COMPAGNO DI STANZA CON GLI OCCHI VERDI di Alberto Baschieri

Arrivò nei pressi della palazzina e si accese una sigaretta; il giorno volgeva alla fine con tenerezza cedendo il passo alle stelle e alla luna, la quale visibilmente energica mostrava tutto il suo splendore con un luccichio costante.

Mentre aspirava con vigore il tabacco pensava tra sé e sé a ciò si stava accingendo a fare, si guardò in torno e si rese conto che fosse la prima volta che capitava in quel quartiere, elegante, popolato di villette graziose con dei giardinetti curati nei minimi dettagli.

Spense la sigaretta, si accertò che nessuno lo stesse guardando e poi spense la cicca sotto una scarpa e la buttò in un prato a lui prospicente.

Era una degli unici palazzi nel quartiere e messo a confronto con la sinfonia borghese del luogo quella torre sciupata che qualcuno aveva il coraggio, millantando orgoglio, di chiamare casa, era proprio una gomitata nella pupilla. Non fu difficile trovare il campanello, nonostante vi abitassero più di venti famiglie nel condominio, il nome era famoso e risaltava.

Suonò tre o quattro volte prima che una voce roca, con un accento locale gli rispondesse; “sesto piano” disse, e di più non proferì.

Il palazzo doveva avere almeno una cinquantina di anni e la muffa e le intemperie ne avevano minato quel poco piacere estetico che potesse infondere negli avventori. L’ascensore era strettissimo e odorava di orina di cane malato, sulle pareti qualche sciagurato aveva scritto a lettere cubitali con dello spray “viva la fica”.

Giunse al piano a lui indicato e all’uscita dell’ascensore si trovò davanti un vecchio canuto, con una barba ispida e i capelli nero corvino – logicamente tinti. Sfoggiava un uniforme da domestico di quelle che si vedono nei film americani di una volta.

“Voi dovete essere il giornalista” disse il maggiordomo schiarendosi la voce, cercando di rendere il suono emesso il più armonioso possibile.

 “Il signor Paoli per esattezza” confermò lui, il quale non ostante non potesse lamentarsi di aver fatto le scale era comunque trafelato per l’emozione: non tutti i suoi colleghi avrebbero potuto dire di aver intervistato un uomo di quel calibro.

Il maggiordomo sorrise davanti alla sua precisazione e mise al suo interlocutore una mano sulla spalla, facendogli segno di entrare in casa.

L’appartamento era molto più spazioso di quanto non potesse immaginare, il visitatore veniva per prima cosa fatto entrare in un’anticamera dove il maggiordomo lo invitava a togliersi la giacca e con fare sicuro l’appoggiava su un attaccapanni in oro – o se di oro non si trattava era veramente riprodotto alla perfezione.

Paoli stava per dirigersi verso quella che presumeva essere la sala dove l’incontro si sarebbe tenuto, quando l’altro uomo lo fermo e gli sussurrò qualcosa all’orecchio:

“Le consiglio estrema cautela fin da subito” balbettò strofinandosi i baffi con la mano mentre parlava.

“Vede, sua signoria è un uomo non solo attempato, ma anche molto singolare, le consiglio cautela, massima cautela.” Detto questo, con un ampio gesto della mano come se stesse spazzando della neve da un tetto, gli indicò la direzione.

Dovette attraversare una loggia dove su due trespoli erano seduti due gatti che lo osservarono con disprezzo e commiserazione, attraversò un corridoio ai quali muri erano appesi quadri del maestro in compagnia di vip, persone di alto rango sociale, presidenti e lobbisti.

Infine, giunse in una stanza piccola, molto piccola – essendo che lui se l’era immaginata un po’ come l’Ufficio Ovale.

Nella stanza aleggiava un tanfo di tabacco e scoregge che rendeva l’aria al limite del tossico. Su di una sedia a rotelle ad una estremità del tavolo sedeva un vecchio dall’età imprecisata, con una pipa in bocca, la quale dipanava a sé quella spiacevole cortina di fumo che Paoli dovette sopportare con risentimento per tutta la durata dell’incontro.

Tirò fuori un taccuino dalla borsa a tracolla e la borsa la appoggiò per terra, estrasse da un taschino dei pantaloni una penna da scrivere – la quale miracolosamente non aveva macchiato le braghe.

Il vecchio si spostò di qualche metro verso una mensola, afferrò qualcosa e ritornato nella sua posizione iniziale tirò l’oggetto verso il giornalista.

“Fumi pure, se vuole” proferì l’anziano.

Lui rimase colpito dalla sua estensione vocale e dalla potenza riverberante del suo parlare, si sarebbe aspettato di trovarsi qualcuno di ben più emaciato e disabile, rise tra sé e sé, poi smise per paura di venire scoperto. Sebbene avesse visto in numerose fotografie, sulle riviste, sui giornali il volto di colui che si accingeva ad intervistare, avrebbe voluto, avrebbe preferito poterlo vedere in volto dal vivo, cosa che non gli riuscì a causa di quella fitta nebbia che scaturiva dalla pipa del vecchio e ora pure dalla sua sigaretta che si era appena accesa.

“Prima che cominci” disse il vecchio “ci terrei a farle una piccola richiesta, che per me risulta di fondamentale importanza”.

Ci fu qualche minuto di pausa, entrambi sorbivano con cupidigia dal proprio dispensatore di fumo, fuori aveva cominciato a piovere.

Paoli fece un segno con la mano per esprimere il suo favore alla richiesta avanzatagli – se avesse provato in quel momento ad acconsentire attraverso una sola parola, pensava che gli sarebbe andato di traverso il fumo e sarebbe morto.

“Ci terrei che si rivolgesse a me utilizzando l’epiteto onorevole o maestro. Onorevole andrebbe benissimo” e sbuffò di nuovo creando un nuovo strato di fuliggine attorno alla sua figura.

Il giornalista acconsentì, si allungò e spense la sigaretta in un posacenere a forma di elefante, dal gusto asiatico.

“Dunque”, proseguì il maestro “immagino che lei sia stato mandato qui dal suo giornale per intervistarmi circa la mia ultima opera” e si diresse con la sedia verso la stessa mensola di prima, aprì gli scomparti di una vetrinetta e ne estrasse un alcolico pesante e un bicchiere, tornò indietro e si versò mezzo bicchiere di quello che a Paoli sembrò decisamente del rum.

“Molti dicono, signore, che si tratti di una delle sue opere più rappresentative e che vista la sua esperienza del campo della pittura e la longevità della sua carriera” fece una pausa “molti pensano che si possa trattare della sua ultima opera”.

“Molti dicono maestro, molti dicono maestro… cielo è così difficile?” e spazientito batté i pugni sul tavolo, finendo per farsi male ad una nocca, imprecò.

Si avvicinò con la sedia a rotelle alla finestra, la aprì e lasciò defluire tutta la nicotina e il catrame via dalla stanza, guardò fuori, piccole gocce timide si suicidavano buttandosi giù dalle nuvole toccavano il suolo o coloro che passavano con l’ombrello i quali si fermavano un secondo, tastavano l’aria con la mano orizzontale e poi schizzavano via, verso un’altra direzione, verso chissà dove.

Non appena si fu sincerato che tutto il fumo fosse uscito, richiuse la finestra e cominciò a pensare, Paoli era pronto con la penna a segnare ogni singolo respiro del maestro.

“Quando ero giovane o, meglio, quando ero meno vecchio di oggi, ho ucciso un uomo. Ebbene sì, un tempo mi sarei vergognato a dirlo ma adesso ci penso e mi dico, fanculo, ho un cancro ad uno stadio avanzato, la mia salute non è mai stata così precaria e sto per morire; in fin dei conti ho novantadue anni e la mia vita l’ho fatta, bella o brutta che essa sia stata. Perché dico tutto questo ora? Perché non mi mordo la lingua e non mi porto questo segreto nella tomba? Senso di colpa e tentativo di espiazione del peccato o puro esibizionismo? Questo me lo direte voi. Ma io personalmente, fatti due conti, penso di doverglielo questo a Francesco, perché è lui che è rimasto ucciso ed è lui che ha dato il là alla mia carriera.”

Fece un respiro profondo e trangugiò una boccata di rum come un neonato che cerca l’aria per la prima volta.

“Non so perché lo chiamassimo tutti Francesco, il suo vero nome era Rocco o qualcosa del genere, probabilmente si vergognava delle sue origini e voleva camuffare la propria provenienza. Quando l’ho conosciuto io, lui scommetteva pesantemente su qualsiasi cosa corresse a più di cinque chilometri orari. Dormiva in un catorcio di merda che aveva il coraggio di chiamare auto e frequentava i posti che i senza tetto frequentano. Io ero giovane ed ero appena scappato di casa. Di lì a qualche tempo gli portarono pure la macchina e cominciò a dormire sulle panchine. Io già a quell’epoca me la cavavo con i disegni, ma fu lui a muovermi i primi complimenti che mi diedero la voglia di continuare; ed era così che mi guadagnavo il pane da vivere, ma lui era invidioso e litigammo, lui mi tirò un pugno, io lo spintonai, lui cadde e morì così. Io allora cambiai nome e città e cominciai ad esercitarmi tutti i giorni nella pittura, e pian piano sono arrivato dove sono arrivato oggi.”

Prese il respiro e finì di ingurgitare il rum.

Paoli lo fissò, come si fisserebbe il demonio se lo si vedesse per la prima volta, pupille spalancate respiro corto, cercò l’uscita con gli occhi, il suo corpo si preparava alla fuga o all’attacco.

Passarono pochi minuti ma per lui furono anni, quando si riprese dallo shock iniziale il maestro era tornato con un quadro in mano, molto fiero, come se stesse per presentare suo figlio al mondo per la prima volta.

“Il compagno di stanza dagli occhi verdi, ecco la mia opera” annunciò con voce squillante “e sì, se tutto andrà come deve andare, sarà anche la mia ultima opera”.

 Appoggiò il quadro sul tavolo e riaccese la pipa, Paoli si alzò per avvicinarsi ma ad un certo punto avvertì un forte dolore alla nuca e perse i sensi, pian piano il mondo attorno a sé si fece più rarefatto, le voci tenui, gli odori soffusi. Nella sua mente tutto ebbe la stessa consistenza, anni giorni e minuti valevano lo stesso.

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