CONDANNATO di Andrea Di Massimo
genere: THRILLER
Il dottore, tenendo in mano la sua cartella clinica, rientrò nello studio senza alzare lo sguardo verso di lui. Sostò per lunghi momenti in piedi, girando la prima delle due pagine di cui la cartella si componeva. Rimanendo in silenzio, mosse poi due brevi passi per raggiungere la sedia girevole dietro la scrivania.
Lui continuava a fissarlo, ugualmente silenzioso, sforzandosi di tenere la mente sgombra da qualsiasi pensiero.
Il dottore annuì un paio di volte fra sé. Emise un sospiro profondo, subito prima di alzare la testa e guardarlo negli occhî.
«Mi dispiace» disse, lo sguardo che non tradiva alcuna particolare emozione «non c’è molto da fare per lei, signor…» pronunciò il suo nome.
Sì, era il suo nome, quello.
Era stato appena pronunciato da quel medico dal contegno impassibile, risuonando nella stanza spoglia con una strana eco metallica.
Aveva detto il suo nome, e lo aveva fatto guardandolo in faccia; dunque, ce l’aveva con lui, era proprio a lui che si stava rivolgendo.
Avrebbe fatto meglio a capirlo una volta per tutte.
«Purtroppo,» continuò il medico «il suo caso è particolarmente sfortunato. Quella da cui lei è affetto è una forma degenerativa di origine genetica assai rapida e piuttosto rara, che non lascia molto spazio a interventi terapeutici. Si può cercare di contrastarne in parte il progredire ma sarebbero più che altro cure palliative che non sortirebbero altro effetto se non quello di prolungarne il decorso, dall’esito comunque scontato e inevitabile… devo dire che anche un trattamento con materiale omologo nel suo caso si rivelerebbe pressoché inutile, se non addirittura controproducente, quindi… non so quanto questo le converrebbe» concluse, suggellando quella sentenza inappellabile con un secondo sospiro.
Credette di riconoscere un’eco dolente, in quelle parole, ma forse non era che una sua illusione, o al massimo solo una cantilena lamentosa dettata al medico dall’abitudine.
Sentì una vampa di freddo attanagliargli le viscere, risalire su per il suo corpo come un serpente sinuoso, lambirgli il cuore, dilagargli in gola in stille gelide, solide, quasi.
Voleva parlare, ora, ma non ci riusciva.
Avrebbe tanto voluto farlo nel modo meno scontato, risparmiandosi di indagare circa la sicurezza di quelle affermazioni, l’accuratezza delle analisi, e tutto quello che di ovvio e di disperatamente ozioso viene di solito chiesto dai pazienti in casi come il suo.
Anche mettersi a urlare che trent’anni erano troppo pochi per sentirsi dire una cosa simile, anche questo gli appariva un comportamento da scartare.
Aveva sempre cercato di tenere in gran conto la propria dignità, e non voleva venir meno a questo proposito neanche adesso. Questa ferma risoluzione gl’instillò d’un tratto un fremito d’orgoglio.
«Mi dispiace davvero» ripeté il medico, forse nel tentativo di strapparlo a quel silenzio da cui lui pareva invece voler essere inghiottito. Forse quasi temendo di poterne essere inghiottito a sua volta.
«Sì, …» disse lui, riuscendo infine a deglutire le stille gelide che gli avevano paralizzato la lingua fino a quel momento «sì, certo…» ripeté insensatamente, cercando di aggrapparsi a una qualsiasi domanda che lo tirasse fuori dalla palude di silenzioso terrore in cui stava sprofondando «quanto… quanto ci vorrà…?» chiese infine, accorgendosi troppo tardi che anche questa era una domanda alquanto banale… eppure lui credeva di aver sempre odiato la banalità.
«Difficile dirlo già adesso» rispose il medico, tradendo qualcosa che somigliava a una strana, faticosa gratitudine verso di lui per aver finalmente parlato» difficile perché il decorso è soggetto a una grande variabilità individuale. In ogni caso, volendone quantificare temporalmente la durata, direi che ci vorranno dai sei agli otto-dieci mesi. Un anno al massimo» concesse.
Dai sei ai dodici mesi, si ripeté lui mentalmente. Una durata tipica.
Nei film aveva sempre sentito dire così. Le rimangono dai sei ai dodici mesi. Anche il medico ne doveva aver visti tanti di film così.
«Purtroppo, allo stato attuale la scienza medica non può fare più di tanto per un caso come il suo» precisò inutilmente il dottore.
«Mi rendo conto» disse lui, anche se non era vero.
Come avrebbe potuto? Due colpi secchi e ravvicinati alla porta interruppero il loro dialogo stentato.
«Avanti» disse il dottore.
Entrò il suo assistente, un giovane ricercatore dall’aria seria e scrupolosa. Vedendolo, l’assistente si bloccò sulla soglia, trasalendo leggermente.
«Il signore è stato appena informato dell’esito delle analisi» gli comunicò il dottore.
«Capisco» commentò il giovane.
Gli gettò un’occhiata rimanendo in silenzio, senza poter nascondere l’imbarazzo.
«Comprendo la sua… delusione» riprese a dirgli il medico «ma cerchi di reagire».
Delusione? Aveva detto proprio così: delusione.
Possibile che non fosse capace di trovare una parola più adatta a una notizia come quella che gli aveva appena dato? Per lui un fatto del genere, una catastrofe come quella non era che una semplice delusione?
Non poteva crederci.
“Un mancato aumento di stipendio” quella era una delusione.
“La sconfitta della propria squadra del cuore” ecco un’altra delusione.
“Ma una cosa simile… che genere di scala di valori applicava mai, quel dottorino saccente che gli stava di fronte?” si chiese.
Distolse lo sguardo dal dottore, volgendolo verso la porta d’ingresso dello studio. All’improvviso si sentiva soffocare, aveva bisogno di respirare aria, aria che non fosse quella stantia e opprimente dello studio medico.
Fuori era una così bella giornata, si disse. Cercò in sé le energie per alzarsi dalla sedia, studiando il percorso che lo separava dall’uscita come se fosse ora diventata una distanza incolmabile e accidentata, da affrontare solo dopo averla studiata a fondo.
«Grazie di tutto, dottore» disse poi.
Radunando le forze, fece leva sulle gambe per alzarsi.
Si protese in avanti per stringere la mano al medico, il quale lo ricambiò rimanendo seduto.
Si voltò verso la porta che intanto l’assistente aveva richiuso, avvicinandola a passi ampî ma esitanti, fissando la maniglia come un miraggio.
La afferrò con la mano sudata, e la premette con tutta la forza che aveva sotto lo sguardo incrociato del medico e del giovane, che si scostò per lasciarlo passare.
Quella si piegò docilmente, scivolando appena dalla sua presa nervosa quando era già abbassata del tutto.
Varcò la soglia dello studio senza voltarsi, e richiuse la porta facendola sbattere senza volerlo.
Il medico rimase a fissare la porta chiusa per qualche istante, scambiando solo una rapida occhiata con il suo collaboratore. Poi distolse lo sguardo e si strinse nelle spalle mettendo da parte la cartella clinica.
Il sole lo inondò, appena uscito dallo studio, avvolgendolo nell’abbraccio tiepido di quella primavera ormai inoltrata.
Tutt’intorno a lui la natura ostentava la propria rinascita, nel rigoglio oltraggioso di colori vividi e odori pungenti che aggredivano i sensi fino a stordirli.
La zona tutta giardini e viali alberati che sorgeva intorno all’edificio che ospitava lo studio medico, sembrava fatta apposta per restituire l’ottimismo e la serenità a quanti da lì uscivano rinfrancati dopo aver ricevuto una buona notizia.
Ma a quelli come lui, rifletté ora con rabbia, che uscivano con l’unica certezza di una sicura condanna della sorte, tutta quell’esplosione di natura appariva insultante, beffarda.
Era la vita che si prendeva gioco del dolore, la dimostrazione più vistosa di cosa fosse capace la natura quando ogni cosa funzionava a dovere, sbattuta in faccia a chi, invece, doveva affrontare le conseguenze di ciò che, per qualche ragione incomprensibile, in lui non funzionava più.
Ma il mondo era ingiusto, questo lo sapeva. Credeva di averlo sempre saputo, almeno. Ma sapere qualcosa senza averlo provato sulla propria pelle, sulla pelle della propria anima, non è vero sapere. Se ne rendeva conto solo ora.
Di ciò di cui non si è fatta reale esperienza non si può avere che una vaga nozione astratta. Ciò che solo conta è quello che si imprime nella carne del cuore, e questo avviene immancabilmente a prezzo di copiose perdite di sangue… come quelle che avvertiva ora star prosciugando la linfa vitale che ancora gli correva in corpo, come acqua da una spugna che venga strizzata con forza.
Dopo essere rimasto fermo a fissare lo sguardo davanti a sé per vuoti attimi, che sporgevano dall’orlo del tempo come grumi di cera da una candela troppo consunta, iniziò a camminare, senza preoccuparsi della meta.
Che importanza poteva avere averne una, ormai? Lasciò che i suoi passi si susseguissero con piatta indolenza l’uno dopo l’altro, indifferenti alla direzione che prendevano.
Aveva come l’impressione che a quel punto potesse permettersi di lasciar andare il controllo sul suo stesso corpo, come a dire alle varie parti che lo componevano: “adesso fate un po’ come vi pare, non è più affare che mi riguardi…”.
Provava una sorta di sorda rabbia verso il suo corpo, rabbia che gli premeva ora impotente contro le pareti dell’anima; quel corpo che in un certo senso – così gli pareva – lo aveva tradito, e lo aveva fatto senza alcun motivo. Perlomeno nessuno che lui fosse in grado di vedere, né tantomeno di capire.
Si scoprì a desiderare, di colpo, che il suo corpo venisse smembrato; che tutte le sue parti, le braccia, le mani, le gambe, la testa, il busto, se ne andassero ciascuna per la sua strada, e che la sua consapevolezza complessiva, quel nucleo in fondo illusorio che gli dava l’inevitabile arroganza di pensare a quell’insieme eterogeneo di parti diverse per aspetto e funzione, come “Io”, potesse semplicemente dissolversi nell’istante stesso di quello smembramento, senza dolore né rimpianti, senza piú rabbia né speranza.
Gli sembrò che il solo pensarlo gli desse un vago senso di sollievo.
Intanto le sue gambe, lasciate a sé stesse, lo avevano portato ben lontano dallo studio medico, inoltrandosi per vie sconosciute che non avevano mai percorso prima, e che, se ne rendeva conto solo ora che vi aveva prestato attenzione, lo stavano conducendo in una zona all’estrema periferia della città.
Lì, gli scheletri di edifici in perenne costruzione si ergevano l’uno dietro l’altro, come abbozzi di sentinelle gigantesche in attesa che qualcuno si decidesse a completarne la fisionomia. Quelle costruzioni dall’aspetto ancora impredicibile, gli sembrarono occupare sulla scala dell’esistenza, una posizione diametralmente opposta alla sua.
Mentre esse si affacciavano appena sul mondo, e virtualmente ancora non vi erano entrate del tutto, lui aveva già infilato la china discendente, che preludeva – di questo era convinto – al momento in cui sarebbe dovuto uscirne.
Del resto, erano così che andavano le cose.
Nessuno poteva cambiarle.
Poteva avere qualche rimostranza da fare sul tempo trascorso, che gli sembrava essere stato troppo breve perché le cose avessero già preso quella parabola crepuscolare, questo sì… ma non sarebbe comunque servito a niente. E poi, a chi avrebbe potuto fare quelle patetiche rimostranze?
A Dio? Non Lo aveva mai conosciuto, e non avrebbe saputo dove recapitargliele.
Al Destino? E cos’era mai il Destino, se non l’ombra indefinita della stessa coscienza umana, il quale si rivelava soltanto a posteriori delle cose accadute, in modo che tutto combaciasse in maniera impeccabile con presunti principî che però venivano dedotti solo a cose fatte?
Al Caso? Avrebbe avuto senso prendersela con chi per definizione è cieco e non vede dove va…?
A ogni modo, sapeva bene che né Dio, né il Destino e neppure il Caso, accettano reclami sul proprio operato, e allora che senso aveva macerarsi in quelle assurde considerazioni? Inoltre, non c’era forse chi aveva avuto a disposizione anche meno tempo di quanto ne avesse avuto lui?
Che questo fosse giusto oppure no, non era una questione di cui potesse occuparsi.
La filosofia spicciola non gli era mai andata a genio, e non v’era motivo perché le cose cambiassero solo perché aveva ricevuto una notizia che gli aveva rovinato l’esistenza. Con sua stessa sorpresa, man mano che rifletteva su queste cose, la rabbia sembrava allentare la presa sul suo cuore stanco, come se persino essa avesse capito che non valeva più la pena di perdere tempo a cercare di spremerlo ancora, debole ed esangue com’era.
Come se ormai da lui e dal suo cuore non potesse più cavare una sola goccia di sangue, e dunque tanto valeva abbandonarli al loro destino.
Ma più che una liberazione, gli sembrava una resa. Definitiva.
Mentre la sua testa e il suo cuore cercavano di trovare un difficile raccordo, le sue gambe, incuranti di entrambi, avevano di colpo deciso di portarlo sotto uno di quegli scheletri di cemento, che si sforzavano grottescamente di anticipare l’essenza di ciò che forse un giorno sarebbero stati.
In quella giornata prefestiva gli operai avevano cessato di lavorare anzitempo, e ora i futuri palazzi si presentavano vuoti e silenziosi; gli fecero pensare ad alveari che fossero stati abbandonati dalle api prima di essere completati, lasciati precipitosamente a sé stessi a causa d’una qualche catastrofe inimmaginabile.
Senza quasi prestarvi attenzione, né sapere il motivo che lo induceva a farlo, si issò su un cancello in legno ampio ma piuttosto basso, unica barriera che separava il cantiere dalla strada; lo scavalcò e si lasciò cadere dalla parte opposta, come se stesse guidando il corpo di qualcun altro.
Passando davanti alla piccola porta d’un provvisorio ufficio di progettazione vide balenare un’immagine riflessa nel vetro quadrato che si trovava infisso nella metà superiore.
Gli ci volle qualche attonito istante per riconoscere in quel riflesso piatto e sbiadito l’immagine del suo viso. I suoi lineamenti, su cui il tempo pareva non essersi soffermato con troppa convinzione, conservavano l’impronta di una giovinezza che sembrava ancora ben di là dall’esaurirsi.
Il suo sguardo indugiò in particolar modo sui capelli, che crescevano apparentemente ancora fitti e tutti del loro colore originale; era sempre andato così fiero dei suoi capelli… eppure, nonostante quell’ingannevole riflesso si sforzasse di comunicare un’idea di giovinezza e di benessere, lui aveva appena saputo che la sorte che lo attendeva era ben diversa. Con una calma determinazione, si guardò allora intorno, trovando a pochi passi di distanza ciò che cercava.
Andò a raccogliere un mattone da una catasta pronta per essere usata nei giorni seguenti, e, tornato di fronte alla porta, lo scagliò con una collera fredda come lo sguardo di un serpente contro quel vetro bugiardo.
La sua immagine andò in pezzi col fragore di un piccolo ghiacciolo spaccato da un punteruolo d’acciaio, e tutti i frammenti che la componevano sembrarono volersi portar via gelosamente un brandello della sua figura riflessa, svolazzando oltre la soglia della porta come tante farfalle di cristallo.
Dopo quello che gli sembrava a tutti gli effetti essere stato un piccolo atto di giustizia, si riaffidò alla volontà delle sue gambe che decisero di salire le scale già realizzate all’interno di quella goffa promessa di abitazione.
Era una fortuna, gli venne di pensare, una vera fortuna, che in quei trent’anni scarsi non avesse avuto l’insana idea di formarsi una famiglia.
Se l’avesse fatto, cedendo a qualche fuggevole suggestione che due o tre volte gli si era presentata sulla soglia della fantasia, come una giovane e affascinante attrice desiderosa di una scrittura da un regista famoso, ora si sarebbe trovato in una situazione ancor più penosa. Avrebbe dovuto comunicare quella tremenda notizia anche a sua moglie, per non parlare dei figli, se ne avesse avuti.
Non osava neppure immaginare come sarebbe stato il solo dover pensare a un’eventualità del genere; in qualche impensabile modo gli riuscì perfino di provare una specie di distorta gratitudine per una sorte che lo aveva, sì, beffato, ma che almeno si era trattenuta dall’infierire oltremodo risparmiandogli complicazioni ancora più crudeli.
Il pensiero dei parenti, mentre saliva la rampa del secondo piano, fu poco più di un’ombra vacua; i suoi genitori gli erano sempre sembrati prediligere l’intraprendente fratello maggiore e la giudiziosa sorella minore, senza troppo far caso a quello che doveva apparirgli come il loro anonimo, incolore figlio mediano.
Dopotutto per loro la notizia che una malattia degenerativa lo aveva colpito sarebbe stata di certo mitigata – di ciò era sicuro – dal conseguente sollievo che questo non fosse capitato piuttosto a uno degli altri figli.
Quanto agli amici, poi, si disse – inaugurando i gradini del terzo piano – o presunti tali… già il loro numero assai esiguo non era in grado di infondergli chissà quali preoccupazioni, né inoltre la qualità di quelle amicizie era tale da fargli temere che qualcuno potesse davvero rimanere ferito da una disgrazia capitata a lui.
Meglio a lui che a me, avrebbero tutti pensato.
Sì, in quel momento avrebbe anche potuto scommetterci, sicuro di vincere!
E allora, se era questa la situazione, tanto valeva… tutto questo pensava la sua mente, quando anche le rampe del quarto piano stavano esaurendosi, invischiata sempre più in un reticolo invisibile di cupe fantasie deformate dal dolore e dalla disperazione.
Il suo cuore, invece, batteva in maniera irregolare e sincopata quegli attimi convulsi, incapace ormai di tenere il ritmo di un tempo che dentro di lui sembrava aver accelerato indefinitamente, in maniera esponenziale, e altrettanto incapace di comunicare alla mente che doveva cercare un’uscita da quel labirinto di delirio in cui si era rinchiusa.
Le sue viscere si contorcevano frementi, come pitoni che stringessero le spire intorno alla preda; o forse, più probabilmente, erano esse stesse azzannate da un predatore ben più terribile di loro, silenzioso e nascosto, che le stava dilaniando con denti aguzzi e taglienti come rasoi.
Quando fu per arrivare in cima al vuoto scheletro di mattoni abbandonato, lo invase il pensiero che forse aveva ottenuto davvero una sorta di smembramento come si era scoperto ad auspicare, e che tutte le parti del suo corpo si fossero già virtualmente incamminate per conto loro, ognuna dimentica delle altre e col suo proprio percorso davanti.
Quasi a conferma di questa improvvisa rivelazione, le sue gambe, in piena autonomia, continuarono a fagocitare passi meccanicamente, inesorabilmente, persino dopo che non vi fu più un pavimento su cui imprimerli, una superficie da calpestare, e che il suo corpo – ancora apparentemente tutto intero, per quel che poteva contare – iniziasse la rapidissima discesa verticale verso il terreno distante almeno venti metri più in basso.
Nell’attimo in cui si trovò sospeso nell’aria, la sua mente venne attraversata, così come lo è un cielo appiattito da nubi di piombo da un folgore accecante, dalla certezza che sì, quella presa dalle gambe era stata di sicuro la decisione più adatta, quella più giusta, e che non c’era proprio nulla da rimpiangere né da recriminare… chi nutrì forse qualche flebile quanto ormai inutile dubbio fu il suo cuore, che iniziò a battere all’impazzata nel preciso istante in cui tutto il corpo cominciò la caduta; quando poi, dopo un’eternità di un paio di secondi, si schiantò a terra, producendo il tonfo sordo di un grosso, inutile sacco di sabbia, il buio penetrò nella sua consapevolezza, sciogliendola all’istante e portandone via i residui come uno spazzino efficiente e pietoso.
***
Nell’atto di riordinare le cartelle dei varî pazienti poco prima di chiudere lo studio, il giovane assistente posò lo sguardo sul nome di quel paziente che aveva incrociato quasi sulla soglia dopo che a quello era stato comunicato l’esito delle analisi cliniche.
«Come pensa che elaborerà il trauma» chiese al dottore «quel paziente di oggi pomeriggio? M’è sembrato così sconvolto dalla notizia…»
«Be’, dovrà farsene per forza una ragione, prima o poi» gli rispose il dottore distrattamente, mentre anche lui finiva di mettere a posto le ultime carte prima della chiusura del lungo ponte festivo «È vero che aveva l’aria di averla presa proprio male, però, che diamine… gli ho solo comunicato che la sua calvizie incipiente non è curabile e che avrà un decorso molto rapido; per quanto possa dispiacergli, non è certo questione di vita o di morte; ci sono sempre le parrucche!» ridacchiò il dottore, mentre riponeva in un cassetto la targhetta posata sulla scrivania; impressa sulla plastica bianca faceva seguire al suo nome la qualifica professionale:
“specialista in tricologia”.
CONDANNATO di Andrea Di Massimo
genere: THRILLER