COME UNA RANA AD APRILE di Gianluca Ellena (prima parte)
genere: POLIZIESCO
… Bacelli voi siete un meridionale atipico:
avete così tanta voglia di lavorare
che sembrate quasi un milanese!
L’Inizio
Milano, aprile 1945
«Capo, come avete saputo della fattoria?»
«Ti ricordi l’altro giorno, quando hanno arrestato quel vecchio colono che aveva inveito contro il Capo del Governo?»
Senese annuì.
«Brembo me lo ha portato in ufficio dicendo che si trattava di un reato politico.»
«Quel Brembo è proprio un coglione!» biascicò Senese alle prese con i problemi di sterzo della Fiat 1100 più malridotta della Questura.
«Questo disgraziato mi ha raccontato che tre Brigate Nere hanno cacciato via degli sfollati da un vecchio casale nei pressi della sua abitazione sul Lambro e che nei giorni seguenti ha visto arrivare un corteo di bovini.»
Lo sterzo della Fiat saltellava fra le mani di Senese che faticava a tenerlo fermo. Il tachimetro spaziava dai settanta agli ottanta chilometri orari con la lancetta che vibrava toccando entrambi i numeri.
«Capito Senese?»
L’Africano ghignò annuendo. Vestito con un abito gessato, sembrava un gangster del cinematografo, i tempi della GNR erano ancora vivi nella sua memoria ma ogni giorno che passava sentiva che si dissolvevano come i ricordi rarefatti di un bel sogno. L’Avvocato, da parte sua, con l’arrivo inatteso del caldo, andava in giro con l’abito primaverile in lino beige confezionato da una prestigiosa sartoria napoletana prima della guerra.
I tempi di Passetto erano un ricordo, un’altra vita anche se l’ossessione per la Verità era rimasta immutata come il nodo alla bocca dello stomaco quando non giungeva al bandolo della matassa.
Si erano lasciati alle spalle un inverno freddo e senza il conforto del tepore, date le privazioni del conflitto che di giorno in giorno aumentavano.
Bacelli di tanto in tanto ricordava le calde estati di Salerno, quando dalle pasticcerie, la mattina presto si sentiva l’odore di pasta lievitata e poi di forno. Erano i tempi in cui il giovane andava ad allenarsi per le gare di nuoto. Sua mamma irlandese trapiantata in una terra così calda, a sua volta era stata una campionessa di nuoto prima di incontrare il futuro marito, il padre dell’Avvocato.
Senese rallentò, scalando una e poi l’altra marcia, fino ad arrestare la corsa dell’auto di fronte ad un cancello arrugginito al termine di una strada in terra battuta.
Un uomo corpulento sulla quarantina, in canottiera e pantaloni neri da squadrista si avvicinò con passo deciso al cancello andando incontro all’Avvocato che cercava di aprire uno dei battenti per entrare con l’auto.
«Cosa volete? Chi siete?» ululò l’uomo.
Senese era sceso dall’auto, fece un cenno all’Avvocato, di solito si capivano al volo.
«Vogliamo parlare col tuo capo, vallo a chiamare!»
L’uomo, dopo aver tentennato per qualche istante riprese il sentiero che portava alla stalla, «restate dove siete, torno subito!» Disse ansimando, evidenziando un forte accento veneto.
Alternò il passo alla corsa nei circa cento metri che lo separavano dalla stalla. Entrò in uno stanzone, uno di quei locali dal cielo alto adibiti all’essiccazione delle pannocchie.
«Comandante, ci sono due meridionali che hanno chiesto di te, sono due della borsa nera!»
Nello stanzone spoglio di ogni cosa, c’era un uomo seduto su di una sedia con i braccioli in legno dietro ad un tavolaccio sul quale era appoggiato un moschetto 91 TS.
«Quanti sono?» chiese l’uomo seduto.
«Due, Comandante! Hanno una Balilla malridotta, di quelle a tre marce, ma hanno la benzina per andare in giro!»
L’uomo si alzò e dopo essersi sgranchito le gambe, afferrò il moschetto e si avviò lentamente verso la porta.
«Dobbiamo dare via i porci, puzzano troppo e attirano l’attenzione!»
Senese e l’Avvocato videro arrivare i due dal sentiero in quota che dalla stalla portava al cancello. Tracce fresche di pneumatici lungo la strada bianca che conduceva al casale, provavano che nella fattoria c’era un andirivieni di autoveicoli che in un periodo di razionamento di carbonella e ancor di più di benzina, rappresentava sicuramente un’anomalia.
L’uomo, un trentenne magro come un fachiro, nell’avvicinarsi al cancello imbracciò il moschetto puntandolo verso i due che rimasero in attesa.
«Cosa volete? Posso darvi tre maiali, vengono dall’Emilia e sono sani!»
Senese si sbottonò la giacca da gangster, l’uomo col moschetto si fermò ad un metro dal cancello. Bacelli rimase appoggiato al cofano della Fiat.
«Grazie, la carne di maiale è troppo grassa, magari qualche uovo…» Disse ghignando.
Senti Napoli, a ti te piase bagolare? Si irrigidì l’uomo con i baffetti puntando il moschetto ad altezza uomo.
Nel campo visivo di Bacelli c’era un cancello, una stalla, dei covoni di paglia, uno steccato in legno parzialmente intatto e il verde della primavera piovosa.
In uno stagno che aveva raccolto l’acqua piovana del temporale della notte precedente, Bacelli udì il gracchiare aritmico delle rane. Con la coda dell’occhio notò quanto il piccolo stagno di circostanza fosse popolato da ranidi di varie dimensioni.
Non gli sfuggì la sagoma di una rana schiacciata lungo il sentiero che portava al casale, subito dopo il cancello che non erano riusciti a varcare. Di sicuro un autoveicolo, non più tardi di quella mattina era transitato su per quel sentiero evidentemente battuto dall’impronta di pneumatici schiacciando lo sfortunato anfibio.
1 – Chiarimenti
«Bacelli, vorrei sapere Voi da che parte state. Qua se lo stanno chiedendo in tanti, lo sapete? Voi mi state dicendo che un capo manipolo[1] della “Muti” in combutta con un centurione[2], starebbe accumulando bestiame rubato nelle campagne di Settimo, avete avuto pure il tempo di relazionare, cinque, sei, addirittura sette fogli dattiloscritti!»
Il dottor Gaudenzi si asciugò il sudore con un fazzoletto bianco panna perfettamente stirato. Non era ancora estate ma un raggio di sole penetrava il rettangolo dell’inferriata della finestra che fendeva il cranio di Gaudenzi tutte le volte che si ritraeva sullo schienale della poltrona da dirigente. Era marchigiano, veniva dalla provincia di Macerata e il suo modo di parlare era spesso scimmiottato in termini irriverenti da Senese. Il vicecommissario Senese.
«Voi siete anche un avvocato Bacelli, Voi conoscete le norme, non siete certo un novellino, iniziative ed atti arbitrari compiuti da parte dei singoli e che… Avete capito o no Bacelliche qui fra pochi giorni è tutto finito?»
Gaudenzi era pallido, sudava freddo ed era turbato. Non era arrabbiato, non aveva tempo di esserlo, poco prima c’era stato un ufficiale delle SS nel suo ufficio, si sentiva ancora l’odore acre del tabacco tedesco, Gaudenzi aveva smesso di fumare, soffriva di gastrite e di lui si diceva che con una grappa avrebbe rischiato il ricovero in ospedale per ulcera.
Le voci erano come le valanghe in Valtellina. Una sull’altra: chi diceva che i partigiani avevano redatto liste ciclostilate con i nomi dei gerarchi, poliziotti e militari da giustiziare sul posto, una sull’altra, le voci si rincorrevano ed erano alimentate dal sadismo di molti sciacalli che evidentemente erano in possesso della chiave della “porta di servizio”. La chiamavano così. In pratica, chi aveva potuto, si era procurato documenti falsi o peggio, favori, mezze promesse da quegli sciacalli ancora più avvoltoi ovvero, coloro i quali millantavano o intrattenevano contatti con la Resistenza.
Nel flusso di tali pensieri disordinati, Bacelli era seduto al di là della scrivania. Non si era scomposto, lui pensava alle vacche e ai maiali rubati, nascosti in un vecchio fienile di un casale dove gli stessi ladri avevano sparso la voce che vi fossero mine piazzate dai partigiani, una bella idea, idiota come quelli della Brigata Nera, pensava. Non vedeva l’ora di prendere una squadra e correre a Settimo.
«Bacelli, qui dobbiamo mettere le cose a posto, di nemici ne abbiamo anche troppi, che caldo, qui si muore di umidità!»
Umido, puzza di legno marcio, il tabacco dei sigari tedeschi, il dolce nauseabondo dell’acqua di colonia del vicequestore Gaudenzi.
«Dottore, siamo poliziotti, dobbiamo schiacciare grassatori e profittatori come se fossero scarafaggi!»
Benedetto Iddio! «Ma proprio non capite, Bacelli, questo è il momento in cui tutte le forze si devono riunire idealmente come una testuggine romana! Avete studiato la storia, Bacelli? Dobbiamo fare quadrato anche con chi non ci piace fin quando sarà…»
La mano grassoccia aveva battuto col palmo sulla scrivania almeno tre volte, il fermacarte in legno con il fascio littorio per altrettante volte aveva saltellato ma Gaudenzi non faceva paura, aveva solo paura perché il tempo stava finendo. Come quando al cinematografo, alla fine della proiezione gli innamorati mollavano la presa per non essere sorpresi dalle luci e dagli occhi indiscreti.
«Bacelli non lo nego, voi avete rigirato Bologna come un pedalino, avete sgominato un’organizzazione che trafficava in medicinali…»
«Morfina, Dottor Gaudenzi…»
«Bacelli… Voi godete del favore e della stima delle alte sfere ma vi prego, non abusate della vostra reputazione, le cose stanno cambiando e ci dobbiamo preparare»
«Dottore, vi attendono per farvi la fotografia»
Era uno dei militari in servizio all’ufficio personale.
«Manca davvero così poco alla fine?» pensò ad alta voce l’Avvocato.
2 – Giustizia ad ogni costo
«Capo, quando ci hanno mandato a Padova a fare il corso ho capito che ci stavano fregando!»
«Cosa intendi Senese?» chiese l’Avvocato distratto dalle tonalità di rosso del suo carcadè fumante.
«Che quando abbiamo lasciato Bologna speravo di ritornare a fare il poliziotto qui a Milano e invece ci hanno messo a controllare le tessere annonarie e la borsa nera.»
Erano seduti nella saletta di un caffè di via Fatebenefratelli, a pochi metri dalla Questura.
Bacelli continuava a fissare le tonalità di rosso del suo tè degli italiani assorto nei suoi pensieri. Dalla saletta interna non filtravano i rumori e gli odori della strada. Con il caldo era scomparso l’odore di naftalina dei cappotti pesanti ma stava aumentando quello delle acque di colonia più nauseabonde miste all’odore acre del sudore.
Fra poco il mercato nero si compra pure a’ noi
Le parole di Senese scorrevano come una nenia in armonia con il rumore di piattini da caffè e lo scorrere dell’acqua proveniente da un tubo che correva lungo il soffitto.
Come gli avrei voluto mettere i ferri a quei due infami, Muti o non Muti, quelli si meritano la galera, maledetti imboscati!
Dalla sala principale del Caffè giungeva una melodia attraverso la radio, roba di prima della guerra, poi in sottofondo una voce maschile ed infine il silenzio. Era andata via la luce. Si udì una imprecazione, Maledetto! Lui e la sua maledetta guerra!
Bacelli pensava alle notti buie dell’oscuramento e alle giornate brevi dell’inverno maligno. Candele preziose come il tè, il caffè, quello vero.
Senese aveva smesso di parlare e aveva infilato la mano nella giacca accorgendosi di essere accaldato. La mano sfiorò il freddo del calcio della pistola, il mignolo avvertì la curva dell’estensione a becco del caricatore modellata come se fosse l’opera d’arte di un artigiano del ferro.
D’un tratto comparve un uomo sulla cinquantina con un grembiule bianco.
«Avucà, vi vogliono al telefono, dicono che l’è urgente.»
All’apparecchio, una voce metallica. Bacelli rientra subito che è successo un casino!
Dal Caffè all’ingresso della Questura era come la passeggiata che faceva da casa sua al Caffè Matteo in altri tempi e in un’altra vita nella Salerno volubile e ben vestita.
Brembo gli venne incontro trafelato. Dottore, il ghe suun i tedeschi dal Dottor Gaudenzi!
Aprì la porta. Gli apparve un Gaudenzi ancora più cereo del solito. Afflosciato come un cuscino sulla sua sedia da dirigente.
«Vieni Bacelli, vieni avanti, ti presento il tenente colonnello Schober dell’ufficio informazioni della prima divisione SS.»
Seduto sul divanetto degli ospiti di riguardo c’era un ufficiale delle SS senza età, con pochi capelli e gli occhi piccoli, coperti da un paio di occhialini da bibliotecario.
Heil Hitler Oberstleutnant!
«Sedetevi Bacelli» disse con tono solenne Gaudenzi.
«Un’ora fa è stato trovato nella stanza di una pensione in via Parini il corpo senza vita del capitano Thomas Pircher…»
La voce di Gaudenzi si spezzò a causa della tensione. Dopo aver deglutito riprese fiato.
«Da un primo sopralluogo sembrerebbe che il capitano Pircher potrebbe essere stato vittima di avvelenamento accidentale. Il colonnello ha chiesto supporto alla Polizia Repubblicana per una indagine riservata ed efficace, Bacelli.»
E la Verità? Pensava Bacelli. Nessuno ne aveva fatto cenno.
Bacelli è il mio migliore investigatore, potrete disporne come meglio credete, sulla sua riservatezza poi, posso garantire personalmente Herr Oberstleutnant!
Il “Bibliotecario” si alzò palesando una statura superiore al metro e ottanta, guardò negli occhi Bacelli che si era alzato contemporaneamente, seguito dal povero Gaudenzi pallido come un lenzuolo da corredo di sposa.
«Commissario vi attendo dinanzi la Pensione Adua di Via Parini fra trenta minuti.»
Lo guardarono uscire in silenzio, Gaudenzi fece cenno di chiudere la porta e invitò Bacelli a sedersi.
«Bacelli qua non possiamo fare errori, poi i narcotici sono la vostra specialità, giusto? Siete stato mandato da Bologna dal Ministro in persona, da quello vecchio per intenderci ma continuate ad essere considerato fra i più brillanti poliziotti della Repubblica e io sto puntando tutto su di voi. Non mi potete deludere Bacelli!»
Congedatosi era corso dal fido Senese che trovò placido dietro la sua scrivania intento a pulire la sua Beretta 34.
Senese, fatti dare un’auto decente che dobbiamo correre a Via Parini, conosci la Pensione Adua?
«Sì, Capo», rispose Senese, «ci dormono gli ufficiali della Leibstandarte Adolf Hitler. Dobbiamo attraversare Corso Porta Nuova, dopodiché Piazza Sant’Angelo e poi a destra. Non ci impiegheremo più di dieci minuti.»
L’Africano conosceva le strade di Milano in una maniera sorprendente. Eppure, per anni aveva guidato lungo monotone piste sabbiose, sembrava un ossimoro pensare che un poliziotto dell’Africa italiana fosse a suo agio nel dedalo milanese.
3 – Morte a Milano
Esibirono due lasciapassare recanti l’intestazione della Divisione corazzata Leibstandarte Adolf Hitler ad un sergente delle SS che gli si era parato davanti appena imboccarono l’ingresso della pensione Adua.
Salirono le scale trovandosi nel mezzo di un corridoio che si apriva ad una serie di stanze numerate, dal due al dodici.
Dal capannello di soldati che stazionava all’ingresso della stanza dieci, si staccò il tenente colonnello Schober.
«Venite con me.» Disse senza convenevoli l’Ufficiale, evidenziando un italiano con un marcato accento tedesco.
Entrarono nella stanza numero dieci illuminata dalla Stella orientale[3] delle undici di mattina. Abbagliato da un cono di luce, c’era un uomo in vestaglia accasciato su di una scrivania spoglia, come se si fosse addormentato. I suoi occhi erano chiusi, le labbra erano livide, per terra c’era una siringa usata e il letto era intonso, segno che la morte poteva essere giunta prima di coricarsi.
«Herr Oberstleutnant, qualcuno ha toccato qualcosa?»
Il “Bibliotecario” lo guardò con una severa aria di sufficienza.
«Commissario capo, vi esorto a prendere le vostre evidenze e limitarvi a fare il vostro lavoro!»
Senese scosse la testa fingendo di non aver sentito.
«Siete o non siete fra i migliori investigatori della Polizia Repubblicana?» Chiese con tono piccato il colonnello.
Bacelli aveva appreso l’inglese dalla madre irlandese e il tedesco dalla necessità. Lo studio di una lingua di ceppo germanico come il tedesco gli fu agevole dati i suoi pregressi. Di fatto comprendeva perfettamente la lingua di Goethe ma non ne amava la pronuncia che definiva pietrosa e i verbi oltremodo difficili da coniugare.
«Herr Oberstleutnant, ho bisogno di avere ragguagli sulla vittima, chi era, le sue mansioni e avere possibilmente informazioni su tutte le persone che avrebbe incontrato nelle ultime ore prima della morte.»
Senese aveva rinvenuto tre fiale di morfina inglese sotto l’armadio grazie al bastone della scopa che aveva utilizzato per tirare fuori gli eventuali oggetti celati dagli arredi.
«Morfina inglese, Capo!» Disse Senese, «questa è roba recente.»
L’uomo non aveva più di quaranta anni, era biondo con i capelli corti. Non presentava alcun segno di trauma o graffio, sotto le unghie non c’erano tracce, segno che non c’era stata lotta e all’altezza del bicipite sinistro vi era una cinghia di cuoio da donna ancora stretta.
Schober stava esaminando un portafoglio in cuoio con stampigliato il simbolo delle SS, ne aveva tirato fuori il contenuto. Bacelli si avvicinò.
«Posso?» Chiese l’Avvocato tendendo la mano.
«Era nel cassetto del comodino.» Disse con tono asciutto l’Ufficiale.
«Abbiamo già guardato noi Bacelli, niente soldi, niente biglietti, solo il tesserino militare ed effetti personali senza alcuna importanza.»
Senese sollevò il materasso smantellando il letto senza trovare nulla, nel cassetto del comodino c’era una copia del Vangelo in lingua italiana.
«Capo se non avete nulla in contrario vado a fare qualche domanda alla proprietaria della pensione.»
Schober, inquieto, passeggiava per la stanza mal celando un certo nervosismo.
«Commissario Bacelli, il capitano Thomas Pircher lavorava per l’Ufficio Propaganda, era un ufficiale stimato e validissimo. La sua famiglia gode della stima e della amicizia del Ministro Bernhard Rust ed è giusto, doveroso fornire alla sua famiglia una valida storia che tuteli l’immagine dell’Ufficiale, voi mi capite?»
Bacelli si avvicinò al corpo senza vita. Chiese aiuto ad un militare tedesco per sfilare la vestaglia senza però spostare il cadavere.
«Riceverete un rapporto di un nostro medico legale tradotto in italiano entro domani. Appare tuttavia chiaro che il capitano Pircher che lunedì sera ci risulta che accusasse dolori da calcoli renali, si sarebbe iniettato una fiala di morfina che gli è stata tragicamente fatale.»
«Certamente Herr Oberstleutnant, se non vi dispiace vado a fare qualche domanda alla padrona della pensione.»
Senese aveva fatto capolino dall’ingresso della camera, segno che aveva qualcosa di importante da riferire.
«Capo, la padrona della pensione ci vuole parlare, mi aspetta per un caffè dopo pranzo, dice che ha paura di dire quello che sa ai tedeschi.» Sussurrò a Bacelli.
«Interessante, Senese. Sai che ci sono persone che non riescono a nascondere la Verità quando ne sono anche parzialmente a conoscenza? È un istinto naturale, dire la Verità è un diritto e un dovere di tipo incondizionato!» Disse trasognante Bacelli.
Senese annuì con scarsa convinzione.
«Avvocato, questi ci chiedono di risolvere un caso senza indagare, siamo come un cavallo azzoppato che deve vincere il gran premio ad Agnano!»
Il pessimismo di Senese era una sorta di fatalismo originato da un concetto di fato negativo, un po’ come nelle tragedie greche, quelle studiate al Liceo. Così attuali.
Non era disfattismo, non era determinismo ma era il prodotto di una mente vivace alla ricerca di soluzioni fra i mille dubbi e le prove che la vita giornalmente gli disponeva lungo il cammino.
«Senese, stavo pensando una cosa!» Disse Bacelli concentrato.
«A cosa, Capo?» Ribatté Senese pensieroso.
«Corriamolo questo Gran Premio perché magari il nostro brocco vince ad Agnano!»
4 – Una vita
Il Capitano conduceva una vita normale se normale si può dire di questi tempi. Nelle ultime due settimane, da Pasqua in poi, sono andati via in tanti, lui era rimasto e fino a venerdì è andato a lavorare al Regina come tutti i giorni.
Donne non ne sono mai venute, mi sembrava un giovanotto riservato, adesso che ci penso veniva ogni tanto un signore distinto con una valigetta di cuoio, un medico forse, una volta li ho sentiti parlare in tedesco, però il signore distinto era italiano. Il mio povero marito buonanima era di Trento, io ho imparato il tedesco e posso dirvi che quel signore che parlava tedesco era italiano.
Senese tamburellava nervosamente le sue dita sulla copertina di un volumetto ocra dal titolo “Diritto Coloniale”. Era un suo cimelio dei vecchi tempi trascorsi nella PAI[4].
«Poteva andare peggio, Senese!»
«Cosa intendete Capo?»
«Che i tedeschi hanno fatto sparire quello che non dovevamo vedere ma una idea ce la siamo fatta.»
Senese aprì la sua agendina nella quale aveva preso appunti durante il breve sopralluogo.
«Tre fiale di morfina inglese trovate sotto l’armadio pulite senza un filo di polvere, la signora Ferri ha detto che l’ultima volta che ha passato il panno con la cera è stato due settimane fa.»
Bacelli si era seduto dietro la sua scrivania e aveva preso a dondolarsi cercando l’equilibrio.
«Vorresti dire che quelle fiale sono finite sotto l’armadio nelle ultime ore?» Fece una pausa. Poi scrisse qualcosa sul suo taccuino.
«Se fosse uno dei nostri avremmo ottenuto informazioni mediche pregresse ma nel caso di Pircher penso sia impossibile.» Proseguì Bacelli.
«Capo, sotto l’armadio abbiamo trovato un pettine di quelli d’osso impolverato, le fiale non avevano un filo di polvere, dovremmo tornare da quel Schober e cercare di capire cosa vuole in realtà farci sapere, d’altronde è stato lui ha chiedere il nostro supporto.»
«È permesso?»
«Vieni avanti Muzzi, c’è qualche novità?»
«Sì. Ferri Elvira è schedata dottor Senese. Ha lavorato in diverse case di tolleranza in Trentino e poi si è stabilita a Milano nel marzo del trentotto dove avrebbe ereditato la locanda adibita a pensione da un uomo che avrebbe sposato poco prima della sua morte.»
Era odioso Muzzi. Basso, astioso, incline al sospetto e macinato dall’invidia. Lavorava agli schedari, i suoi capelli imbrillantinati sembravano il prodotto di una scultura artigianale in legno tirolese. Ma era efficiente perché il suo schedario era costantemente aggiornato e Muzzi aveva una memoria prodigiosa.
«Senese, queste informazioni ci possono essere utili?»
«Sì Capo, certo che sì. Quasi quasi porto Muzzi a prendere un po’ d’aria che gli fa bene, dai che si va dalla padrona della pensione!»
Allungò uno schiaffo sulla nuca di Muzzi che sobbalzò. I suoi modi energici da “africano” non piacevano ai questurini di Milano ma le storie che lo inseguivano dall’Africa gli avevano cristallizzato la reputazione di duro. Da giovane ufficiale della PAI e poi della Guardia Nazionale, Senese era transitato nella Polizia Repubblicana con il grado di Vice Commissario. A Bacelli, fu attribuito il grado di Commissario Capo subito dopo il corso di riqualificazione tenuto a Padova.
La finestra dell’ufficio di Bacelli dava sulla strada principale, via Fatebenefratelli, non particolarmente trafficata negli ultimi giorni. Aprile lo avevano chiamato il mese del disgelo, seguiva ad un inverno che era stato particolarmente rigido e carico di privazioni per una popolazione XXX ormai schiacciata dall’epilogo della tragedia ormai prossima.
La 1100 con a bordo Senese e Muzzi si tuffò nella bassa marea della via Fatebenefratelli, i due militi di guardia all’ingresso della questura, uscita l’auto rientrarono come da prassi. Tutto andava come se il mondo procedesse grazie ad una inarrestabile inerzia. Sull’uscio della porta comparve un giovane poliziotto, non avrà avuto più di venti anni, ad esagerare.
«Dottore, vi vuole il Questore»
«Arrivo!»
Da poco più di una settimana, davanti all’ufficio del Vice Questore, stazionava un poliziotto armato di MAB[5], segno che la sicurezza percepita dai naturali garanti di essa si andava dissolvendo come la nebbia sugli Appennini, l’ultimo baluardo naturale prima della fine di tutto.
«Bacelli vi volevo informare che ho appena parlato con il Capo della Polizia a proposito della morte del capitano Pircher.»
Fece una pausa. Si accese una sigaretta, aveva evidentemente ripreso a fumare.
«Questo caso… Sembra il caso del secolo, in fondo potrebbe trattarsi di un suicidio o di una morte accidentale, anche il Capo mi è sembrato perplesso. Inutile dirvi che ci si aspetta da Voi e dalla vostra squadra una veloce soluzione Bacelli, per questo motivo vi chiedo il massimo impegno.»
Bacelli, in piedi, di fronte alla scrivania del dottor Gaudenzi era assorto come suo solito. Sembrava assente ma era sospeso nei suoi pensieri, le fiale di morfina, un amico italiano misterioso, niente soldi nel portafoglio, nessun segno di lotta o altri elementi utili.
«Mi avete capito Bacelli? Noi non scioperiamo come nelle fabbriche, noi siamo il meglio della Repubblica!»
«Perché non hanno affidato le indagini alla Muti?»
Gaudenzi scosse la testa espirando il fumo della sua milit.
«Voi non vi toglierete mai il vizio di essere impertinente Bacelli, la Muti viene impiegata prevalentemente a contrasto degli scioperi di carattere politico e contro ogni tentativo di sommossa, lo avete studiato o no a Padova l’ordinamento della Legione Autonoma “Ettore Muti”?»
5 – Visi sconosciuti
Il giovane, quello che veniva a trovare il tedesco secondo me era un invertito, avete capito cosa intendo? Secondo me erano amici nel senso stretto della parola…
«Perché non mi avete detto questa cosa ieri?» Aveva chiesto Senese con aria inquisitoria.
«Perché io qui a Milano mi guadagno il pane onestamente grazie ai tedeschi e se venisse fuori uno scandalo chi mi darebbe da mangiare? Voialtri della Questura?» disse la signora aspirando avidamente la sigaretta offertagli da Senese.
«Il mio collega vi farà vedere delle foto segnaletiche. Signora Ferri se non volete problemi mi dovrete dire se fra queste persone riconoscete qualcuno che avete visto qui nella Pensione.»
«Adesso che ci penso un giorno il Capitano mi chiese di preparare il caffè, ovviamente quello legale… C’era anche quel giovane, la sua faccia me la ricordo, ho una buona memoria.»
Muzzi fece una smorfia allusiva a Senese.
«Il mio collega vi sottoporrà un po’ di visi, fate pure con calma.»
Muzzi posò sul tavolo della cucina una valigetta da commesso viaggiatore da cui trasse una serie di schede di color giallo chiaro. Seduta al tavolo della cucina, la donna inforcò un paio di occhiali da vista da uomo attraverso i quali vide passare decine di visi sconosciuti in bianco e nero passati da Muzzi a mo’ di croupier su di un tavolo da gioco.
Senese aveva saturato l’ufficio del fumo dei suoi sigari toscani della borsa nera.
«Capo, dobbiamo trovare questo omosessuale. Molto probabilmente lo ha ucciso lui, mal d’amour, si dice così?»
Bacelli era parzialmente nascosto dal fumo bluastro dei sigari di Senese ai quali non si opponeva per una forma di rispetto nei confronti del suo più prezioso e fidato collaboratore.
«Senese, dobbiamo andare da Schober e farci autorizzare ad interrogare i colleghi stretti di Pircher, siamo fra due fuochi e la Verità non è poi così lontana.»
Pranzarono in una trattoria nei pressi dell’Hotel Regina. Come spesso accadeva in quei giorni, appena riconosciuti come questurini, Bacelli e Senese furono oggetto di diffidenza e di cautele da parte del proprietario della trattoria, preoccupato di subire verifiche che avrebbero palesato la non liceità dei canali di approvvigionamento delle derrate alimentari. Del resto, non vi erano alternative, in quei giorni di aprile il volume di affari della borsa nera aveva superato il mercato ufficiale al punto che in alcuni quartieri di Milano fu registrato un paradossale calo dei consumi regolati dalle carte annonarie. La borsa nera aveva sconfitto la Repubblica e le sue regole.
Dagli attentati dei GAP[6] e i grandi scioperi insurrezionali di marzo, la vigilanza di fronte all’ingresso dell’Hotel Regina si era rafforzata e il riguardo per le autorità locali, quelle di Salò, si era sciolto come la neve a primavera.
Tra cavalli di frisia e sacchetti a terra, Bacelli e Senese si avvicinarono con cautela alla prima coppia di SS di guardia che alla vista dei due poliziotti imbracciarono il loro MP40 puntandolo ad altezza uomo senza tanti riguardi.
Ich bin Kommissar Bacelli, wir werden von Oberstleutnant Schober erwartet![7] Disse mostrando il tesserino.
Dopo una telefonata al corpo di guardia i due furono condotti al comando scortati da un militare che, prima di farli entrare nell’Ufficio dell’Oberstleutnant Schober si fece consegnare le pistole.
«Oberstleutnant Schober, avremmo bisogno del referto medico di cui ci aveva parlato e se fosse possibile vorremmo fare delle domande agli Ufficiali che hanno soggiornato nella stessa pensione del capitano Pircher»
«Voi mi piacete Bacelli perché andate al punto, mi hanno detto belle cose su di Voi Bacelli, voi sembrate quasi tedesco per quanto siete preciso!»
«Vi ringrazio, sono onorato di godere della stima del Vice questore Gaudenzi…»
«No Bacelli, non parlo dei vostri Capi, ma parlo delle informazioni che mi vengono recapitate giornalmente dai nostri informatori. Come vi dicevo la famiglia del povero Capitano è affranta, la morte del proprio figliolo ha generato una agitazione che ha raggiunto il Ministro del Reich Bernhard Rust che in questo momento è occupato da tante altre questioni, mi capite, vero?»
Schober si tolse gli occhialini da topo e prese a pulirne le lenti con uno straccetto di pelle. I suoi occhi erano neri, piccoli ma vivaci. Alle spalle dell’Ufficiale c’era un ritratto del Fuhrer e alla sinistra una carta topografica della città di Milano. L’ufficio era spoglio e le persiane chiuse lo rendevano tetro oltremodo.
Inforcò nuovamente gli occhialini rimettendo al giusto fuoco l’immagine di Bacelli.
«Rispondo alla vostra richiesta. Domattina verrà presso il vostro commissariato un nostro Ufficiale della polizia militare capace di parlare l’italiano che risponderà a vostre domande sul capitano Pircher.»
Scortati da un militare armato recante le insegne della Leibstandarte SS Adolf Hitler percorsero in silenzio il lungo corridoio, poi scesero l’ampia scalinata di quello che era un Hotel, incontrando sguardi severi e percependo un odore di polvere proveniente dal logoro tappeto passatoia delle scale. Usciti dall’atrio ritrovarono la luce del pomeriggio e l’aria della primavera, Senese prese a borbottare nel suo dialetto improperi nei confronti dei tedeschi simili ad una accorata preghiera.
«Senese, domani ci avvicineremo alla Verità, vedrai che la corsa di Agnano la vinciamo noi.»
6 – La partita di scacchi
Il Capitano Pircher lavorava per l’Ufficio Propaganda e di conseguenza aveva contatti con personale dell’EIAR. I nostri medici legali sostengono che sia morto per arresto cardiaco in seguito ad un sovraddosaggio di morfina che l’Ufficiale si sarebbe iniettato per i dolori sopraggiunti a causa di una colica renale accusata dall’Ufficiale la domenica precedente la morte. Dall’esame autoptico non risultano segni di violenza, riteniamo che la causa della morte sia imputabile ad una reazione allergica ad un dosaggio di morfina non letale.
Il colloquio con la Gestapo fu breve. Un comunicato ufficiale, asciutto, nulla di più.
«Senese, chiama Muzzi e digli di andare dai suoi amici dell’OVRA, che si procuri le fotografie dei giornalisti e degli addetti dell’EIAR, ovviamente nessuno dell’EIAR dovrà sospettare nulla!»
«Capito Capo, tutto chiaro.»
Tutto chiaro! Pensava ad alta voce Bacelli.
Nel tardo pomeriggio si incontrò in una osteria di via Sacchi con Senese. Quel pomeriggio i partigiani avevano aperto il fuoco contro un autocarro tedesco in transito in zona Niguarda causando feriti lievi. La reazione era stata violenta e la città era ancora più vuota del solito malgrado l’aria primaverile. Nel tardo pomeriggio la gente si affrettava a tutta lena a raggiungere casa propria prima di essere sorpresi dal coprifuoco.
«Domani Muzzi incontrerà un funzionario dell’OVRA, la cosa è regolare, il Vice Questore Gaudenzi ha inviato un fonogramma; pare che le indagini sulla morte di Pircher siano di pubblico dominio»
«Secondo Voi si mangerà meglio quando finirà la guerra?» chiese Senese mentre affondava il cucchiaio nel suo minestrone.
«Appena la Ferri lo riconosce lo arrestiamo e lo interroghiamo. Sento che ci siamo quasi» Disse Bacelli tamburellando le dita sul suo taccuino.
«Non avremo noie dal Ministero della Cultura, Capo?»
«Non credo, è una storia a tinte fosche, ci sono di mezzo droga e un probabile legame omosessuale. I giornali stanno andando a nozze con le storie turpi.»
«E i tedeschi? Se un Ministro del Reich fa pressioni per sapere la verità su quanto accaduto, è logico pensare che laddove emergesse una storia sconveniente gli stessi tedeschi potrebbero opporsi alle indagini.»
«Bravo Senese, hai parlato della Verità. A volte fa paura. Ma se come dici tu cambiassero idea, noi andremo diritti sulla nostra strada, gliela presenteremo la Verità, loro decideranno che uso farne!»
«L’unica cosa buona qui è il vino, questo minestrone è peggio delle brodaglie africane!»
Lasciarono l’osteria per rientrare nella pensione in via Monte di Pietà dove avevano trovato alloggio dal loro arrivo a Milano. Di solito cenavano presto per evitare il coprifuoco milanese amministrato da troppe forze dell’ordine, diverse e poco coordinate. Il sole tiepido dei pomeriggi di aprile aveva fatto dimenticare il rigore di un inverno ancora più freddo e povero. Il taglio e il furto della legna era diventato il crimine del bisogno al punto che erano spariti quasi tutti gli alberi della periferia. Nell’appena trascorso inverno veder fumare il comignolo di una stufa era diventato raro ma la primavera del quarantacinque sembrò ristorare le povere anime provate dalla miseria di una guerra ormai o per fortuna all’epilogo.
Tutte le volte che rientravano nella pensione, Senese entrava per primo con la pistola in pugno, era un rituale, un dejà vu come ai tempi di Passetto quando vestivano di grigioverde.
«La vecchia ci ha chiuso fuori, Capo!» disse Senese trovando la porta chiusa dall’interno.
«Aspetta, ho le chiavi.» Bacelli girò la chiave nella toppa ed entrò violando il protocollo Senese, figlio di cautela e superstizione partenopea.
Nella penombra dell’atrio, come in un sogno, Bacelli intravide una sagoma che dal divanetto del corridoio si era alzata e con i passi attutiti dal tappeto che faceva da guida veniva loro incontro. Senese accortosi dell’ombra, con una spallata scostò Bacelli che si ritrovò schiacciato contro la parete e l’Africano, avendo la pistola già impugnata, esplose un colpo all’indirizzo dell’ombra.
L’abbattersi del cane sul fondello della cartuccia calibro 9 corto, invece di provocare l’accensione della carica di lancio e il conseguente sparo, generò solamente un click sordo che alle orecchie di Senese suonò più assordante di una detonazione.
«Dottore, dottore, sono Colombo, non sparate per l’amor di Dio!» disse l’ombra.
Senese, che aveva nuovamente scarrellato, al palesarsi di Colombo abbassò la pistola che dopo avere espulso la cartuccia evidentemente fallata, era nuovamente armata e pronta a far fuoco.
«I t’accid[8] Colombo, sei proprio un coglione fatto e finito!» Urlò Senese in preda all’ira. «Sei fortunato che queste munizioni fanno schifo sennò eri morto come un coglione!»
Colombo, paralizzato dalla paura, era rimasto con le mani alzate.
«Calma Senese, calma. Colombo, che cosa ci fai qui?»
Colombo, atterrito, si era lasciato cadere sul divanetto. Alle loro spalle era comparsa una donna anziana avvolta in una vestaglia con una fantasia di fiori.
«Dottor Bacelli, per l’amor di Dio, cosa succede qui?»
«Signora Fiorenza scusateci, si è trattato di un errore, è tutto a posto.»
Era la padrona della locanda, la signora Fiorenza una vedova della Grande Guerra di Piacenza, fervente fascista e confidente dell’OVRA fin dagli anni Trenta.
«Dottore, scusatemi, sono qui perché il giudice ha firmato un mandato di arresto urgente per Genesio Scarpa da Pellestrina e l’arresto va fatto nella prima mattinata di domani, questo è il pacchetto d’ordini!»
Bacelli aprì la busta gialla, ore 08.00 inizio movimento per Castello sul Lambro… Il capo manipolo veneto della Muti!
«Sì Dottore, avete vinto voi, il dottore Gaudenzi ha perso dieci anni di vita oggi quando è arrivato il primo fonogramma»
«Lo sai o no, Colombo che hai rischiato la pelle oggi?»
7 – Gita sul Lambro
Alle otto, in piena puntualità si erano mossi tutti. Un autocarro Fiat con nove poliziotti del reparto antiguerriglia a cassone comandati da un brigadiere, una Lancia della Prefettura e la 1100 con su Bacelli, Senese e Colombo.
Percorsero le strade quasi deserte nel frastuono dei motori e la puzza di manicotti bruciati fino alla fattoria.
C’era ancora la foschia del mattino e dal cancello, il fienile era scarsamente visibile.
«Brambilla, con l’autocarro tu forzerai il cancello, voi sette entrerete a seguire e vi disporrete in formazione aperta. Aprirete il fuoco solo su mio ordine!»
«Tutto chiaro Dottore!» Rispose parzialmente nascosto dalla foschia un vicebrigadiere senza nome.
Guardò l’orario, erano le otto e trentacinque. Si girò intorno. La nebbia restituiva un paesaggio in bianco e nero.
«Sfondate il cancello!»
Il Fiat 626 sferragliando si appoggiò al cancello sfondandolo dopo due fumate bianche. I militari scattarono come beccacce svelate dai cani preceduti da Bacelli che, come un invasato, pistola in pugno, urlò agli occupanti della struttura di arrendersi.
Un lampo giallo bucò la foschia.
La finestra del primo piano! Sparate! Urlò Bacelli.
I militi acquattatisi, aprirono il fuoco contro la presunta sorgente. Una raffica di Breda proveniente dall’estremità del dispositivo sforacchiò l’edificio. Una voce urlava qualcosa ma era coperta dagli spari degli altri militi che avevano indirizzato il fuoco in direzione della finestra. Bacelli intimò il cessate il fuoco.
Uscite fuori con le mani alzate! Urlò.
Senese raggiunse il mitragliere, un tipo tarchiato che a ogni sbalzo sull’erba bestemmiava in un dialetto incomprensibile.
Da una delle finestre del piano terra si materializzò un lenzuolo di juta color grigio, Usciamo, non sparate!
La Breda fu piazzata per coprire l’uscio del fienile, i militi si alzarono e procedendo paralleli in una formazione a rastrello, si avvicinarono all’edificio da dove uscirono tre uomini con le mani alzate.
«Siete in arresto per furto di bestiame, appropriazione indebita aggravata e aggiungo io, infamia all’uniforme che portate!» Aveva urlato Senese furioso all’indirizzo dei tre uomini.
«Ti se el Napoli dell’altra volta? Guarda che non finisce qui!»
Caricateli sul camion e portateli in Questura!
Senese prese il comando delle operazioni, agli arrestati furono messe le manette a catenella e furono condotti all’autocarro scortati dai militari del nucleo antiguerriglia.
«Dottore c’è un tizio che vi vuole parlare»
Si era avvicinato un uomo sulla quarantina con un vestito di panno beige e un cappello Borsalino a fantasia scozzese.
«Mi chiamo Falorni, avvocato Anchise Falorni, lo sapete che questi grassatori sono della Muti?»
«E con questo?» Rispose Bacelli con arroganza.
«Spero che non vengano liberati appena girate l’angolo, meglio per loro, meglio per tutti…»
«Cosa volete dire?»
«Nulla, la gente di qui era esasperata dai loro abusi» Rispose con un tono pacato.
Una piccola folla di curiosi, intanto, si era assiepata attorno alla fattoria, erano almeno una ventina di persone.
«E’ il caso di andare via di qua. Senese, pronti a muovere entro un minuto che si mette male!» Disse Bacelli a Senese ostentando calma.
«Giurerei che nella folla c’è qualche partigiano in libera uscita!» Sibilò Senese.
Il corteo dei mezzi, ad eccezione dell’auto della Prefettura che rimase sul posto per i rilievi amministrativi e per organizzare la restituzione degli animali ai legittimi proprietari lasciarono la fattoria costeggiando il fiume Lambro reso livido e nervoso dalle abbondanti piogge primaverili.
«Quelli della Muti si faranno il nodo al fazzoletto, Capo!»
Intorno alle undici e tre quarti, riguadagnata la statale, la 1100 accelerò seguita dall’autocarro. Superarono il cimitero e poi le casette sparse, l’idea era quella di esporsi il meno possibile ad agguati che potevano avvenire lungo il percorso più probabile.
Il piano di Bacelli era di spingersi a nord della città per poi passare sull’altra sponda del fiume e, lasciandolo sulla sinistra, si sarebbero diretti verso il centro superando Porta Venezia, i giardini e San Marco, evitando di esporsi ad agguati su strade secondarie.
Nel silenzio di una Milano vuota e con la certezza che i loro movimenti erano seguiti da migliaia di occhi a loro invisibili, la colonna Bacelli rientrò indenne con i tre arrestati.
Milano, 19 aprile 1945
La Questura di Milano pone fine alle attività di una banda di grassatori.
Una brillante operazione di polizia guidata dal Commissario Capo Bacelli ha posto fine alla nefasta carriera di una banda di grassatori che vestivano le uniformi della Brigata autonoma Muti e che da tempo taglieggiavano agricoltori e fittavoli dell’area del Lambro (…) La squadra investigativa del Commissario Capo Bacelli dopo una serie di appostamenti ha individuato un gruppo criminale dedito all’abigeato in un momento storico in cui la popolazione italiana offre il massimo tributo di sacrificio allo sforzo bellico (…) Il Commissario Bacelli incarna lo spirito migliore di una Italia che mostra coesione e fermezza (…) Il bestiame è stato riconsegnato ai legittimi proprietari dalle Autorità.
Bacelli, Voi non lo sapete ma forse avete stipulato una assicurazione sulla vita!
Aveva detto Gaudenzi.
Bacelli, annoiato e assorto nei suoi pensieri era seduto di fronte al suo Capo in silenzio.
«Bacelli, Voi siete impegnativo e difficile da gestire ma in questo momento storico siete l’uomo giusto. Vedete, fra pochi giorni potremmo trovarci di fronte ad eventi di grande portata ai quali dovremo prepararci.»
Lui pensava che dopo il monologo di Gaudenzi lo l’aspettasse Muzzi con importanti novità, Senese era impegnato negli interrogatori, aveva visto Colombo correre nel corridoio, non vedeva l’ora di uscire dall’ufficio del Vice Questore.
La Verità era sempre più vicina, pensava. Una svolta nel caso Pircher? Quello ci voleva, e non per far bella figura con i tedeschi, ma per chiudere qualcosa di sospeso che da qualche giorno lo faceva addormentare con l’ansia e svegliare con la rabbia. Tutto il resto non contava.
Al richiamo siamo insorti
marciando contro la viltà,
accorremmo in ranghi, fieri di valor,
libera Patria sarai tu!
Oh madri nostre, orsù,
preparate il più caro fardello,
l’Italia chiama ancor;
benedite chi soffre per essa;
chi riscatta fede, gloria ed onor,
eroe della Patria si dirà!
Fratelli d’arme, orsù,
rialziamo il Tricolore!
Combatterem,
e vincerem,
chi mai ci fermerà?
Combatterem
e vincerem,
nessun ci fermerà! Italia!
Gaudenzi si alzò con una smorfia di dolore e si avviò alla finestra che dava sul cortile interno.
«Vedete Gaudenzi, io, voi, ormai siamo vecchi. Io convivo con una artrosi cronica; eppure, questi giovani cantano e guardano a poliziotti come Voi, quegli elementi brillanti che ci aiuteranno nelle fasi di trapasso della nostra Repubblica.»
Quattro righe[9] di giovani poliziotti da poco assegnati alla Questura erano inquadrati su tre file nel cortile d’onore dove praticavano istruzione formale agli ordini di un brigadiere. La vita procedeva ma Gaudenzi parlava di “trapasso”.
«Il Capo della Polizia vi porge le sue personali congratulazioni per gli arresti di questa mattina. La Polizia rimarrà al suo posto, Bacelli!»
A noi la morte non ci fa paura… no!
Ci si fidanza e ci si fa l’amor,
se poi ci avvince e ci porta al cimitero
s’accende un cero e non se ne parla più!
Ma me ne fregherò della morte e dell’amor,
ma me ne fregherò, ho vent’anni dentro il cuor!
Dal cortile, come un’esplosione giunse un grappolo di giovani risate. Avevano venti anni e da pochi giorni erano entrati nei ranghi della nuova Polizia.
8 – Al teatro
Milano, dicembre 1944
(…) Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è che la logica continuazione del programma del 1919: delle realizzazioni degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla conquista dell’impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno l’economia. Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo, ulteriore della socializzazione. Sin dalla prima seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre 1943 veniva da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe stata unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo e che avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da risolvere la questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti, tale cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità del lavoro in una società nazionale veramente moderna».
Bacelli ascoltava senza grande interesse girandosi intorno. Intabarrato in un cappotto testa di moro di alta sartoria napoletana, era davanti ad una delle uscite di sicurezza che davano sulla via Pecorari da cui sarebbero potuti arrivare i guai. Si temeva un possibile attentato da parte dei GAP e considerando l’Oratore e i gerarchi presenti, non si potevano escludere possibili attacchi, da qualsiasi direzione e di ogni matrice.
(…) La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell’economia attraverso il totalitarismo di Stato e supera l’individualismo dell’economia liberale, che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell’economia capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere «sociale» delle comunità nazionali.
Attraverso la socializzazione i migliori elementi tratti dalle categorie lavoratrici faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire in questa direzione.
«Che ne pensi, Bacelli?» Chiese il commissario capo Carella.
«Che fa freddo, rimpiango l’umidità di Passetto.» Rispose Bacelli annoiato.
«Questo è il discorso della riscossa, tu la guerra non l’hai fatta Bacelli, non ne sai un cazzo di quello che abbiamo patito!» Si era acceso un’altra sigaretta, di questo passo avrebbe finito il pacchetto prima della fine del discorso.
«Tu vieni dalla Guardia Nazionale, di leggi di pubblica sicurezza ne sai poco. Te lo hanno fatto studiare a Padova il Testo Unico?»
(…) Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari. In primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come ad Atene, i movimenti partigiani, i quali sono l’ala marciante e combattente delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo, appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti dal totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia dei sovietici. Churchill ha inalberato il vessillo anticomunista in termini categorici nel suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non può fare piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone d’influenza della democrazia l’Europa occidentale, che non dovrebbe essere contaminata, in alcun caso, dal comunismo (…)
Carella era un vecchio questurino pugliese che aveva fatto la gavetta. Con l’entrata in guerra era stato promosso Ufficiale e quindi Commissario. Non era laureato ma aveva una memoria prodigiosa, sterile, non analitica ma capace di fotografare pagine stampate e recitarle come un testo teatrale, senza comprenderne l’essenza.
In quei gelidi giorni, Carella e Bacelli avevano tra le mani il caso di un Ufficiale della GNR trovato accoltellato davanti ad una casa di tolleranza di Magenta.
A Carella fu assegnato Bacelli in qualità di ex Ufficiale della GNR e ultimo arrivato. Le indagini di omicidio non facevano gola a nessuno, in piena guerra civile le priorità erano altre e fra queste compiacere l’alleato germanico senza intralciarne l’operato. Ma Bacelli era uscito come al suo solito fuori dal seminato e aveva interrogato gli stessi colleghi della vittima generando una serie di turbolenze culminate con l’ordine di occuparsi di ordine pubblico e di prevenzione delle attività eversive.
Era una questione di corna! Aveva detto più volte Bacelli.
«Bacelli ma lo vuoi capire che sono stati i Partigiani? Di Lorenzo, quel povero diavolo è stato attirato in una trappola, magari da qualche donnaccia e lo hanno ucciso! Tutto qui.»
Carella prediligeva le soluzioni comode, Bacelli con le ricerche aveva scoperto dal suo vecchio Tenente della GNR di Passetto, che il tenente Di Lorenzo oltre ad essere un pugilatore provetto, aveva il malcostume di importunare le donne di altri, cosa che era accaduta durante il corso allievi ufficiali tenuto a Varese.
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po; noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia repubblicana.
Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico, il destino dell’intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento, io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po (…)
«Bacelli, Bacelli, il problema non sono le presunte corna di un Ufficiale ma il destino dell’intera nazione, hai sentito Bacelli? Ho pure finito le sigarette maledizione a te e alle tue indagini…»
(…) Il popolo italiano al sud dell’Appennino ha l’animo pieno di cocenti nostalgie. L’oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall’altra non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L’impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l’idea, impossibile.
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi all’equatore somalo e l’italiano era uno dei popoli più rispettati della terra (…)
Ad un tratto due uomini che transitavano per via Rastrelli alla vista di Carella e Bacelli si erano allontanati di corsa. Uno dei due aveva inforcato una bicicletta che fino a quel momento conduceva a mano e, con energiche pedalate si era allontanato svoltando per via Pecorari; Carella aveva gettato il pacchetto vuoto di sigarette e si era messo a correre.
«Uè! Dico a voi due, fermatevi, polizia!» Intimò Carella.
Aveva accennato una corsa ma l’età e la mole lo aveva fatto desistere, Bacelli gli era invece alle calcagna. Le urla di Carella e la corsa di Bacelli dietro il ciclista attirarono l’attenzione di tre giovani in camicia nera che intimarono a Bacelli di fermarsi sennò avrebbero aperto il fuoco.
È un poliziotto! Urlò Carella col suo accento barese, Dovete fermare il ciclista, maledetti!
(…) Non v’è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell’udire un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che si può definire l’epopea della patria. Questi italiani esistono ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia e migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non hanno dimenticato, né possono dimenticare (…)
«Torna indietro Bacelli, lascia stare è andato… Sta per finire, fra poco ci sarà casino!»
Il tenente Bracco, il suo vecchio Ufficiale di Passetto gli aveva detto che quel Di Lorenzo era stato sfidato a duello da un Allievo Ufficiale lucano per motivi di donne e che Di Lorenzo gli aveva risposto che era al quarto duello e che era avvezzo a certe pretese pericolose.
Il caso gli era stato servito su di un piatto d’argento.
Durante l’interrogatorio ai colleghi della vittima era emersa l’intraprendenza amorosa del Di Lorenzo e il nome di un ex capo manipolo delle Camice nere con il quale avrebbe avuto un alterco per via di alcune avances fatte da Di Lorenzo ad una tale signorina Zamira Pacelli della provincia di Brescia ma residente a Milano.
Tutto di una semplicità tale che anche un vigile ci sarebbe arrivato! La sua mente si arrovellava e lui non riusciva a nascondere la frustrazione e lo sdegno per il fatto che la Verità era occultata da false opinioni e pregiudizi. Parmenide, la sua Verità e quanto Bacelli la sentisse vicina, gli aveva fatto passare la fame malgrado fosse ora di mangiare.
(…) Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!
La Verità era davanti a lui come una bella donna ma non era alla sua portata. La figlia del Barone Amatucci in villeggiatura ad Amalfi. Che fine aveva fatto l’aristocrazia che tanto lui aveva odiato? Prima della guerra, l’aristocrazia dei suoi ricordi detestava la borghesia più di quanto la prima disprezzasse la povertà. Ragionava come un socialista ma non importava a nessuno. A suo padre sì.
Il nord fu per il giovane Avvocato la via di fuga, o l’anticamera della sua nemesi.
«Carella ascoltami, io domani vado direttamente dal Questore e gli espongo i fatti, non mi interessa se non sei d’accordo, la polizia combatte il crimine e lo reprime, la polizia schiaccia i criminali e accende la luce della Verità, l’ordine pubblico lo lascio a te!»
Sorpreso dalle sue parole, Carella aveva lasciato cadere la sigaretta scroccata ad un giovane appartenente alla Guardia Nazionale che stazionava davanti al suo autocarro.
Le porte del Lirico si spalancarono e un fiume disordinato di persone si riversò dalle uscite come fosse una alluvione.
«Bacelli, stai attento che io ti faccio male!» Aveva detto Carella prima di essere urtato da un energumeno in camicia e cappotto nero.
Ma Bacelli non si era certo fermato e lo stesso pomeriggio, senza riguardo aveva scavalcato il titolare dell’indagine arrivando alla porta del Questore reggente Gaudenzi. Il discorso della riscossa aveva galvanizzato tutti, compreso il palazzo di via Fatebenefratelli dove qualcuno, quel pomeriggio, aveva stappato lo spumante delle grandi occasioni.
«Bacelli voi siete un meridionale atipico, avete così tanta voglia di lavorare che sembrate quasi un milanese!» Aveva detto sconsolato Gaudenzi.
Il Capo manipolo Fioravanti era un “Sansepolcrista”, ovvero uno di coloro i quali il ventitré marzo del diciannove aveva partecipato all’adunata di Piazza San Sepolcro. Di questa adunata storica Adelmo Fioravanti ne custodiva il brevetto consegnatogli dal Duce in persona. Il cammino alla Verità si faceva duro e pieno di insidie.
Voglio sapere il nome del funzionario che mi ha convocato! Si sentiva urlare dal corridoio.
«Vi prego Commendatore, io mi limito ad accompagnarvi dal mio superiore, non conosco i motivi…»
Invece Colombo li conosceva bene ma aveva timore di tutto ciò o chiunque avesse a che fare con il Partito. Fioravanti era uno dei dirigenti di Palazzo Castani in piazza San Sepolcro per l’appunto, uno della vecchia guardia pericoloso e vendicativo, si diceva.
Colombo non fece in tempo ad annunciarlo che Fioravanti entrò nell’ufficio di Bacelli senza bussare e senza riguardo.
«Voi chi siete? Non vi conosco!» disse Fioravanti indicando Bacelli.
Bacelli se lo era immaginato meno mastodontico. Aveva una barba curata alla Balbo, degli occhi spiritati tra il verde e il castano e una folta capigliatura brizzolata. Fosse stato più gentile e meno aggressivo sarebbe potuto passare per un vecchio maestro di scuola. Ma non lo era.
«Sono il commissario capo Bacelli, lui è il vicecommissario Senese. Commendatore, vi prego di accomodarvi perché non vi importuneremo per più di dieci minuti.»
L’uomo, stizzito, rimase in piedi di fronte a Bacelli guardandolo con aria di sfida.
«Visto che non vi volete accomodare non vi farò perdere tempo», disse Bacelli alzando il tono della voce. Senese era seduto e faceva la punta ad una matita, la terza scrivania, quella di Colombo era vuota perché Riccardo cuor di leone aveva preferito star fuori da quella indagine scomoda e portatrice di guai.
«Ci risulta che il tenente Di Lorenzo della GNR che come saprete è stato trovato accoltellato di fronte ad una casa di tolleranza di Magenta aveva importunato una donna, tale Zamira Pacelli di Brescia ma residente a Milano…»
Mia nipote! Tuonò Fioravanti. Senese alzò la testa incrociando lo sguardo del Sansepolcrino.
«Vostra nipote?» chiese sorpreso Bacelli.
«Per l’appunto!» replicò Fioravanti serrando i pugni.
«Commendatore, noi vorremmo fare qualche domanda a vostra nipote, se credete possiamo far assistere al colloquio una SAF[10].»
L’uomo si avvicinò alla scrivania di Bacelli. Per un attimo a Senese balenò l’idea che gliela volesse scaraventare addosso. Aprì il cassetto e con il preciso intento di farsi notare, tirò fuori la pistola e la posò sulla scrivania. Fioravanti lanciò uno sguardo minaccioso a Senese che, sfidato, ricambiò.
«E sta bene! Questa vostra tracotanza però vi costerà cara», disse puntando il dito contro Bacelli e Senese, «questa è una cambiale che pagherete salata!»
Se ne andò sbattendo la porta.
«Capo, questo se ne è andato e noi non avevamo finito!»
Bacelli sostava pensieroso. Guardò Senese. Era rosso come se si fosse tracannato un fiasco di Barbera d’un fiato.
«Ci ha detto che è stato lui…» Disse Bacelli con soddisfazione.
«Domani fai convocare la signorina Zamira Pacelli e dì a Colombo di richiedere una Ausiliaria.»
Non era passata una mezz’ora dall’uscita del Sansepolcrino che Carella spalancò la porta con altrettanta violenza.
«Bacelli, mi avete rotto i coglioni voi due, sapete chi è il Commendatore Fioravanti?»
«Uno stronzo…» rispose Senese sorprendendo lo stesso Bacelli.
Carella chiuse la porta e si avvicinò alla scrivania di Bacelli.
«Bacè… Tu non hai capito un cazzo! Tu morirai male Bacelli, tu e il tuo compare!» Disse indicando Senese che giocherellava con dei dadi di osso truccati sequestrati ad una fiera ai tempi della Guardia Nazionale.
«Voi qua durate poco! Ve lo dico io!»
Se ne andò imprecando lasciando di proposito la porta aperta. D’un tratto fece capolino Colombo.
«Capo… Oggi non è giornata mi sembra»
«Vieni dentro Colombo, non ti imboscare, un po’ di merda te la devi prendere anche tu!»
[1] Grado in uso nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
[2] Grado in uso nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
[3] In questo caso per “stella” si intende il sole.
[4] Polizia dell’Africa italiana.
[5] Per Mab si intende il moschetto automatico Beretta cal. 9×19.
[6] Gruppi di Azione Patriottica.
[7] Sono il Commissario Bacelli, siamo attesi dal tenente colonnello Schober!
[8] “Io ti uccido!”
[9] Formazione in ordine chiuso con i soldati disposti fianco a fianco.
[10] Il Servizio Ausiliario Femminile è stato un corpo femminile delle forze armate della RSI composto da volontarie chiamate comunemente SAF.
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COME UNA RANA AD APRILE di Gianluca Ellena (prima parte)
genere: POLIZIESCO