ÁSTRIÐRR E LA NASCITA DEL TEMPO di Vanessa Maggi – Seconda edizione
Il cuoio logoro degli scarponi, imbibiti fino all’orlo, aderisce a tal punto, che la pelle dei polpacci procura una spiacevole sensazione di bruciore. Soffi d’aria ghiacciata fendono il viso madido, come lame affilate, e le ciglia, intorpidite da crisalidi di calaverna, divengono stalattiti di ghiaccio. Il corpo indolenzito procede a rilento, i piedi sommersi nella neve. I fiocchi sospinti da raffiche incostanti sono presto inghiottiti dalle crepe delle labbra arse, e sembra impossibile scorgere il sentiero, poiché attorno la nebbia rimescola e scompagina il mondo. Col fiato corto, e la gola raggelata, un senso di vertigine l’assale, sedato da echi di tamburi e tintinnii argentini di ossa di renna, rigurgitati dalla memoria. Il pesante fagotto, trainato a fatica, sospinge le gambe, sempre più instabili, nel folto strato di fogliame bagnato, una sabbia mobile che inabissa, mentre la massa bionda scarmigliata sgocciola sulla schiena, e disperde il tepore conquistato a fatica, nella pelle di renna. Avanzando, tratti di bosco si schiudono alle fessure affilate degli occhi, e finalmente scorge uno spazio rado, di abeti e betulle. La scure, rimossa dall’involto, è ora putrida e sembra pesare di più, mentre taglia e affastella la legna nel cumulo: un lavoro faticoso da uomini. Alonandola di turchino, pian piano la coltre azzurrognola l’avvolge e l’accarezza, come un abbraccio tiepido, mentre sospinge la nuca all’insù, oltre i fusti di scaglie nere e le fronde di smeraldo; una corona fitta di alberi, che lascia aperto l’oculo, lassù, dal quale si fa breccia una timida luce paglierina, accolta presto dal volto. Più in là, un barbaglio lontano filtra forse una speranza: un’opportunità di raccolti copiosi per la prossima stagione. I contorni delle cose, fuori, illanguiditi dalla bruma e scossi dalla bufera che incalza, sfumano in una luce bigia, che pare eternare e trattenere il tempo.
Dopo aver riposto i tronchi nel manto di pellame, si accoccola stropicciando la pietra focaia per ardere il rogo, e ringraziare gli dei. Nello spiazzo l’aria umida porta adesso un odore nauseabondo, un sentore di pelo bagnato, di orina, di fango e di sangue rappreso. Ululati distanti si appressano, rimescolati dal muggire del vento e dalla burrasca. Eppure, racchiusa in quell’involucro ovattato, non percepisce l’imbrunire approssimarsi, e si assopisce, mentre il tempo si dissolve nel nulla.
Nel sogno, immagini sbiadite di aghi frastagliati, spasmi di muscoli tesi nello sforzo, mentre impavida,ghermisce avanzi di carne cruda dall’involto, per donarli alle fauci affamate; poi, impugnata una scure, coi polsi palpitanti, smania di fenderne gole, per la propria resurrezione. Man mano, avverte un mutamento: il manto pungerle la pelle, lo sguardo che si dilata, i denti che s’arrotano. Si osserva inoltrarsi nel bosco, svincolata dai suoi precedenti movimenti, a fiutare e ululare, uno stridio antico che riconosce come suo; e le orme, di zampe che si bagnano nella neve, circospette, a desiderare quell’avanzo sanguinolento, mentre annusa esalazioni di preda nello stomaco vuoto.
Destatasi di colpo, avverte quegli scalpiccii farsi prossimi, sollevarsi tra le fronde. Trattenuta in un blocco di terrore, le gambe spingono verso il fondo melmoso e gelido, dove cade ginocchioni, circondata da un branco che incede sulle sue orme molli, e affila i denti, ululando di piacere.
All’esterno, oltre filari di frassini bui, il cielo si oscura lentamente, inghiottito da strie venate di porpora. A tentoni, tremante, nel ricordo suggerito dal sogno, afferra i brandelli che scaglia in più direzioni, provocando un tumulto generale, poi stringe le ossa, e ne tasta, con le dita agghiacciate, le incisioni. Con un lieve scampanellio intona suoni sottili che placano le bestie, mentre tutt’attorno l’aria, prima densa di muschio, è ora pervasa di un odore nuovo: di paura. Imperlata di sudore raggelato, emette guaiti che irretiscono e spingono i lupi alla fuga, quindi trova il coraggio di riunire le forze, benché i movimenti siano rallentati, e avanza in un territorio ormai caliginoso di confini smaltiti, trattendo il respiro, il cuore in tumulto, ché dappresso l’approssimarsi dei guaiti si fa ancora una volta palpabile. La raffica sbuffa e solleva tronchi e avanzi di boscaglia, che feriscono la pelle e penetrano nelle iridi, le dita irrigidite più volte si disfano del fardello, e ancora lo raccolgono, indolenzite.
Riverberi di luna piena si espandono sul corpo, una sagoma biancastra che vaga a rilento nell’oscurità. Il percorso angusto oltre il bosco è sempre più prolungato e rabbuiato, e, schiacciata dalle forze allo stremo, s’accascia cadendo più volte, animo e corpo come unità indistinte: ghiaccio nel ghiaccio. Sulla via del ritorno, punta lo sguardo alla sfera magica lassù, nel cielo buio, e invoca una litania ancestrale sussurrata dagli antenati, per il dono di una rotta bagnata di luce. Con i muscoli aggranchiti si muove a stento nell’aria congelata, mentre celebra, in un farfugliare sommesso, gli dei, gli spiriti e le ombre, gli elfi, i satiri e gli alberi sacri, recitando versi di rune.
L’indomani è assicurato da una luce tiepida che riscalda le assi della malga. Sul ballatoio il legno scricchiola sotto lo scalpiccio impaziente di Björn, che sbraita con veemenza, perché ambisce il legname. L’aria è sottile, lattea, aspersa di sole. Piegato, sotto il peso della vecchiaia che preme, e delle ferite che squarciano la schiena, intarsia i legni, mentre un filo di luce gioca coi riccioli della barba canuta e coi capelli scarmigliati, caduti come trucioli sulle spalle. Quando si piega, il ricordo è rinnovato dal dolore atroce, come se fosse appena trascorso quel giorno, quando nella lotta furente contro il lupo, una notte di luna piena, fu scagliato nel fitto bosco, ove rimase a lungo, lasciandosi i giorni alle spalle. La sagoma, smossa dai nervi, si profila all’ombra del tetto, mentre si alza per impugnare il bastone di frassino, fremente per il ritardo. Sotto il pendio aquilino del naso, le labbra ritorte in una smorfia, non lasciano presagire nulla di buono. Ástriðrr simula disinteresse, ammucchiando in tutta fretta i ceppi nel fumaiolo, mentre quello strepita a gran voce: «Non avresti dovuto rimanere così a lungo!», scostando col braccio perle di sudore dalla fronte. «Lo so, padre», ammette lei tremando un poco, trattenendo un singulto, e a fatica alitando sulle braci. «Sono stata trattenuta», incalza poi, per ammansirlo. Quindi, benché ricoperta di cenere, si precipita verso il letto, rincantucciandosi nelle pelli d’orso, sfinita, le mani penzoloni che si lasciano accarezzare, inoperose, dalle curve e dai sobbalzi di Feima, la gatta nera dagli occhi di cristallo, che gnaula di piacere al tocco tiepido delle dita, addolcite adesso dal tepore. Stremata, si addormenta al fuoco asperso di erbe, che accendono il buio della baita, baluginando come fiaccole, riverberi di sfere luminose sulle pareti, che trascinano in sogni senza fine.
Il giorno dopo, annunciato da un chiarore pallido filtrato a stento dalle lame degli scuri, il risveglio trova ristoro nella zuppa calda di galamost sciolto, e dal cuore di cervo violaceo, fumante nel piatto, condito con licheni e marmellata di mirtilli. Il vecchio si sperimentava, talvolta, in quelle ricette antiche che cambiava, non essendo avvezzo ai fornelli, come invece sua moglie, che imbandiva conserve di zucchero e spezie, e il lutefisk salato dei mari, maestra non soltanto di rune. Ástriðrr le doveva tutto, persino quel nome divino di una stella, e adesso, con gli occhi tumefatti di lacrime, la rimpiangeva. Björn, inasprito dalla perdita, solo e incupito dal tempo, ogni tanto dissimulava il vuoto di una nostalgia perduta, sbraitando e ferendola con parole aspre, mancandole d’ogni riguardo, nonostante celasse, con l’orgoglio, un cuore mansueto, e un carattere talora addolcito dalla sapidità delle pietanze e dal miele, leccornie che allestiva per lei, come a chiederle perdono. La madre aveva elargito doni importanti, prima di partire per quel lungo viaggio, dal quale non avrebbe fatto ritorno, inerpicandosi sulla montagna sacra, del dio ghiaccio, e di Lug, quel dio distate dal mare, di cui antiche genti avevano riferito come astro luminoso tuonante nel cielo, stella tra le stelle, e i cui rituali, dal potere straordinario, la madre aveva appreso dalle rune scalfite nella pietra. Ora spettava a Ástriðrr salire su quel trono, la sedia sacra su cui era solita accomodarsi la genitrice, narrando leggende di mondi occulti e genti lontane.
Sugli intagli, i racconti delle rune scorrevano al palparne i rigonfi, gli incavi, tra petali e intrecci di draghi, scolpiti come sugli antichi rostri. Determinata a imbastire un abito di pelli e un copricapo di piume, per il suo primo rito propiziatorio al solstizio d’inverno, Ástriðrr si persuase all’idea di aver sedotto il branco inferocito, e, senza nulla proferire al padre, mormorò le antiche suppliche, un dono che andava ancora ammaestrato.
Björn, incollerito dai ricordi fugati che laceravano ancora il cuore, ripensava immalinconito alle trecce biondo rame, e agli occhi di foresta ammandorlati, sul volto splendido e largo di latte, dell’amata sposa Arndís. Di quando la cingeva tra le braccia, vigoroso e forte, prima d’avventurarsi nei boschi per giorni, trainato da slitte di cani fedeli, per reperire cervidi e altra selvaggina. Alla sacerdotessa competevano le somme divinazioni alle lune, poiché la piccola, ancora non aveva il potere di replicare, o perlomeno così lui supponeva.
Nei ricordi di Ástriðrr, la madre, avvolta nella veste bianca, comunicava col regno animale e gli spiriti dei boschi; il volto ora come un miraggio, eburneo, rifratto adesso nel vetro brunito, quando si rimirava: la stessa mascella decisa, le medesime labbra scarlatte, lo sguardo fondo, che per lei aveva serbato cieli di zaffiro.
Quella sera avrebbe indossato la corona di palchi di cervo, esattamente come sua madre, vestale di luna piena e di ghiaccio polare, per il rito della notte più lunga, il cui ingresso bisognava onorare. Si accinse a colmare l’aia con cataste e pire che avrebbero rischiarato l’empireo, narrando di misteri sepolti. Attorno alla malga, creò recinti di fiaccole e ceri per illuminare la notte, rievocando le origini di cui andava fiera, che quei gentili nominavano “paganesimo”, osteggiandolo con massacri efferati; quegli stessi invasori increduli, che cinti d’alloro e ammantati di porpora, rapirono sua madre nel viaggio incauto. Eppure Odino s’era pronunciato, e sotto l’albero sacro Yggdrasill, lei aveva riposto il suo nome nelle rune, e quella notte avrebbe mantenuto la promessa: celebrare la Nascita del Tempo. Su una pergamena, la madre aveva indicato rappresentazioni rituali di magici cerchi e disegni, istruendo su erbe curative e pozioni; cosicché lei avrebbe incantato gli abitanti dei mondi sotterranei e dei cieli, gli spiriti e i numi, osannando Madre Natura.
Da giorni si provava ad allestire la tavola di vivande d’ogni tipo, licheni e crema di renna, lutefisk e salmoni affumicati sotto legni ardenti, e fårikål di capra, la testa mozzata apprezzata dalle divinità, e dagli elfi dei boschi. In soffitta il liquido coagulava, intanto, occultato sotto gli scuri, per non svelare il segreto al padre, custodito dal nisse, l’amico elfo di casa.
Il giorno dopo fece ritorno al bosco, inerpicandosi sul percorso stretto di rocce acuminate, inalando l’aria rarefatta. Tentò di rintracciare bacche di vischio per la corona, e agrifoglio e erbe per i decotti: quella sera le avrebbero assicurato l’estasi, la trascendenza. Frantumò con la selce una mistura amara che trangugiò d’un fiato, e improvvisamente, capì d’esser stata rapita, avvinta da una forza misteriosa. Divenne aquila, volteggiando ad ali spiegate, la vista diluita sotto il becco, e il collo nervoso di scatti, sorvolando un’infinità di foreste selvagge, di abeti, di frassini, e querce, e poi pendii d’aceri e tigli, e laghi sommersi in cui rispecchiarsi, crinali abitati da cervi dai palchi enormi, e sulle sommità di alture frastagliate, oltre le cime innevate, scorse le dimore degli dei, con mandrie di renne, e volpi che inseguivano lepri. Planò, ghermendo d’istinto una preda, e furono attimi interminabili, mai percepiti così vitali, permeati da un’energia primordiale. Riconoscendosi quale elemento indispensabile nell’atto della creazione, scoprì un confine invalicabile fatto di linfa, piacere, e pura esistenza. Finì frastornata su di un prato punteggiato di fiori, un tappeto madido e verde, che carezzò lievemente le abrasioni dei seni, scorticati nella lotta con la preda, e si riscoprì nuovamente donna, le vesti lacere, i piedi melmosi. Sfregandosi le palpebre, resa cieca dalla vista sgranata di volatile, scorse a stenti un atro, una grotta oscura che decise di valicare. Penetrò a brevi passi, indugiando sulla soglia, voltandosi ancora un poco indietro, investita da un sole che fuori abbagliava, giù, oltre il dirupo, dove una distesa primaverile bagnata di luce si schiudeva allo sguardo, ristorato in penombra: uno sbocciare di primule e papaveri rossi, e verdi prati, certamente di un distinto mondo, oltre i confini del tempo. Nell’antro cupo, scorrendo le dita sulle pareti aguzze umettate di stille, si spinse coi piedi sdrucciolando sulla roccia, e, attraversando l’andito, sempre più tenebroso, raggiunse finalmente uno spazio riposto. Percepì un fiato cupo. Assiso su di un trono intrecciato da impalcature cornee, con lo scettro puntato verso la tetra volta, ad attenderla c’era Alfarinn, il re della montagna. Tentennò, terrificata, eppure, smaniosa di conoscerne le fattezze, si avvicinò percependone la presenza, occultata nell’ombra. Tastò a più riprese i lineamenti, che raggiungevano la vista e la mente con immagini frammentarie e annebbiate; quindi le palpò ancora, figurandosele man mano, come costituenti di un volto mostruoso, tutto bitorzoli e crespe. Di scatto, fu presto abbrancata da una stretta mortale del braccio, e, colta da un panico che torceva le viscere, le vene avviarono a pulsare sotto i polsi e nella gola. Stretta da un destino che sapeva ormai irremovibile, si avvide, mesta, di dover accogliere gli inevitabili termini di quella prigionia, e si prosternò al cospetto del mostro. Poi, in un baleno, con l’acume che agognava libertà, simulò un’offerta, e, raggiunta la bisaccia lacera che penzoloni giaceva alla cintola, gli porse l’unguento residuo. Ma un orrendo gorgheggio fuoriuscì dall’ugola dell’essere deforme, antico come il tempo, il quale comandò di seguirlo e di rendersi finalmente docile, tanto quella sarebbe stata ormai la sua inevitabile sorte. Approdata all’esterno del mondo degli uomini, avrebbe vissuto all’est, dimora dei giganti, un luogo chiamato Jǫtunheimr: l’avvenenza l’aveva tradita, e poi, imprigionata.
Così Ástriðrr cadde in reclusione di un’era letargica che durò eoni, trascorsi nella tenebra, ammansita e narcotizzata dall’orco. Intanto Björn, dopo alcune ore, non vedendola tornare s’allarmò, giacché il tempo laggiù, nell’altro mondo, scorreva lentamente, e temette, intuendo dal disegno delle rune, che però non sapeva interrogare, che il cuore gli si sarebbe spezzato di nuovo. Poche ore pilotavano al tramonto, così salì sulla balconata traballando sulle travi sconnesse e s’allungò in un’occhiata a volo d’uccello, poi discese il colle e si spinse oltre la scarpata, gridando più volte il nome della giovane. «Insensata», strepitò sul sentiero, rivolgendo adesso la collera agli agnelli, che belavano ignari, mentre s’accingevano a brucare. “Si sarà trattenuta ancora nel bosco, quella dissennata?”, pensò tra sé, volgendo le spalle alla scarpata, poi, procedendo con passo malfermo verso la stalla, si chinò con sforzo ad afferrare un panchetto, raggiungendo le giovenche, che attendevano trepidanti il tocco delle dita nodose, delicate nella mungitura. Sempre più impensierito, col passare delle ore paventò il peggio, poiché sapeva la foresta infestata da lupi, e si arrischiò di nuovo oltre la staccionata, stavolta con più contrizione, chiamandola a gran voce, ma a quel nome nessuno rispondeva, e soltanto un’eco sorda risuonava nella valle.
Dall’altro capo del mondo, secoli bui trattennero la giovane in quel ventre tenebroso, sedata, finché, dimentica di tutto, a un tratto, colta da un bisbiglio, un fruscio delicato come un battito d’ali, si sentì inebriata, avvolta da un profumo di gelsomini e di rose. Udì quell’eco attutita, suonare come un vagito neonato, distante, appena percettibile, e lo riconobbe, risvegliarle la coscienza e la memoria di una vita passata. Una lacrima raggiunse le altre, scivolando sulle labbra dal sapore di sale. Avvedutasi di tutto quel tempo trascorso, provò uno sconforto sconfinato ma si destò, improvvisamente, e, in un baleno, pervasa da una nuova contentezza, sperò nel desiderio irrealizzabile. Immaginò di ricongiungersi al padre, di cui, forse per la prima volta, comprese l’ampiezza dell’amore.
Corse, rapida come il vento, slegatasi come per incanto dal sortilegio, e, precipitatasi dal dirupo, oltre la cresta rocciosa, incurante delle ferite e della morte, ruzzolò sui ciottoli acuminati, scivolando verso valle per innalzarsi istantaneamente e librarsi in volo, le ali piumate nuovamente solide, spianate a seguire il vento, affrancata dalla morsa del mostro, che invano la inseguiva, con grugniti terrifici.
Approdando sul sentiero innevato, opalino, gli artigli già palpitanti di dita, penetrò nella selva di fusti torreggianti, e fu conquistata da odori familiari di pino e borraccina. Avvolta dall’atmosfera rosea del vespro, che incantava nella bambagia soffice, ripose nella bisaccia gli averi dispersi nel volo, riconquistati per miracolo. Erano stati serbati per lei da sua madre, condotti fin lì dalle conquiste per nave di Dagfinnr, nelle terre remote d’Oriente, dimore di capri, di cimbali, e di menadi folli. La veggente aveva ricevuto spezie, ori e stoffe seriche, e i misteri di quegli antichi riti, insolitamente accolti dal suo popolo, per novelle figurazioni runiche e rituali. Ástriðrr predispose la pira e cantò e volteggiò, ringraziando gli dei per l’esistenza che Madre Terra le aveva restituito, sentendosi di nuovo tutt’uno col mondo, con il suo popolo, con sua madre. Tinse di cenere il volto, e invocò le stelle e la luna, per orientarsi su un sentiero di luce nel bosco.
Finalmente raggiante, per aver ritrovato la figlia, scampata all’orrendo destino, Björn stavolta le risparmiò i rimbrotti e riversò anzi, su di lei, amorevoli considerazioni. Assieme condussero una vita spensierata, spesa nella cura degli animali e della piantagione alla fattoria, e a sera, tra vivande bollenti e racconti, narrati al tepore del camino. Giunse alla fine il momento della notte senza luce. Ai fornelli, Ástriðrr fu pervasa da una penosa angoscia, mentre rimescolava le pozioni e predisponeva la cena; di là, la tavola, ancora da imbandire, e l’ansia che stringeva come una morsa: forse non si sentiva ancora pronta. Eppure, spronata da Björn, recitò le rune, ché gli invitati avrebbero fatto il loro ingresso, per poi ritornare nei mondi sotterranei, dai quali erano giunti; ma quegli “altri”, spiriti oppure ombre, temeva avrebbero potuto irretirla, paventando una vita soggiogata, cui non intendeva ritornare. Sorvegliò oltre l’uscio schiuso, mentre bagliori lunari sfarfallavano nell’aria buia, a tratti, e il tempo pareva serrato in uno stillicidio di attimi, una sospensione prolungata, da sembrare eterna. In agguato, a tergo della parete intagliata, udì finalmente un fragore risuonare oltre la porta, più feroce d’un branco di lupi o di orsi affamati. Erano in molti che già saettavano, ballonzolando sulla tavola con grugniti e schiamazzi, mentre qualcuno più ozioso, si era assiso a trangugiare. Quel ciangottare stridente e i tamburi che crepitavano grevi, straziavano i timpani; narravano gesta di uomini uniti agli dei, intonando una musica fonda e arcana. Vegliò a lungo, ore che sarebbero sbiadite soltanto l’indomani. Poi, al momento opportuno, inghiottì d’un fiato l’intruglio, e, raccolta l’aria in gola, ebbra, si trasfigurò in una luce crepuscolare. Ispirata, avvertendo le intenzioni degli ospiti, sentì di potersi fidare: «Benvenuti, amici!» proruppe, col cuore in tumulto, un tuono nel petto. Con le nacchere d’ossa produsse uno scampanellio, e, agguantato il bastone li ammaliò, conducendoli sul piazzale antistante la casa. Accese quindi il fascio di spighe, mentre il fumo saliva, disegnando rivoli di bigi ricordi, e desideri ancora da realizzare. Attorno al rogo tutti presero a piroettare, e perfino i più orridi, dai musi ritorti, i denti aguzzi e le orecchie tagliate, si prostrarono al suo cospetto, ora Fata dei Boschi. «Andate!», ingiunse, e quelli, in baluginii di smeraldo, di giallo e di porpora, si dissolsero, come aurore che sfumavano in crespe di dune, valicando montagne e inabissandosi nei laghi, abbandonando per sempre la casa.
Fugata ogni distanza tra gli uomini e gli dei, lo spirito trovò liberazione.
L’improvviso inizio del nuovo giorno tinteggiò l’aria di luce dorata; il tempo era compiuto, e il solstizio d’inverno finalmente celebrato, nella Nascita del Tempo. Ecco a Björn balenargli ricordi, di quando, discendente da stirpe guerriera, si avventurava sui rostri a vogare gli oceani, e di quando, alla scomparsa dell’amata, la bimba aveva saputo trattenere quel demone, col solo dito puntato, un ricordo trattenuto e quasi dimenticato. Tuffando gli occhi raggrinziti, in quelli ora stanchi di Ástriðrr, i due laghi azzurri s’incrociarono, in uno scoperto bisogno d’amore reciproco. E, sospirando, si rincantucciò oltre una pietra incisa. Scavando una fossa, svelò quindi un incarto e gliene fece dono, annunciando: «Soltanto adesso capisco, qual è il tuo destino, figlia». Dal bauletto borchiato si rivelò una luce remota, che scopriva ampolle, ossa e pergamene, e lei, alzato lo sguardo verso il genitore, lo ascoltò conciliante. «Sono tuoi adesso, come desiderava tua madre. Sapeva in cuor suo che avresti seguito la tradizione». Infine il fuoco si spense, e, incamminandosi verso casa, il padre le strinse la mano annuendo col capo, e dallo sguardo, un travaso di audacia e valore, fu cosciente, che sarebbe spettato a lei, ora, domare gli indomiti demoni, e gli spiriti folli.
ÁSTRIÐRR E LA NASCITA DEL TEMPO è un racconto di Vanessa Maggi – Seconda edizione
vanessa maggi
Vi esorto tutti a commentare il nuovo testo in versione ampliata sulla piattaforma di ISEAF books è gratuita. Mi farebbe molto piacere. grazie a tutti. ps. è una storia surreale e fantastica, ibridata di allegorie e metafore e ispirata a saghe nordiche, ma del tutto frutto della fantasia della sottoscritta, pertanto non c’è nulla da capire soltanto da leggere e viaggiare nel tempo e nello spazio dell’immaginazione. E’ un racconto di redenzione e cambiamento, da negativo a positivo, ma che anche non distingue eccessivamente tale dualismo. e’ una storia di sconfitta degli aspetti oscuri dell’esistenza, ma anche di coesistenza con gli stessi. ci tengo a sottolineare che non è l’unica tipologia di racconto e -o romanzo e -o poesia che scrivo giacché diversi altre tipologie sono in pubblicazione e sono anche già state pubblicate. Amo infatti spaziare da temi fantastici a romanzi su aspetti quotidiani, ecc. vedi Rivista Interculturel: poesie tradotte in francese, febbraio 2021; in attesa di pubblicazione poesie su Rivista Antonianum Milano; Racconto per bambini e adulti favole di natale : Grete e il Lupo in Idrovolante su Ibs pubblicato; poesie in Antologia Ninna Nanna per bambini e adulti Apollo Edizioni in attesa, e Samhain pubblicato; Donata Racconto premiato e pubblicato in attesa di uscita su Cento Verba Editrice, ecc. Mi piace spaziare nella vita e mescolare il sacro al profano, tutto ha un senso alla fine. grazie per la vostra attenzione curiosa e amorevole bacioni a tutti !!!!vanessa maggi
vanessa maggi
Ástriðrr e la Nascita del Tempo è un racconto fantastico favolistico che intreccia la fantasia alle leggende epiche e alle narrazioni cantate, norrene. Viene scritto in un momento in cui le attenzioni sono rivolte ad approfondire anche saghe e leggende, in particolare norvegesi. Attraverso gli studi, la capacità di rinnovare non soltanto lo stile dei temi di ricerca, ma anche i nessi, scaturisce in un racconto, interamente dettato dall’immaginazione della scrivente e da un rimpasto di surrealtà, mitologie e descrizioni – concreti e irreali – dei luoghi. Benché nasca come storica dell’arte, il lavoro su un romanzo, un racconto, una poesia, ma anche un dipinto, ovvero molteplici componenti di una creatività mai sazia, nasce soprattutto attraverso le immagini, che vengono a galla richiedendo volontà di rappresentazione, sia che si tratti di citazioni sia che si reinventi ex novo il nucleo dell’argomento.
Gli interpreti sfondano la pagina per comunicare col lettore, svelando, come in questo caso, le proprie aspirazioni, attraverso desideri sottesi di rinnovamento. La riscoperta della tradizione, l’azzeramento della dualità divino-umana, e l’osservazione angolare – quindi diversa – degli aspetti considerati nefasti o demoniaci, sono ingredienti ben miscelati per scardinare i timori inconsci. I mostri, gli elfi, i demoni e gli dei, ovvero le creature mitiche di un aldilà pagano, in questo caso norreno, conservano un carattere ambiguo, e divengono parti necessarie a una catarsi che coinvolge i personaggi e li perfeziona. La comunicazione con le vaste zone d’ombra, la lotta per la propria posizione nel mondo, ma anche il riscatto, sono altresì caratteristiche rilevanti degli stessi.
La versione ampliata filtra, con un linguaggio sciolto e semplificato, aspetti volutamente celati nella prima versione del racconto breve. L’espressione per metafore e voli pindarici trascina il lettore in mondi aviti e incogniti, concreti ma anche irreali, nei quali vince l’annientamento dei timori verso gli aspetti oscuri dell’esistenza, per accettarne la presenza oppure dirimerli. È un racconto di redenzione e trasformazione, in cui l’interprete principale dai margini, vive intense avventure, riscoprendo in sé diverse nature, umana, animale, divina.
Per adesso il racconto è stato pubblicato nella piattaforma online di ISEAF books di cui rimando al link: ÁSTRIÐRR E LA NASCITA DEL TEMPO di Vanessa Maggi – Seconda edizione – ISEAF Books
Buona lettura e benvenuti i commenti!
Vanessa Maggi
vanessa maggi
Ástriðrr e la Nascita del Tempo è un racconto fantastico favolistico che intreccia la fantasia alle leggende epiche e alle narrazioni cantate, norrene. Viene scritto in un momento in cui le attenzioni sono rivolte ad approfondire anche saghe e leggende, in particolare norvegesi. Attraverso gli studi, la capacità di rinnovare non soltanto lo stile dei temi di ricerca, ma anche i nessi, scaturisce in un racconto, interamente dettato dall’immaginazione della scrivente e da un rimpasto di surrealtà, mitologie e descrizioni – concreti e irreali – dei luoghi. Benché nasca come storica dell’arte, il lavoro su un romanzo, un racconto, una poesia, ma anche un dipinto, ovvero molteplici componenti di una creatività mai sazia, nasce soprattutto attraverso le immagini, che vengono a galla richiedendo volontà di rappresentazione, sia che si tratti di citazioni sia che si reinventi ex novo il nucleo dell’argomento.
Gli interpreti sfondano la pagina per comunicare col lettore, svelando, come in questo caso, le proprie aspirazioni, attraverso desideri sottesi di rinnovamento. La riscoperta della tradizione, l’azzeramento della dualità divino-umana, e l’osservazione angolare – quindi diversa – degli aspetti considerati nefasti o demoniaci, sono ingredienti ben miscelati per scardinare i timori inconsci. I mostri, gli elfi, i demoni e gli dei, ovvero le creature mitiche di un aldilà pagano, in questo caso norreno, conservano un carattere ambiguo, e divengono parti necessarie a una catarsi che coinvolge i personaggi e li perfeziona. La comunicazione con le vaste zone d’ombra, la lotta per la propria posizione nel mondo, ma anche il riscatto, sono altresì caratteristiche rilevanti degli stessi.
La versione ampliata filtra, con un linguaggio sciolto e semplificato, aspetti volutamente celati nella prima versione del racconto breve. L’espressione per metafore e voli pindarici trascina il lettore in mondi aviti e incogniti, concreti ma anche irreali, nei quali vince l’annientamento dei timori verso gli aspetti oscuri dell’esistenza, per accettarne la presenza oppure dirimerli. È un racconto di redenzione e trasformazione, in cui l’interprete principale dai margini, vive intense avventure, riscoprendo in sé diverse nature, umana, animale, divina.
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Vanessa Maggi