventù come un bruco che si trasforma e assume le sembianze di una splendida farfalla. La sua bellezza era unica e rara e assai più preziosa rispetto ad ogni altra Principessa.

Argentea era alta e longilinea e la sua fisionomia leggiadra. Le gambe lunghe e snelle le donavano un’andatura leggera e aggraziata e i capelli che ondeggiavano quando ella camminava conferivano armonia all’intera forma. La fanciulla amava danzare e pattinare sul ghiaccio, quando in inverno il lago nella radura dove sorgeva il Castello di Diamanti diveniva solido.

La Principessa era abile in moltissime altre attività sportive: insieme alle compagne cavalcava velocemente fra i prati per chilometri in sella al suo stallone dal pelo candido come neve; adorava nuotare nel mare e immergersi in profondità nelle acque degli abissi, per raggiungere le amiche Sirene; volava sulla groppa delle Donne Api, le quali abitavano la Radura Fiorita e il Grande Alveare che per secoli era stato stabile prima di scomparire inghiottito dal fango; inoltre, spesso Argentea aveva giocato a hockey con le Fate Spirito, utilizzando gli scettri di cristallo che fungevano da mazze e pietre di zaffiro come palline. Insomma, la fanciulla adorava il movimento e i giochi all’aria aperta.

*****

Una Fata Spirito, abitante del Palazzo di Polline, si fece largo nei corridoi del Castello di Diamanti, dove si stava atrocemente consumando la strage delle Principesse.

I Mosconi, assieme ai Lupi e agli altri Insetti Giganti agivano brutalmente senza pietà, massacrando a sangue tutte le fanciulle.

Le Principesse avevano lanciato un appello di aiuto alle Donne Api, alle Fate Spirito, ai Folletti e agli Elfi con lo scopo di far cessare lo sterminio.

I buoni resistevano, ma parecchi innocenti stavano perdendo la vita uno dopo l’altro.

La Fata Spirito riuscì agilmente a schivare diversi colpi e lanci di frecce infuocate.

Tuttavia, una delle ali fu presa di striscio da una lancia e la punta dell’ala venne staccata. Nonostante il dolore e la perdita di sangue, poiché le ali delle Fate Spirito erano costituite di linfa vitale come nel corpo, ella proseguì.

Lasciandosi alle spalle quell’orrore, si avvicinò volando a fatica, in direzione della Regina Argentea e la sollevò. La fanciulla era impegnata in uno scontro con un Moscone donna e si era ferita ad un braccio. Quando la Fata Spirito la portò via, Argentea non ebbe nemmeno il tempo di domandarsi chi l’avesse interrotta. Le due volarono su per una rampa di scale e poi attraversarono una serie lunghissima di corridoi e portici, finché la Fata, soddisfatta, si arrestò per riprendere fiato, posandola al suolo delicatamente.

Esse si trovavano in una soffitta di una fra le torri più alte del palazzo incantato.

La Regina Argentea le permise di respirare e riposarsi qualche minuto, osservandola incuriosita. La Fata Spirito tacque e mantenne l’assoluto silenzio, adagiandosi su di una vecchia sedia in legno d’acero, lasciata nella stanza da tempo.

La stanza era illuminata dalla debole luce del tramonto, che entrava dall’unica feritoia della torre. Non vi era quasi nulla in quel piccolo spazio circolare: un antico quadro appeso alla parete, raffigurante una donna bellissima.

Questa donna, però, godeva di un volto affascinante e misterioso, quasi come se lo stesso dipinto fosse stato intento a restituire lo sguardo all’osservatore. Gli occhi erano color verde smeraldo, accesi e vispi come quelli di Argentea. I capelli erano raccolti in ciocche nere, con uno chignon e un diadema dorato e inciso da pietre preziose. La donna portava uno stupendo abito bianco ricamato con pizzi e merletti.

Argentea si fermò ad ammirare quel soggetto magnifico e la sua attenzione passò dalla Fata sfinita sulla sedia, alla Regina del quadro, dall’aspetto fiero e composto.

Quando il sole scomparve dietro le montagne, la Fata Spirito alzò la testa e si rivolse ad Argentea, cominciando a parlare.

«Buonasera Argentea…» disse la donna, con voce debole.

Argentea ebbe un sussulto: nessuna creatura nel Regno si rivolgeva a lei con quell’aria tanto materna, senza chiamarla “Vostra Altezza” o “Maestà”.

La Fata Spirito sorrise dolcemente, alzandosi in piedi. Si avvicinò alla Principessa e le posò una mano sulla spalla. Il suo tocco era estremamente fragile e la mano leggera come una piuma. Istintivamente, la fanciulla si ritrasse un poco, confusa.

 «Non avere paura. Non voglio chiederti nulla di strano».

«Lo immagino» rispose Argentea, restituendo il sorriso.

«So che le Fate Spirito sono creature buone. Ma non ti ho mai vista».

La Fata assunse un’espressione triste e tormentata.

«Mi dispiace… avrei voluto esserti più vicina».

Argentea non capiva quali fossero le intenzioni della creatura che le stava dinanzi, ma desiderava ascoltarla e scoprire chi fosse.

 La Fata era una donna già matura e pareva essere saggia e molto intelligente.

Come tutte le Fate del Palazzo di Polline, anch’ella aveva un corpo composto di carne e aria, incorporea rispetto alle Principesse. La chioma era formata da capelli e vento e i vestiti non erano in stoffa, ma in petali di rosa, girasole, tulipano, narciso, violetta, campanula e ninfea. «Chi sei?» chiese Argentea, scrutando attentamente quella luminosa figura.

«È una lunga storia Argentea…».

La Principessa si esprimeva in modo gentile, ma non poteva sopportare che il popolo in quel momento stesse combattendo per difendere il Castello ed ella si trovasse al sicuro, nascosta come una codarda.

«Non avere fretta! Per raccontarti come io sia legata a te, ho bisogno della tua completa attenzione».

Argentea annuì e si mostrò disponibile ad accogliere le parole della sconosciuta e misteriosa Fata Spirito.

«Sai bene che tutte le creature pure dei Dieci Regni convivono in pace da secoli. Esattamente da quando le tue antenate iniziarono a mantenere l’equilibrio fra i diversi mondi. In particolare, le Principesse e le Fate Spirito mantengono questa alleanza in maniera più salda, rispetto a quanto possa avvenire nei rapporti fra le creature oscure» spiegò la donna, sebbene Argentea fosse perfettamente consapevole delle relazioni intrattenute fra gli abitanti dell’intero Regno.

«Conosci la storia della fata madrina?» chiese ironicamente la Fata «ebbene, solo le Principesse destinate un giorno a diventare Regine del Castello di Diamanti sono affidate alle cure di una Fata Spirito, la quale detiene il compito di occuparsi completamente della Principessa. Le cure si protraggono fino a che la Principessa sia in grado di apprendere le arti e perciò viene educata dai maestri delle molteplici discipline».

Argentea comprese tutto all’istante: capì che colei che l’aveva sollevata di peso e sottratta ad un probabile colpo mortale, era anche colei che l’aveva cresciuta e le aveva dato i primi importanti insegnamenti.

«Purtroppo, io non mi ricordo di te» le confidò la fanciulla con una punta di vergogna nel proprio tono dolce e triste.

La Fata non parve essersi offesa, ma continuò ad essere cortese e pacata nel parlare.

«È comprensibile, bambina… avevi appena tre anni quando ci siamo lasciate…».

La fanciulla non capiva il motivo di quella prematura separazione e voleva conoscere più cose riguardo quella persona che aveva ritrovato dopo tanto tempo.

«Perché questa è la legge del nostro Regno: una volta che la Principessa sia pronta, sono i maestri ad insegnarle tutto il sapere necessario per garantire l’armonia sui Dieci Regni».

Ma Argentea non era convinta di tale risposta e replicò decisa:

«Certo! Però tu hai affermato poco fa che sarebbe stato bello per te starmi maggiormente accanto. Perché non lo hai fatto?».

La Fata Spirito tacque per pochi istanti. Il suo volto assunse un’espressione triste e nostalgica. Era evidente che la sua mente stava vagando nei ricordi e che tali avvenimenti non fossero stati interamente sereni e piacevoli.

Argentea attese, ma quando la Fata protrasse troppo a lungo il silenzio, la sollecitò a rispondere. La donna si svegliò come da un lungo sonno, scusandosi per il proprio comportamento.

«Ho dovuto aiutare un’altra persona. Qualcuno che richiedeva maggiori attenzioni rispetto a te in un momento difficile della sua esistenza».

Ella non aggiunse altro.

Argentea rimase ancor più confusa e desiderosa di sapere di quanto lo fosse stata pochi istanti prima.

Nonostante ciò, non osava pretendere ulteriori chiarimenti, poiché non voleva apparire troppo sfacciata o addirittura invadente. Perciò, accettò quella breve ed ambigua spiegazione, finché la Fata non si decise a rivolgersi nuovamente a lei.

«Ora facciamo presto! Non rimane molto tempo!».

«Tempo per cosa?» chiese la Principessa, ormai in preda a numerosi dubbi. Tutte queste rivelazioni l’avevano quasi portata a dimenticare la guerra ed il male che, in quel momento, si stava facendo strada fra le mura del palazzo, trasportandola in un’altra dimensione.

«Devo agire in fretta!» aggiunse, ignorando la fanciulla che stava iniziando ad agitarsi e a porsi troppi interrogativi.

«Ma come ti chiami?» insistette la Regina Argentea, mentre le mani della Fata la conducevano accanto al ritratto della Regina Antenata.

La Fata cominciò a pronunciare formule magiche, dando vita a scie di luce e raggi colorati fra le proprie mani, che si diressero verso Argentea e l’avvolsero.

«Mi chiamo Clelia».

Argentea era spaventata e tentava invano di opporsi alla forza del vortice, che non le permetteva di muoversi e fuggire.

«Cosa sta succedendo?».

Clelia procedette determinata:

«Nulla di tutto questo male ricorderai. Un’altra nascita sperimenterai perché ora è necessario che tu fugga e ti metta in salvo per non morire…».

Argentea si dimenava e cercava in qualsiasi modo di liberarsi per tornare a combattere accanto al proprio popolo come una Regina leale, a rischio della morte.

«Quando sarai pronta tornerai e con la tua forza ed il tuo coraggio l’intero Regno salverai».

Uno scoppio annunciò l’avvenuto compimento dell’incantesimo e fra lampi e bagliori, Argentea scomparve.

Nella stanza restò solamente un denso vapore, il quale si diradò grazie al venticello che penetrava attraverso la minuscola feritoia. La luce del sole aveva ceduto il posto alle tenebre e luna e stelle splendevano nel cielo, uniche fiamme di speranza per i Dieci Regni, che stavano sopportando quegli attimi di immenso terrore.

Clelia si appoggiò al davanzale ed una lacrima cristallina le sfuggì delicatamente sulle guance fatte di soffio di vento.

«Vivi Argentea e torna a liberarci!»

Il dono di Natale

Milioni di fiocchi di candida neve cadevano dal cielo, ricoprendo strade, tetti, alberi e giardini attorno alle abitazioni. La neve accumulata di fronte ai cancelli e sui marciapiedi ostruiva il passaggio dei pedoni e carrozze ed automobili non potevano circolare liberamente.

I bambini avevano approfittato per recuperare dalle soffitte i vecchi slittini in legno per scivolare lungo le discese ghiacciate, divertendosi con gli amici a gareggiare.

Altri avevano giocato tutto il giorno a palle di neve, o avevano preferito costruire pupazzi, addobbandoli con cilindri, bottoni, sciarpe e la classica e tradizionale carota al posto del naso. Non erano molti i negozi aperti durante la giornata, poiché la città come il resto della nazione e del mondo stava vivendo un regime di terrore: erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale. La maggior parte della popolazione era povera e molte attività si erano interrotte.

I negozi stavano via via chiudendo e i cittadini non potevano riunirsi alla sera a causa del coprifuoco, imposto dalle dittature in molte città europee.

Quel Natale era assai triste. Trovarsi con gli altri nelle locande, dove ardeva un fuoco scoppiettante, a bere cioccolata e a raccontarsi del più e del meno era diventato un bel ricordo.

Quella precisa notte, il freddo si era fatto eccessivamente pungente e non c’era anima viva in giro. La neve non cessava di scendere e aveva ormai superato il metro.

Nel centro della piazza del Duomo di Como, si era fermata una carovana. Su di un lato del veicolo era appeso un manifesto con l’immagine di un tendone e di cinque personaggi truccati e con le parrucche.

Le luci delle case intorno erano ancora accese e da una delle finestre proveniva la dolce melodia di un violino. Oltre a ciò, non vi era alcun altro rumore e il vento, appena sollevato, diminuiva la percezione del suono nella piazza. Una cesta in vimini si trovava vicino ad una delle quattro ruote della carovana.  Dentro di essa era ripiegata una copertina rosa, che avvolgeva qualcosa di già infagottato.

Da uno dei vicoli che portavano alla piazza, spuntò una magra figura.

Tremava terribilmente e si avvicinò a grandi passi alla carovana. Alzò un braccio per bussare alla porta, ma il piccolo oggetto ovale attirò improvvisamente la sua attenzione. Ritrasse il braccio lungo il fianco e si fermò per avvicinarsi, continuando a tremare come una foglia, a causa della temperatura, scesa rapidamente sotto lo zero durante la serata. La figura si chinò per toccare la cesta ed ebbe un sussulto, non appena si rese conto di che cosa contenesse quel mucchio di coperte. Scosse il capo e mise una mano in fronte, sospirando e sedendosi sulla scaletta attaccata ai piedi della porta. Stette in silenzio per qualche istante e poi si decise a bussare.

Aspettando che qualcuno venisse ad aprire, si volse verso la cesta.

«E adesso cosa faccio?»

Ovviamente, nessuno rispose, ma da sotto le copertine si udì un debole gemito.

«No! Non ti mettere a piangere o sveglierai tutti!».

La creatura avvolta nella cesta alzò la voce, cominciando a frignare.

«Sssssssssstt! Su! Su!» fece l’uomo, tentando di calmare la situazione e cullando il piccolo fagottino. «Dai! Facciamo le presentazioni: io sono Beppe, giocoliere di professione e tu sei?» Beppe sorrise della propria domanda stupida.

«Che sciocco! Come potresti rispondermi?» disse «ma io devo sapere da dove vieni e chi ti ha portato qui».

Dentro la carovana si udirono dei passi e delle voci.

«Cosa devo fare con te?» sbuffò Beppe «mi metti in crisi».

La porta si aprì, colpendo Beppe seduto sulle scalette, il quale cadde nella neve con in braccio il fagotto.

«Scusa Beppe» rise una voce dolce e giovanile, scendendo dalla carovana.

Il giocoliere le rivolse uno sguardo contrariato:

«Stai più attenta, Cindy!».

Cindy si scusò nuovamente e aiutò lo zio a sollevarsi, notando la cesta e ciò che Beppe stringeva fra le braccia.

«Cos’è zio?» domandò incuriosita la giovane ragazza, invitando lo zio ad entrare.

I due si fecero largo nella carovana in cui, nonostante l’ora tarda, tutti erano ancora svegli. «Dove sei stato Beppe?».

A parlare era stato un omone gigante con indosso pantaloni verdi a righe, grossi stivali neri in pelle e un gilet come unico indumento a riparargli in busto. Sul bicipite destro aveva tatuata l’immagine di due cuori trafitti da una freccia e sul bicipite sinistro, l’immagine di una bandiera pirata con il teschio. A concludere il tutto, all’interno di un cinturone portava una grossa sciabola.

«Sono andato a casa del Signor Grossi per chiedergli se possiamo esibirci nel terreno di sua proprietà».

Cindy divenne impaziente.

«E che ha risposto?»

Beppe finse per un attimo un’espressione amareggiata, ma poi le sue labbra si aprirono in un sorriso.

«Ci ha concesso la possibilità di allestire il nostro spettacolo nel terreno di sua proprietà! Il Signor Grossi è un uomo parecchio influente in società».

«Per noi è una benedizione visti i tempi che corrono. Molte opere teatrali e attività circensi sono state censurate, ma il nostro, essendo uno spettacolo particolare non è ancora stato fermato, anzi attira maggiormente le persone» esultò una donna dalle morbide forme e con una lunga barba nera.

«Ovvio, siamo fenomeni da baraccone! Siamo Freaks!» parlò Cindy.

«Si, finora ci è andata bene… ma i nazisti potrebbero decidere di ucciderci da un momento all’altro proprio a causa della nostra diversità mostruosa» aggiunse un vecchio dalla barba bianca, al quale mancava un occhio nascosto da una benda nera.

Poi tutti gli sguardi si unirono verso la “cosa” fra le mani di Beppe.

«Cosa ci hai portato? Fammi indovinare… pane!» esclamò gioioso l’omone, leccandosi i baffi con l’acquolina in bocca.

«Temo non sia così» rispose Beppe, scoprendo un poco il fagotto.

«Oh…» fecero tutti in coro.

La donna scosse il capo e assunse un’espressione dura.

«Lo sai che non possiamo tenerlo!».

Cindy si fece triste e i suoi occhi si riempirono di lacrime:

«Ma non possiamo abbandonarlo! Fa freddo e non ha nulla di che nutrirsi! Non ha una mamma che gli offra da mangiare!»

«Troveremo senza dubbio qualcuno disposto a prendersi cura di lui o di lei, che abbia più denaro disponibile di noi» ribatté la donna.

Anche Beppe si commosse e le labbra tremarono, collegate alle lacrime degli occhi che erano sul punto di sgorgare.

«No, Beppe! Fatichiamo già in cinque. Viviamo di esibizioni e spettacoli e perciò non sempre il cibo è assicurato!» spiegò la donna, con tono autoritario ma un poco meno duro.

«Il bambino ha diritto ad una vita più agiata e meno problematica, che possa garantirgli tutto ciò di cui necessita. Cosa abbiamo da offrirgli noi? Cioè, guardaci!».

L’omone intervenne «tutto l’amore possibile, Theresa… e tanto divertimento».

 Ad uno ad uno, ogni artista del circo stava cedendo al fascino esercitato da quel piccolo esserino che stava a poco a poco diventando il centro del loro universo.

«Sostienimi tu, Karl!» esclamò Theresa disperata, rivolgendosi al vecchio in cerca di comprensione.

Karl aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

Dopo qualche minuto di profonda meditazione, Karl parlò:

«Io sono d’accordo con te, Theresa…».

Theresa era trionfante e raggiante poiché il proprietario della carovana e il capo della compagnia era Karl; perciò, la decisione finale spettava solamente a lui.

«Però non è detto che riusciremo a trovare una famiglia che decida di accudire il neonato, dato che negli anni di questo nuovo regime e tensioni con gli altri stati, tutti cercano di risparmiare e sopravvivere».

A questo punto, Theresa seppe di aver perso la propria battaglia e si rassegnò al volere dei propri compagni.

«E va bene! Ma non sarò io l’unica a preparargli da mangiare, a cambiarlo quando farà i bisogni e a cercare di farlo smettere di piangere nelle notti in cui ci lascerà insonni!» sbraitò la donna, provocando le risate degli altri quattro.

«Certo, Theresa!» annuì l’omone, chiamato Rosario «Io voglio occuparmi delle pappe! Sono un ottimo cuoco!»

Rosario prese il neonato dalla stretta di Beppe e lo abbracciò con calore.

Gli altri lo osservavano pieni di commozione, come se quell’avvenimento avesse in realtà portato una benedizione al loro gruppo famigliare.

I cinque amici erano di condizione assai modesta e si guadagnavano il pane intrattenendo spettacoli con il circo. Il periodo era assai duro: libri, cinema, teatro, attività ed opere contrarie al regime erano state censurate e i negozi ebrei erano stati chiusi. Ma anche l’attività circense si era molto ridotta e la gente aveva paura ad uscire.

Perciò, il denaro non circolava per molte classi basse della società.

All’ interno della carovana, Beppe era un abile giocoliere perché possedeva un braccio in più e aveva dimestichezza con spade, birilli, palline e cerchi; Cindy era un’agile trapezista che si arrampicava e saltava da un’asta all’altra fin dall’età dei cinque anni. Il suo corpo era particolarmente elastico e gli arti erano più lunghi della norma; Rosario era un uomo gigante che ingoiava sciabole e bastoni infuocati, destando ogni volta stupore ed entusiasmo nel pubblico; Theresa era acrobata e ballerina di flamenco, ma aveva la barba folta come un uomo. Ella affiancava Karl nei giochi di prestigio e nei trucchi magici.

Alcuni artisti si erano incontrati prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, mentre altri si erano uniti successivamente durante il suo corso e periodo nazista e da allora non si erano mai più separati. Insieme avevano sopportato mesi di miseria e sofferenza, facendosi forza a vicenda senza mai scoraggiarsi, senza permettere alla violenza di avere la meglio.

Cindy era la giovane nipote di Beppe.

Era rimasta orfana a tre anni e Beppe era il solo parente al mondo che ella possedesse. Cindy era una ragazzina davvero graziosa di tredici anni, ma si comportava in maniera molto più matura rispetto alla propria età. Conosceva tante cose, ma purtroppo non sapeva leggere poiché non frequentava la scuola a causa della guerra. Non assomigliava minimamente allo zio Beppe: aveva capelli biondi legati in due lunghe trecce e occhi azzurri, mentre Beppe era scuro e di origine siciliana.

Egli aveva incontrato Karl quando lavorava come mozzo su una vecchia e trasandata imbarcazione. Negli anni Venti, Karl aveva navigato un po’ in giro per il mondo in cerca di fortuna. Ma la vita era sempre stata dura nei suoi confronti, non permettendogli di arricchirsi. Così, aveva deciso di seguire le orme del padre, un ex finanziere caduto in rovina, che perciò si era dedicato alla professione di artista circense.

Un giorno, in viaggio sulla nave dove Beppe lavorava, sfruttato e affamato, Karl aveva intrattenuto un piccolo spettacolo e il mozzo era rimasto affascinato dalla vita del circo. Perciò, aveva supplicato Karl di prenderlo nella sua compagnia. Il vecchio aveva esitato poiché riteneva che un mingherlino con un braccio in più non gli sarebbe stato di alcuna utilità.

 Fu dopo qualche giorno di riflessione che Karl cambiò idea, ritenendo che la particolarità di Beppe avrebbe potuto arricchirlo e fargli fare carriera.

Così accettò la richiesta.

Da allora, Beppe non aveva mai più abbandonato il vecchio Karl e quella carovana era diventata la sua casa.

Poi, era stata la volta di Rosario: lavorando come cuoco presso la mensa di una scuola elementare, aveva perso tutto quando i soldati avevano bombardato l’edificio, uccidendo decine di studenti innocenti. Quell’atroce episodio aveva segnato profondamente e irrimediabilmente l’animo di Rosario, lasciandogli impressa l’immagine delle vittime schiacciate dalle macerie. Rosario amava quei bambini come fossero stati suoi figli e perderli era stato peggio che morire. Successivamente alla distruzione della scuola, l’uomo aveva vagato solitario per mesi senza una meta.

Karl lo aveva salvato quando, una notte, Rosario aveva deciso di farla finita ed era salito su di un ponte per gettarsi nelle acque sottostanti.

Rosario non aveva mai imparato a nuotare e aveva timore dell’acqua. Karl gli aveva imposto di riprendere in mano la propria esistenza e gli aveva ricordato che nella vita c’è sempre qualcosa e qualcuno per cui valga la pena di andare avanti. Perciò, Rosario nutriva grande stima e profondo rispetto nei confronti di Karl, il quale non solo era stato maestro di vita, ma anche un sincero e vero amico.

Infine, Theresa, si era confidata dettagliatamente solo con Rosario.

«Sono venezuelana di origine. Quando giunsi in Europa, lo feci su una nave in pessime condizioni igieniche» disse la donna barbuta.

Rosario le prestò attenzione e la fece sentire ascoltata.

«I miei genitori morirono di tifo poco tempo dopo il nostro arrivo. Ero molto giovane, si…».

Lo sguardo di Theresa era apparentemente duro, ma allo stesso tempo pareva che la sua pelle fosse sul punto di sgretolarsi a causa delle ferite emotive mai sanate. Era un vaso fragile, nascosto in un recipiente di acciaio.

«Mi rimboccai le maniche lavorando come domestica, cameriera, lavapiatti… Dio solo sa quante cose abbia dovuto sopportare per non patire la fame…».

L’ omone le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla in segno di conforto.

«Ora hai me…».

«Ho sopportato umiliazioni, soprusi e violenze a causa della mia barba e della mia pelle scura ma il peggio non fu questo…» la sua voce si spezzò.

«Cosa ti è accaduto?».

La donna gemette e le uscì un singhiozzo soffocato.

«Beh… una notte di inverno mentre stavo rincasando esausta nell’umile dimora che ero riuscita a comprarmi grazie a faticosi sacrifici, due soldati tedeschi mi fermarono. All’inizio si intrattennero solo a pormi qualche domanda sulla mia barba, ma ben presto lo scopo si era rivelato essere un altro. I due uomini mi sollevarono per trasportarmi con forza in un vicolo cieco, buio e freddo. Subii gli attimi più orrendi della mia vita: i due mi violentarono ripetutamente a turno, picchiandomi e trattenendomi immobile per impedirmi di fuggire. Mi posero un bavaglio sulla bocca e non mi lasciarono la forza di gridare e implorare aiuto, nemmeno quando mi abbandonarono nuda e sfinita sul marciapiede gelato. Ero completamente ricoperta di sangue e di lividi scuri, quando Karl mi trovò e iniziò a medicarmi. Credetti di morire e persi più volte conoscenza. E poi…arrivasti tu…».

Rosario le si avvicinò e le accarezzò i capelli, mentre Theresa affondò il viso nel suo petto.

*****                                                             

Con la nuova piccola arrivata, quella notte Beppe, Cindy, Rosario, Theresa e Karl fecero a turno per accudirla, dopo aver scoperto piacevolmente che si trattava di una femmina.

La pelle della piccola era chiara come i petali di una rosa oltre che morbida e profumata come una pesca. Sulla testa spuntavano ciuffi neri e gli occhi erano luminosi come zaffiri. La neonata si dimostrò tranquilla per quasi tutta la nottata. Pianse soltanto per ottenere una poppata di latte, che Theresa fu pronta a scaldare e a farle bere, cullandola fino ad addormentarla nuovamente. «Sarà difficile procurarci il cibo per lei…» bisbigliò Karl «Che può mangiare una neonata visto che nessuno di noi può allattare?»

Theresa rispose tranquilla:

«Non preoccuparti vecchio mio. Mi basterà arrostire un po’ di farina e mischiarla con dell’acqua per garantirle delle ottime pappe. Oppure del semplice latte o il pancotto o brodo di legumi. Vedrai, ci arrangeremo…».

Fu Theresa, dapprima contraria, a rassicurare i compagni sull’accudimento della bambina. Benché fuori il clima fosse ostile, dentro la carovana c’era calore e ognuno amava unirsi agli altri in quel dolce tepore, dimenticando il gelo invernale. L’ambiente era decisamente ristretto per poter ospitare cinque persone, alle quali se ne era aggiunta una sesta.

L’abitacolo era suddiviso in due stanze: aprendo la porta si entrava nel modesto soggiorno che conteneva un pesante tavolo in legno d’abete, accerchiato da cinque seggiole in vimini. Alla sinistra si trovavano il fornello e il lavabo; invece, sulla destra era stata sistemata la dispensa delle provviste e a ridosso della parete stavano i letti di Beppe e Rosario, su cui era ripiegata una sola coperta ciascuno. Dirigendosi nell’altra stanza, si potevano trovare gli altri tre giacigli: quello di Cindy con sopra una bambolina in pezza vestita da cameriera; quello di Theresa, sul quale era poggiato un quaderno di poesie ed infine il letto di Karl, messo in un angolo più distante.

Fra i letti delle ragazze e quello di Karl c’era un comodino con due cassetti e con sopra una lampada ed una sveglia. Accanto alla parete sinistra era sistemato un armadio, contenente gli abiti e i vari indumenti di ognuno. Per finire, un piccolo spazio per i servizi igienici ed un catino in legno per lavarsi erano chiusi dietro la porta di uno sgabuzzino delle dimensioni di un metro quadrato.

Se ci si fosse voluti sciacquare sarebbe stato necessario riempire il catino con secchi di acqua raccolta dai pozzi o dalle fontane in cui ci si imbatteva durante gli spostamenti per poi scaldarla sul fornello. Fortunatamente, in quella città avrebbero potuto far affidamento sul Lago.

Il gruppo viaggiava molto e aveva percorso parecchie strade, visitando le più belle città italiane ed europee. Però, con l’intensificarsi della guerra e degli attacchi da parte dei soldati nazisti non era più stato possibile muoversi liberamente a causa dei posti di blocco.

Attualmente, la carovana si era arrestata in una graziosa cittadina del Nord Italia: Como. Il Duomo imponente e quasi completamente costruito in marmo costituiva il simbolo dell’intera città e vegliava dall’alto sui cittadini, i quali erano fieri ed orgogliosi dello splendido monumento. Vicino al lago soffiava un forte vento, che filtrava in mezzo alle vie come un’ombra fugace, raggiungendo la piazza.

Il mattino seguente, quando Cindy si alzò e decise di spalancare una delle finestre che guardavano verso il Duomo, la neve aveva raggiunto un’altezza impressionante.

La ragazzina corse all’armadio e indossò un caldo maglione, i guanti, la sciarpa, la calzamaglia e gli stivaletti per precipitarsi di fuori. L’aria era ghiacciata ed era possibile vedere il fiato emanato dalla bocca per respirare. Cindy era particolarmente allegra e ottimista: era come se percepisse che quella giornata si sarebbe rivelata ricca di nuove emozioni e sorprese. La sua esuberanza era anche giustificata dall’inatteso arrivo della piccola, la quale significava un radicale cambiamento ed una decisiva svolta per l’intero gruppo circense.

La ragazzina non volle svegliare i propri amici e perciò decise autonomamente di incamminarsi e iniziare la giornata andando dal fornaio ad acquistare un po’ di pane e dal lattaio. Era certa che il latte avrebbe ben presto sostituito il pane come alimento più richiesto in famiglia, a causa delle numerose poppate che faceva la piccola.

Sebbene fosse molto presto e il sole illuminasse appena i tetti innevati, la gente era già attiva e tutti si affrettavano a compiere le commissioni. C’era chi prendeva l’automobile per andare a lavorare; chi accompagnava i figli più ricchi e benestanti a scuola; chi spalava le strade e spostava la neve accumulata davanti alle vetrine; chi apriva i negozi e chi ultimava di decorare gli alberi ed i monumenti con addobbi natalizi.

Cindy entrò dal fornaio, Pietro Gastone, il quale la conosceva e ormai la considerava una cliente affezionata.

Quella mattina, egli seppe della buona novella che riguardava la neonata. Così, decise con grande gioia di contribuire alla felicità del nuovo arrivo, regalando a Cindy cinque bei pezzi di focaccia calda appena sfornata. Lo stesso fece il lattaio Giovanni Mandorla, il quale donò alla ragazzina tre bottiglie di vetro piene di latte fresco.

I passanti che conoscevano Cindy e che la videro così eccitata, mentre tornava alla carovana, le chiesero quale fosse il motivo di tanto entusiasmo e nel giro di poche ore, ogni cittadino del quartiere era venuto a sapere del ritrovamento della piccola.

Non appena Cindy fu rientrata, trovò gli altri seduti a fare colazione.

La ragazzina dispose il pane e le cinque focacce sul tavolo e diede a Theresa il latte.

La piccola dormiva ancora fra le tre braccia di Beppe, il quale la cullava teneramente con estrema dolcezza.

«Dovremo darle un nome» esclamò all’improvviso Rosario.

Gli altri quattro volti si illuminarono. Ognuno si mise a pensare e a macchinare con il cervello, spremendosi le meningi.

Dopo qualche istante, Theresa parlò:

«Che ne dite di Caterina? Mi è sempre piaciuto ed è un nome grazioso per una bambina».

Karl scosse il capo, visibilmente contrariato:

 «Neanche per idea! Sembra il nome di una civetta».

Cindy rise divertita, ma Theresa sembrò essersi offesa seriamente. Forse quel nome racchiudeva un significato importante della sua vita:

«Era mia sorella…».

«Io sarei più propenso a chiamarla Lucia. Oggi è il tredici dicembre: il giorno di Santa Lucia» spiegò il vecchio, mostrando la data sulla sua agenda personale.

«Che monotonia!» intervenne Rosario, cominciando a trafficare con varie tazze e pentolini e versando il latte in uno di essi a scaldare sul fornello.

«Ci sono un sacco di donne che portano questo nome. È troppo comune! La bambina è speciale e tale deve essere anche il suo nome» sbraitò l’omone, sorridendo alla piccola, come si fosse trattato di un angelo.

«Potrebbe chiamarsi Angelica. Guardate! Sembra un angioletto di Natale!».

Mentre parlava sbatté le mani, eccitato e contento.

Rosario pareva aver tratto un vero benessere e aver ricevuto una grande benedizione con la venuta della neonata. Egli amava i bambini e desiderava proteggerli, percependo costantemente un peso nel cuore mai svanito del tutto, poiché si sentiva in colpa per essere sopravvissuto all’attentato della scuola elementare, a differenza dei piccoli studenti, i quali non avevano fatto ritorno a casa.

Cindy si fece avanti per esprimere il proprio parere:

«Credo che “Angelica” sia un nome carino, ma che ve ne pare di Margherita o di Clara?». «Suvvia, Cindy! Non è mica un fiore!» sbuffò Beppe «Io sono d’accordo con Rosario: Angelica è un nome realmente splendido e rispecchia perfettamente la bellezza della bambina».

Theresa fece spallucce e alla fine annuì, anch’ella favorevole al nome scelto dalla maggioranza. «Cindy? Karl? Va bene per voi?» domandò Beppe, rivolgendosi ai due perché acconsentissero e non fossero contrari.

Alla fine, “Angelica” fu il nome approvato da ogni singolo membro del gruppo, senza alcuna eccezione. L’ispirazione di Rosario si era dimostrata vincente, poiché da subito, la piccola parve felice di sentirsi chiamare in quel modo, donando a chiunque le parlasse tanti sorrisi e simpatici gridolini.

Angelica costituì il dono natalizio più speciale, portando tanta gioia e serenità all’interno di quell’insolita ma bellissima famiglia.

Nonostante il denaro non tintinnasse nelle tasche di Karl, Beppe, Rosario, Theresa e Cindy, gli amici erano soddisfatti della semplice vita che conducevano giorno dopo giorno ed erano assolutamente formidabili nell’offrire ad Angelica tutto l’amore di cui erano capaci.

*****

Venne il giorno di Natale. A differenza delle settimane precedenti, che avevano visto un clima rigido, la giornata si presentò più mite ed un tiepido sole sciolse molta neve.

La mattina, Cindy si alzò di buon’ora come spesso accadeva e si avvicinò alla culla, accanto al letto dove dormiva Theresa.

Angelica teneva gli occhi aperti e sorrideva beata, mostrando le gengive prive di denti. Cindy sorrise a sua volta di fronte a quel buffo particolare e, con grande delicatezza, sollevò la bimba per prenderla in braccio. Cautamente la avvolse nella sua copertina di lana azzurra, scompigliando le lenzuola del letto ed aprì la porta per entrare in cucina.

Prese del latte dalla dispensa, stappò la bottiglia e lo mise a scaldare sul fornelletto a petrolio. Quando il latte fu pronto, lo versò in un biberon di vetro che aveva comprato appositamente per Angelica e le fece bere tutto il contenuto.

Poi, se ne versò per sé in una scodella di legno e lo bevve, pucciandoci un tozzo di pane raffermo. Non desiderando svegliare nessuno, Cindy uscì sola insieme alla neonata, allontanandosi dalla carovana.

Le vie della città erano in piena festa: di fronte al portone del Duomo, un coro di voci maschili e femminili e alcuni musicisti avevano iniziato ad intonare un canto di Natale con l’accompagnamento di violini e flauti.

Diverse persone appartenenti alla nobiltà passeggiavano, scambiandosi auguri e pacchetti regalo e tanti altri si stavano dirigendo in Chiesa, per assistere alla Santa Messa.

Ma questo clima festoso venne bruscamente interrotto quando si fece ora di pranzo.

Un gruppo di soldati nazisti si raccolse in piazza del Duomo, attorno al capannello di gente che si era fermata per ascoltare la musica. I tedeschi cominciarono a schernire l’orchestra e a pronunciare insulti nella loro lingua. La melodia si arrestò ed i volti delle persone assunsero il colore pallido della neve.

Cindy si era nascosta all’angolo di una via, in tempo perché i militari non la vedessero e osservò la scena con le lacrime agli occhi. Il terrore si leggeva chiaramente nei volti di tutti i presenti, i quali non sapevano se quel giorno fossero stati liberi di tornare nelle proprie case per celebrare il Santo Natale in famiglia.

Un soldato sfilò il bastone da passeggio dalle mani di un anziano, facendolo cadere con la faccia nella neve. Una signora molto elegante, vestita con un tailleur color verde smeraldo, lanciò un debole gridolino. Il soldato parlò in italiano, rivolgendosi sgarbatamente alla donna:

«Che hai grassona? Gemi per questo povero e inutile vecchio?».

La signora tremò e abbassò lo sguardo, tentando di nascondersi tra la folla. Un altro militare si accostò ai musicisti e intimò loro di suonare e continuare il canto natalizio interrotto a metà.

Essi obbedirono spaventati, ma l’uomo che stava suonando il violino, emise per sbaglio un suono straziante con lo strumento, che fece venire la pelle d’oca al caporal maggiore nazista.

Con espressione maligna, fissò il violinista da sotto le sopracciglia folte e bionde e gli sputò dritto in faccia. I compagni esplosero a ridere senza pudore, emanando versi bestiali e vergognosi.

Un bambino scoppiò in lacrime, evidentemente intimorito dal fracasso e dalle grida. Il caporal maggiore che aveva sputato in faccia al violinista cacciò un urlo avvicinandosi all’orecchio del bambino, il quale piangeva disperatamente fra i singhiozzi, aggrappato alla gonna della madre. La madre era immobile e non sapeva come difendere la propria creatura, temendo una violenta reazione da parte del soldato.

Egli afferrò il bambino, strattonandolo per il colletto della giacca e lo trascinò al centro della piazza. La donna emise un rantolo soffocato e le fu imposto di affiancare il figlio. La stessa tremenda sorte toccò anche al talentuoso violinista, alla signora elegante e al vecchio. In fila uno di fianco all’altro, in scala di altezza, fu loro ordinato di denudarsi completamente e di sciogliersi pezzi di neve ghiacciata sulla pelle.

Al vecchio, il quale faticava a capire e a eseguire gli ordini, vennero date tante frustate e bastonate, che lo stordirono e lo riempirono di lividi.

Cindy non tratteneva più le lacrime, che colavano ininterrottamente sulla copertina che riscaldava Angelica. Luci e decorazioni non riuscivano più ad infondere armonia nei cuori, né la candida neve che aveva cominciato a venire giù lentamente dal cielo e neppure due cagnolini che si muovevano in un angolo della piazza, facendo tintinnare le campanelle che pendevano sul loro collo.

Lo spettacolo durò troppo a lungo e il bambino cominciò ad assumere sulla pelle un colore rosso acceso, poiché gli stavano venendo i geloni su tutto il corpo. Il suo pianto era straziante. Il caporal maggiore estrasse una pistola dalla tasca della divisa militare e la puntò sulla tempia del bambino. «Guarda!» intimò alla madre, sparando un colpo.

Le ginocchia dell’innocente creatura cedettero ed il suo corpicino cadde con un pesante tonfo a terra, colorando la neve di sangue rosso scuro.

La donna urlò con tutta la propria voce: quel suono stridente di rabbia e dolore giunse dalla profondità delle sue membra.

Ma tanta sofferenza fu immediatamente repressa, perché un altro proiettile sparò fuori dalla pistola, bucando una tempia della donna e conficcandosi in essa. La donna precipitò come un masso sopra il corpo del figlio morto.

La strage non era ancora conclusa perché uno ad uno anche l’elegante signora, l’abile violinista e l’anziano furono uccisi con la pistola, aggiungendosi ai primi due.

Il sangue era schizzato sugli abiti della folla mentre, fra risa animalesche, i soldati salirono sul carro armato e si allontanarono, per poi arrestarsi ancora. L’oblò si aprì ed il caporal maggiore mise fuori la testa, ruotandola per guardare la carovana con occhi famelici e vogliosi di proseguire la violenza.

Ma le campane iniziarono a battere i dodici rintocchi ed egli parlò in tedesco con i compagni di grado inferiore:

«Ho fame. Per oggi il nostro compito è terminato!»»

Con il fiato corto, Theresa, Beppe, Rosario e Karl uscirono nella piazza non appena si furono accertati che gli assassini li avessero realmente abbandonati. Theresa si precipitò sulle vittime, cedendo ad un pianto disperato, mentre Rosario si inginocchiò e si accasciò sul corpo della madre con il bambino. Beppe e Karl non piangevano, ma osservavano.

I cadaveri furono spostati e radunati per la sepoltura il giorno seguente.

Quando Rosario vide spuntare Cindy ed Angelica sane e salve, trasse un lungo respiro di sollievo, ma si scagliò furibondo sulla ragazzina:

«Chi ti ha dato il permesso di uscire sola senza avvisarci e per di più di portare Angelica con te?». Cindy si scusò, profondamente scossa e sconvolta.

Volendo mantenere la calma dopo un avvenimento già in tal modo toccante, Beppe intervenne: «Non essere duro amico. Anche qui nella carovana non sarebbero state al sicuro più che di fuori. Avete visto che rischio abbiamo corso?»

Fu Karl ad annuire e aggiunse:

«Purtroppo, è così. La carovana attira troppo l’attenzione. Perciò dovremo andarcene».

Cercando di rendere, per quanto possibile, un po’ migliore il resto della giornata, Theresa e Rosario si armarono di cucchiai, padelle e ingredienti utili per cucinare un minuscolo polletto.

Il pollo fu pronto per il Cenone e i cinque amici si radunarono attorno alla tavola decorata con tovaglioli di pizzo, ricamati da Theresa, piatti di legno e bicchieri in vetro opaco. Al centro fu sistemata una Stella di Natale in un vaso di rame ed una candela al fianco.

Karl, Theresa, Beppe, Rosario e Cindy divisero il pollo in porzioni uguali e se le servirono accompagnate da qualche pezzo di pane, un po’ di focaccia ed un bicchiere di latte ciascuno. Anche Angelica bevve con gusto la propria poppata di latte e poi si addormentò subito con il volto splendido e beato.

Quando tutti ebbero ultimato la cena, si coricarono stanchi ed esausti nei propri letti. 

Karl fece un sogno: vide il ricordo del figlioletto e la moglie strappati precocemente da un’epidemia di colera, proprio il giorno di Natale di molti anni prima.

CONTINUA

ARGENTIUS di Elisa Panunzio (prima parte)

genere: FANTASY

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