BELLADONNA di Alice Piras

Amalia, il volto fiammeggiante di rabbia, si precipitò in giardino.

Il buio fitto, suo ignaro complice, la proteggeva da sguardi indiscreti.

Raccolse le bacche nere e lucide dalla pianta di belladonna nascosta in un angolo; poi, le triturò con cura in un pestello di legno. Nelle sue vene, ormai, il sangue si era trasformato in una sostanza ripugnante che pretendeva vendetta.

L’indomani, quando Adriano si presentò da lei per il tè, Amalia aveva deciso.

Mescolò con cura le bacche polverizzate alla bevanda calda, attenta a mettere abbastanza zucchero e limone affinché il gusto non venisse alterato; infine, magnanima, chiamò Flaminia.

«Cara, prenditi una pausa con noi! Gradisci un po’ di tè?»

La ragazza, imbarazzata, non sapeva cosa rispondere e arrossì vistosamente vedendo Adriano; si sedette e per l’ultima volta Amalia dovette assistere a quell’attrazione malcelata da cui lei era esclusa, sentendosi tradita e umiliata.

Li osservò mentre sorseggiavano la dolce bevanda, segretamente soddisfatta; attese pazientemente, come una belva aspetta la sua preda.

Dopo un tempo che le parve infinito Flaminia cominciò a lamentarsi:

«Non mi sento bene, signora.»

La fronte pallida era imperlata di sudore e sembrava sul punto di svenire.

«Vai a stenderti sul letto, forse stai covando un’influenza», le ordinò Amalia.

Adriano era visibilmente preoccupato e soprattutto non presentava sintomi. Com’era possibile? Eppure, aveva utilizzato la stessa dose per entrambi.

Mentre Flaminia si sollevava a fatica, trascinando i piedi sulle scale che portavano alla squallida mansarda dove dormiva, Amalia ripensò al loro primo incontro, avvenuto tanti anni prima.

Se l’era presa in casa come un cane rognoso, sotto le suppliche dei suoi genitori pezzenti.

Le aveva messo un tetto sulla testa, procurato vestiti puliti e cibo decente, donato una dignità. E in cambio le aveva chiesto soltanto di servirla ed esserle leale.

L’aveva trattata meglio di tutte le altre serve, sempre con un occhio di riguardo; la faceva stare bene l’essere caritatevole con quell’esserino inutile, che le era stato tirato addosso perché nessuno era in grado di occuparsene.

Da quando Flaminia era diventata così bella, sbocciando come una di quelle piante carnivore attraenti e strane allo stesso tempo, le aveva promesso che l’avrebbe fatta sposare con un bel ragazzo a modo, di buona famiglia.

Non le sarebbe mancato nulla.

E lei, invece, cosa aveva fatto per ringraziarla? Aveva puntato quei suoi occhi spregevoli sull’amore della sua vita, il suo Adriano, l’uomo che Amalia aveva sognato sin da bambina e che si era meritata.

Adriano l’aveva conquistato lentamente, con la sua avvenenza e il fascino di una mente brillante, frutto di studi e buona educazione.

Ma, come un folle incantesimo, era bastato un solo sguardo di quella ragazzina indegna per cancellare tutto: le promesse, un futuro insieme fatto solo di cose bellissime, dei bambini con i loro tratti mescolati.

Li aveva visti, appartati nell’oscurità del giardino, quando pensavano che lei dormisse e il suo cuore si era frantumato in mille pezzi acuminati, grondanti veleno.

Aveva pregato Dio, atteso che quella cosa abominevole terminasse, finto di non sapere nulla.

Ma l’odio cresceva sempre più e pian piano le sue grinfie la stritolavano affinché facesse qualcosa.

E adesso qualcosa l’aveva fatta. La belladonna avrebbe pensato al resto.

Flaminia, distesa nel suo lettino sgangherato, si sentiva svenire; in un bagno di sudore e con un macigno al posto dello stomaco, le sembrava di scivolare via, la ragione la stava abbandonando, brandelli di ricordi le invadevano la mente.

Si rivide bambina in lacrime mentre sua madre se la strappava di dosso; poi, sola in quella mansarda umida, in lotta con i ratti che l’affollavano.

Già così piccola, aveva imparato subito a strofinare i piatti nell’acqua bollente, a rifare i letti della stanza padronale, a reggere le brocche d’acqua pesanti dalla fontana sino a casa.

L’indifferenza degli altri, la povertà e l’abbandono le scivolavano addosso. L’unico suo pensiero e obbiettivo era non scontentare mai Amalia e fare tutto quello che le chiedeva.

E, per molto tempo, era riuscita a mettere in pratica i suoi buoni propositi, fino a quando non aveva visto quel sorriso, che con la sua luce aveva illuminato tutto il buio in cui era stata relegata per così tanto tempo.

Quel sorriso, però, apparteneva ad Adriano, l’uomo di Amalia. E lei non aveva saputo resistergli.

L’amore per lui aveva preso il sopravvento su tutto il resto, si era dimenticata chi fosse e da dove veniva. Era sempre stata di Adriano e le sembrava di non aver mai conosciuto altro che lui.

Adesso però stava così male e i ricordi si confondevano.

In un attimo, si ritrovò a fluttuare sopra la mansarda, sospesa in aria. Si sentiva la leggerezza delle farfalle addosso e i dolori erano spariti. Credeva di sognare, forse si era addormentata.

Poi si ritrovò fuori, all’aria aperta. Era pieno inverno ma non aveva freddo. E ad un tratto si sentì chiamare:

«Flaminia!»

Quella voce l’avrebbe riconosciuta ovunque. Si voltò e lo vide, biondo come il sole, luminoso come ogni inizio di vita, il suo insperato paradiso: Adriano la aspettava, tendendole la mano.

«Che ci fai qui?»

«Vieni, siamo liberi finalmente!»

Si tennero aggrappati, mano nella mano, con la paura di perdersi e non ritrovarsi più e, improvvisamente, dei grossi fiocchi di neve cominciarono a cadere.

Ben presto, un manto candido e ghiacciato ricoprì Flaminia e Adriano completamente, sino a diventare un tutt’uno con loro.

E, allora, i due amanti, diventati neve anch’essi, si precipitarono nuovamente sulla terra e, puri e soffici nella loro nuova sembianza, si depositarono sul giardino di Amalia, tutt’attorno alla pianta di belladonna che aveva donato loro la libertà.

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