CORSI E PERCORSI di Francesca Antonia Tinelli

Nel cielo autunnale, gli uccelli migratori non volano: danzano.

Si riuniscono in gruppo, si inseguono, si allontanano e si ricompattano. Formano figure strane, roteanti, piramidali, cuneiformi, arzigogolate e prismatiche. Ondeggiano, cantano e stridono. Nell’aria, volteggiano e si librano insieme. Sono uniti e, per questa ragione, sono anche più vivaci ed energici.

Nondimeno, nella moltitudine agitata c’è sempre quello scontento, che rinuncia alla propria libertà individuale, per beneficiare della forza dello stormo, sicché i battiti d’ali, in sincrono, si alternano a brevi e rasenti planate, in solitaria. A seconda del movimento, gli occhi della gente incantata è in grado di distinguere le variazioni tonali del piumaggio, nei mutamenti variegati di uno sfavillante effetto ottico.

Quell’anno, erano tantissimi i volatili che avevano deciso di andarsene via, prima del solito, sebbene le temperature non si fossero abbassate granché, tanto da consentire, a quei pochi paesani, intrepidi e temerari, di godersi gli ultimi bagni di una stagione estiva, prolungata da un’immaginaria alterazione delle date del calendario.

Nelle annate precedenti, gli uccelli ardimentosi, che erano rimasti a svernare in zona, erano stati proprio quelli stanziati sugli alti pini d’aleppo e marittimi, che accompagnavano la strada verso il litorale, nella frazione marina. La spiaggia si popolava ed animava soprattutto in estate, grazie ai turisti. Comunque, vi erano poche famiglie che, ivi, risiedevano stabilmente, quali custodi della circoscrizione, durante tutto l’anno.

In passato, il clima dell’arco jonico era stato piuttosto mite anche nei mesi, che andavano da settembre a marzo, perciò gli aironi, i cavalieri d’Italia, le cicogne e le altre specie di volatili, il più delle volte, avevano rinunciato volentieri ai lunghi viaggi, per beneficiare dei tenui cambi di stagione, senza affannarsi a trovare lidi più tropicali.

Tra i vari uccelli stanziali v’erano pure le gazze ladre, che avevano trovato il proprio habitat ideale, sui rami degli ulivi di Cosma Dattilo. Le foglie argentate e verdognole delle molteplici qualità di olive, tra le quali la leccina, l’ogliarola e la taggiasca, rappresentavano il regno di quei pennuti vivaci, che avevano scelto di nidificare, sui profumati legni secolari.

L’uomo si stava arrabbiando tutti i giorni, prima della raccolta, quando al mattino presto si rendeva conto, che erano davvero poche, meno di quanto credesse, le olive da portare al frantoio, affinché venissero spremute.

Come nelle annate passate, aveva sperato che potesse ricavarne la quantità d’olio sufficiente, per l’uso famigliare e, magari, per regalarlo in occasione delle feste, disobbligandosi di un qualche presente o di un favore ricevuto.

Il contadino metteva le reti a terra e colpiva energicamente i rami con i bastoni. Tuttavia, se le olive non cadevano dai tortili alberi antichissimi, anche a causa di una raffica di vento, scuotitrice di fronde, i piccoli frutti carnosi verdi o bruni, che restavano vicini alle foglie, venivano mezzi mangiati dai volatili. Questi ultimi avevano sfregiato pure le drupe, da mettere sotto sale oppure “spaccate”, con olio e aceto, o da conservare, in salamoia, con le spezie.

Insomma, Cosma era giunto all’esasperazione ed imprecava contro tutto e tutti.

Alle 09:30 del mattino, una pioggerellina fina fina cominciò ad infastidirlo, pertanto, decise di fermarsi a mangiare, al riparo di un locale, usato come deposito per gli attrezzi. Alle 05.00, aveva preso soltanto un caffè ed era normale che, dopo qualche ora, gli venisse fame, desiderando divorare tutto quel che i suoi occhi scovassero di commestibile.

Di solito, quando non rincasava, per spazzolarsi gli avanzi del giorno prima, e restava nei terreni a godersi i colori e i profumi dei campi, il suo spuntino era rappresentato da un pezzo di pane avanzato, che portava sempre con sé in tasca, nonché dalla frutta fresca, come companatico.

A seconda del periodo, coglieva uva, pere, nespole e agrumi, accarezzando i frutti, con le sue mani ruvide, per ripulirli dalla terra, dagli insetti, dalle ragnatele o dalla resina appiccicosa degli alberi.

Sazio della merenda, non appena smise di piovere, pensò bene di andare alla fonte a bere e, visto che si trovava, pure a cercare i “cavuri”, cioè i granchi.

Si stava dirigendo verso una cascatella naturale, dove sgorgava dell’acqua fresca e limpida. Dalla sorgente partiva una lama che, per un tratto, era sotterranea ed emergeva, proprio dove c’erano gli zampilli di quel piccolo fontanile. Intorno alla riva del breve corso d’acqua, crescevano fitte delle canne, che nessuno osava toccare, perché rappresentavano un utile confine naturale, intuitivamente separatore degli appezzamenti dei due proprietari confinanti.

Col tempo, i bambù erano diventati troppi, esageratamente alti, mezzi piegati e secchi. Erano brutti a vedersi, anche perché erano ricettacolo di topi e di rettili. Per un cambiamento di direzione del corso del canale, operato alcuni decenni addietro dagli operai del Consorzio, addetti alla bonifica dei fondi rustici, la lama d’acqua partiva deviata, all’interno del terreno del vicino Leonardo Muscatello, pertanto, quand’anche il rivolo fosse pubblico, per poter andare ad abbeverarsi, giustappunto lì, dove l’acqua era limpida e trasparente, non verdognola a causa delle alghe e delle mucillagini, bisognava entrare nel terreno altrui. Benché non fosse così, a seguito dell’esproprio, il possessore del terreno sul quale si trovava l’origine del canale si era auto-investito della titolarità del diritto di proprietà della fonte e, altresì, dei pesciolini, delle rane e di tutti i granchi, che vi avevano trovato rifugio, incavando nei pressi un cunicolo, entro il quale rintanarsi.

Dopo un’estate caratterizzata dalla siccità, la terra inaridita si era spaccata in svariate zolle compatte di un collage polveroso ed uniforme.

Il caldo era ritornato asfissiante: quel breve scroscio non aveva rinfrescato assolutamente né l’aria, né la terra, né tantomeno le piante.

Cosma bevve alla cascatella naturale. Si lavò il viso, schiaffeggiando il volto con forti manate, facendo entrare l’acqua nelle narici. Quando strofinava grossolanamente la faccia, pareva brontolare, addirittura, come un cavallo. Infine, non refrigerato, piegò direttamente la testa sotto il getto dell’acqua, che scivolava, sino a bagnargli il petto villoso e la camicia, lasciata aperta a metà.

Iqbal, il suo aiutante pakistano, che l’aveva seguito come un’ombra, attese paziente il suo turno. Ripeté la medesima operazione, per dissetare la gola arsa, della quale non si lamentava come, al contrario, faceva Cosma. Oltre a bere, si fermò a fare, altresì, una toeletta del viso più delicata rispetto all’altro.

Nei giorni antecedenti, dopo i rapidi piovaschi imperversanti sulle campagne, che avevano avuto la stessa durata e la medesima intensità delle bave cascanti dalla bocca di un neonato, il Sig. Cosma non vi aveva trovato alcun granchio, pur recandosi a visionare quei buchi, scavati nella rena, e a scandagliare accuratamente, lungo tutta la riva della palude. La cosa gli sembrava strana, ma aveva attribuito la mancanza dei crostacei al fatto che qualcun altro si fosse mosso prima di lui e questo qualcuno, altri non poteva essere stato, se non il suo vicino di podere. Era l’ennesima volta che capitava.

La contesa dei “cavuri” era un affronto che non poteva durare oltre. Gli avrebbe dovuto dire che, da buoni vicini, per correttezza, avrebbero dovuto spartirseli: una volta ad uno, una volta all’altro. Non era mai stato tanto goloso di sugo di granchio, come in quel momento, che non poteva soddisfare la sua acquolina.

La mente gli si arrovellava sulle motivazioni plausibili: secondo lui, le si potevano rinvenire tutte in un infimo e meschino dispetto personale. Non era la prima volta che discutevano su qualcosa e raramente riuscivano a comporre bonariamente la questione, senza imprecare, l’inerme Cosma, contro “Santo niente”, e Leonardo, con un fucile in mano, spianato contro chicchessia. Arma che, sia pure scarica, imbracciava addirittura in direzione del figlio Martino, quando non gli andava a genio una qualche sua azione o semplicemente non condivideva una presa di posizione, foss’anche verbale. Sparava in aria e, non appena si scaricava il fucile, si calmava pure lui.

In quel momento, il pensiero fisso di Cosma Dattilo era incentrato nel reperire gli estremi di una ritorsione personale, priva di qualsivoglia collegamento, col semplicissimo e lapalissiano piacere di gustarsi un bel piatto di pasta al sugo di granchio.

Alcuni uccelli sbatterono le ali e fuggirono via: qualcuno stava sparando in aria. Quel suono era diventato famigliare per Cosma, il quale finalmente vide il suo rivale appropinquarsi alla fonte.

Il confinante era rimasto nei terreni e non era ritornato nel suo casale, nonostante il breve scroscio.

Il suo vicino Leonardo sfregò, grossolanamente, le mani sporche e sudate, sui pantaloni, per asciugarsele alla bene e meglio. Prese dalla tasca il fazzoletto, a fantasia ruggine su sfondo ocra, e se lo mise in testa, aggiustandosi ai 4 vertici dei nodi, che adattava e stringeva, per farsi calzare bene l’inusuale copricapo ricavatone. Quando guardava in lontananza, posava la mano a paletta sulla fronte, al fine di ombreggiare le pupille, riparandole dai raggi solari, che gli infastidivano la vista.

Prese il vecchio mummolo di ruvida terracotta color sabbia, al quale era andata via la copertura di smalto esterno giallo arancio. Tolse il tappo di sughero, lo alzò, facendo ricadere il peso del vaso sull’avambraccio e bevve l’acqua, che si conservava fresca, come se fosse un thermos. Poi, si piegò anch’egli verso la fonte per riempirlo nuovamente.

Come tutte le altre volte, Cosma approfittò dell’occasione e reclamò, ma quello, puntualmente, osò negare di aver visto anche una sola chela.

Chiaramente, il primo pensò che Leonardo stesse mentendo. In effetti, quest’ultimo non stava badando ai granchi, che pure ammetteva di non raccogliere da tempo. Nel corso del discorso rivelò di essere infastidito, esattamente quanto l’altro agricoltore, dall’opera dispregiativa che gli uccelli stavano compiendo sulle sue povere piante, martoriate dalle lacerazioni e dalle punzecchiature.

Entrambi subivano la medesima sorte e, nella digressione dal ragionamento iniziale, si ritrovarono solidali e comprensivi, nei confronti dei reciproci malumori.

Anche gli altri proprietari terrieri, incontrati la sera in piazza o nell’ufficio locale del sindacato, sapevano quanto fosse difficile riuscire a gestire la raccolta malandata, a causa di una vasta gamma di intemperie, come le piogge persistenti, le grandinate e le nevicate, imperversanti ed infierenti sulle loro povere piantagioni, nel corso dei mesi. Se alle calamità naturali si aggiungevano le famigerate beccate degli uccelli, per i frutti posti in alto sugli alberi, o i morsi degli animali selvatici, per le verdure, che spuntavano da terra, la tragedia delle coltivazioni si spingeva fino all’apoteosi.

Inoltre, a questo “allazzaramento” bisognava addizionare le malattie delle piante che, nei casi estremi, secondo i coltivatori, in buona sostanza si inventavano i periti agrari, gli agronomi e i professoroni, i quali, in base alla loro esperienza pratica, non capivano niente della vera campagna e guadagnavano:

Inoltre, erano sicuri:

Dal loro punto di vista, era tutto:

e, in alcuni casi, quelle degli esperti erano soltanto chiacchiere: nient’altro che fumo, senza che vi fosse qualcosa a fondamento delle teorie sostenute, imperniate su studi incompleti e tendenziosi, in conseguenza dei quali venivano prese pure decisioni gravissime, quali potevano essere, addirittura, quelle aventi ad oggetto gli espianti degli alberi.

Le piante andavano selezionate una ad una e non estirpate in blocco.

Fatto grave, a cui dovevano sottostare, loro malgrado.

Intanto, una gazza ladra si era affezionata al Sig. Cosma e continuava a mangiare i frutti degli alberi, posti nei punti più alti. Si divertiva nel volo radente il suolo, pure quando sottraeva i morsetti, sia interi, che spezzati, caduti o gettati via, di proposito, dal coltivatore diretto.

L’uomo bestemmiava e fendeva l’aria con tutto ciò che trovava a portata di mano, pur di non mostrarsi sconfitto da quell’uccellaccio maledetto.

I morsetti metallici gli servivano per bloccare, col rinforzo necessario, il raccordo dei tubi di plastica dell’impianto irriguo. Prima modellava la plastica nera del tubo flessibile, con un accendino o con un accendigas o con la fiamma ossidrica. Testava la morbidezza con le falangette, alle quali pareva incollarsi un po’ di quella gomma sciolta e tossica, dopodiché congiungeva un altro tubo oppure l’inserzione a “T” o il rubinetto, a seconda del punto dell’impianto irriguo, in cui stava operando.

Ogni collegamento veniva bloccato con le fascette metalliche. Finito l’intervento, Cosma le raccoglieva da terra, per buttarle via. Le tasche ne erano piene, sicché le infilava pure alle dita, frenandosi ad un certo punto, perché le falangi erano troppo grosse, cambiavano colore e gli si bloccava la circolazione sanguigna.

Le mani di alcune categorie di lavoratori le riconosci dalle dimensioni enormi: sono simili a delle pale meccaniche, segnate dal maltempo, dai geloni, dalle ferite aventi ogni tipo di sagoma, dalle screpolature, dalle infezioni e dalla mancanza di cura. Le dita erano voluminose, ingombranti e curvate dall’artrosi.

Era un modo come un altro, per portarsi via i morsetti, onde evitare che sporcassero il terreno, disfacendosene con un gesto automatico ed istintivo. Loro erano privi di valore e lui era un uomo facilmente irritabile, che non sopportava di vedere il disordine.

Al contrario, la gazza ladra adorava il luccichio di quelli, che avevano l’apparenza dei gioielli. Di certo, non potevano avere la bellezza del lavoro artigianale dell’oro cesellato, dei metalli preziosi o delle gemme costosissime.

“Pure tu usi il fazzoletto in testa? Quando fa caldo, è comodo, no?”

Chiese Leonardo, rivolto ad Iqbal, con riferimento al turbante giallo sgargiante, indossato da quest’ultimo, assunto come bracciante agricolo da Cosma.

Veniva dal Pakistan ed era stato presentato ai coniugi Dattilo da Don Feliciano, il viceparroco della Chiesa di San Girolamo, che ogni tanto faceva da snodo tra domanda e offerta di lavoro, di quanti si affacciavano alla ricerca, nella sua sagrestia.

“Sì. Che poi, alla fine, vedi e vedi, e siamo tutti uguali! Abbiamo tutti le stesse usanze!”

“Soltanto che va mazzo come le spatole dei fichi d’India. Uaglio’, stai mangiando?”

“Poco, che niente proprio! Quando assaggia! Non come a me che, all’età sua, se avessi veduto un bue, me lo sarei mangiato sano sano.”

Il ventre pronunciato, rispetto al resto del corpo, confermavano le sue parole. Sicché proseguì convinto:

“Gli piace il pollo. È contento quando Rita cucina la gallina a brodo o col sugo. Esce pazzo per il riso, ma gli dobbiamo imparare a mangiare la pasta, che deve ingrassare un poco.”

“Che vuoi: si deve abituare. Parla l’italiano?”

Iqbal sorrise, intuendo che perdurava il riferimento a lui.

“Hai capito che vuole sapere? Ti sei insegnato una qualche cosa di italiano?”

Poi, rivolto al confinante:

“Sta sempre zitto!”

Leonardo si indirizzò al pakistano, aiutandosi con le braccia, che si staccavano dal busto, per avvicinarsi all’interlocutore attonito:

“Se vuoi farti capire, mettiti d’impegno tu e impara tu a parlare come a noi, che io e con l’italiano andiamo litigati, figuriamoci con una lingua sdreusa a come quella tua.”

Invece, una parola gli uscì:

“Poco!”

“Poi, non conosce a nessuno. Fa! Fa! Eccome se fa! Fa tanto!”

“E non è semplice.”

“Che vuoi? Qui sta a casa di estranei!”

Il giovane lavorava nella masseria dei Signori Dattilo ancora da troppo poco tempo. Viveva in un locale, adiacente la casa padronale dentro l’azienda agricola, ma consumava i pasti quotidiani, assieme a Cosma e a sua moglie Rita. I coniugi avevano due figli: il maschio Giuseppe e la femmina Dora. Quest’ultima si era maritata fuori provincia e, quindi, li andava a trovare quando poteva. Il genero era un bravo ragazzo, tant’è che se poteva, ogni tanto, gli faceva qualche aratura.

I Dattilo non erano abituati ad avere ospiti da tanto tempo, ma da quando il figlio Giuseppe era andato via dall’Italia, per studiare all’estero, a Cosma serviva una mano in campagna. Infatti, finalmente, aveva deciso di fare dei lavori, che necessitavano di tempo e di fatica, tra cui c’era l’organizzazione di un bell’impianto di irrigazione, che avrebbe decretato la fine sia dei canali a terra, intorno agli alberi, che della zappa, ai cui servigi la sua schiena non poteva più inchinarsi.

Il tacco d’Italia è una regione secca, povera di corsi d’acqua corrente e bacini lacustri naturali.

La terra si inaridisce facilmente, se non piove e non viene coltivata. Le radici degli alberi servono a trattenere il terreno, aggrappandovisi reciprocamente, come in un abbraccio tra innamorati, un sostegno tra amici, una risposta attesa a soddisfacimento di una istanza, un aiuto nel momento del bisogno.

L’acqua, bene preziosissimo e raro, proprio a causa della sua penuria, viene agognata. Eppure, capita che sia ugualmente sprecata.

Difatti, a parte l’uso morigerato di Cosma e di Rita Dattilo, Iqbal si rese conto di tale spreco. In paese, gli capitava di vedere le persone, che allagavano la strada, per innaffiare le piante. Ogni tanto desiderava bere a quella pompa, sciupante l’acqua, versata fuori dai vasi, ma restava impalato a fissare.

Non era l’unico a provare quella sensazione: gli stranieri, che non sempre avevano a disposizione l’acqua potabile, nei loro Paesi d’origine, si rammaricavano di quello sperpero umano. In alcuni giorni, non si poteva bere nemmeno ad una delle fontane pubbliche, perché era collegata, per mezzo di un tubo, direttamente alla cucina di un ristorante. Purtroppo, si comprende tardi chi ha un bisogno primario ed impellente come quello di dissetarsi.

In quell’ultimo periodo, i vari agricoltori avevano fatto domanda, per fare arrivare la corrente elettrica, anche nei terreni più distanti dalle case padronali, ma la società erogatrice di energia stava piantando i pali, per consentire l’allacciamento dei singoli clienti, con molto ritardo.

Il primo era stato Leonardo Muscatello, il quale aveva subìto, per ben due volte, il furto del motore, per tirare l’acqua dal pozzo artesiano.

Con l’arrivo della corrente elettrica tutti, coloro che avevano subito la stessa sorte, speravano in una diminuzione di tali ruberie. In verità, era stato vittima pure di diversi furti della benzina agricola, che usava come carburante dei trattori e degli altri mezzi a motore, auto compresa.

Allergico agli ospedali com’era, quando il caso lo consentiva, Leonardo usava la benzina, pure per disinfettarsi le ferite, tra cui una al tallone, che si era procurato con un ferro filato arrugginito, il quale gli aveva perforato non solo lo stivale di gomma.

Più volte gli avevano sfondato la serranda dello stanzino, in cui erano riposti i fusti, tanto da non volerla più far riparare. Da allora, nonostante l’opinione contraria di moglie e figlio, non si staccava più dal suo fucile. Aveva capito che le denunce ai Carabinieri e le lamentele, al sindacato e in piazza, non bastavano più, nemmeno quando sapeva chi fossero i ladri.

Leonardo Muscatello aveva assicurato, che si sarebbe vendicato, e tutti temevano che fossero sincere la rabbia nutrita e l’intenzione di farsi giustizia da sé, a costo di commettere anch’egli un reato.

Fu proprio quando i pali, impiantati dalla società erogatrice della corrente elettrica, giunsero pure da Cosma, che quest’ultimo dovette cercarsi un aiuto in campagna, perché da solo non ce la faceva a mettere su il nuovo impianto irriguo. Perciò Don Feliciano gli presentò il pakistano e lui lo prese con sé, nonostante fosse titubante più di sua moglie, la quale stupì tutti e non ebbe alcun problema al riguardo. V’è da dire che, in piazza, il Signor Dattilo non trovò chissà quanta gente disposta concretamente a fare lavori, per i quali ci si stancava e sporcava tanto.

Iqbal non conosceva nessuno, in paese, e non era ancora riuscito a stringere amicizie con gli altri stranieri, coi quali si limitava ad un saluto di circostanza, vuoi per la lingua, vuoi per carattere.

Pertanto, di sera o nei momenti di riposo, per evitare che potesse sentirsi solo, Cosma se lo portava sempre appresso, nella sua utilitaria verde oliva, che non aveva mai superato gli 80 Km all’ora, se non quando si trovava il figlio a stringere il volante tra le mani.

Puntualmente, il giorno in cui doveva tornare Giuseppe, i tappetini nuovi di zecca dell’auto venivano rivestiti a festa con una edizione aggiornata di un quotidiano, comprato per l’appunto per essere pestato, nel tratto di strada, che separava la loro masseria dall’aeroporto e viceversa.

Cosmatrattava Iqbal come un sostituto di quello che avrebbe dovuto essere un suo figlio ideale, che non corrispondeva precisamente a Giuseppe. Si faceva accompagnare dal pakistano pure lì dove sapeva, in anticipo, che il bracciante non ci avrebbe capito nulla. Ne era sicuro, perché spesso, benché fosse italiano, nemmeno lui era in grado di intenderci qualcosa.

In genere, la confederazione degli agricoltori non organizzava chissà quante attività. In quei mesi, però, ogni sera si riunivano tutti gli associati, i quali parevano tornati tra i banchi di scuola. Dovevano prendere il patentino, col quale sarebbero stati autorizzati ad usare i prodotti fitosanitari e gli anticrittogamici o, volgarmente definiti, in gergo, veleni per le “pompature”. In teoria, sarebbero dovuti diventare più responsabili, per la loro sicurezza personale e per l’incolumità generale, oltre che consapevoli dei prodotti da usare, per curare e debellare le malattie delle piante.

Erano faticatori, privi di dimestichezza, nell’uso della penna e dei libri, figuriamoci se avevano la pazienza di ascoltare qualcuno parlare dei cicli dell’esistenza di una pianta o delle fasi della coltivazione e della produzione. I colpi di sonno erano immancabili e per i contadini era arduo stare attenti, tra inconvenienti digestivi e sbadigli, allo scopo di indottrinarsi, sia pure in maniera sintetica e semplificata, su vita, morte e miracoli dei parassiti e, ad ognuno di questi, annettere un composto chimico, di cui dovevano mandare a memoria formule, sigle, elementi, norme, leggi e compagnia bella. Ragnetto rosso, punteruolo, cocciniglia cotonosa e afidi erano già un’ossessione, durante il giorno, figuriamoci, se la tortura proseguiva, persino, la sera.

Nella pratica, si trattava di nozioni già apprese con il tempo. L’esperienza aveva insegnato loro, senza bisogno di andare a scuola e senza l’obbligo di ascoltare le lezioni da uno, che non era nemmeno un professore vero, come solevano biasimare. Chi è in difetto, per consolarsi o per giustificarsi, ci tiene a sottolineare le pecche altrui, e così, pure quegli agricoltori, che di scuola ne avevano fatta poca, criticavano e sminuivano colui il quale si trovava nella condizione di saperne più di loro, quantomeno in teoria.

Insomma, durante i vespri sudavano più di quando andavano ad arare. Mezzi assonnati, come arrivavano, erano incapaci di tenere bloccata una penna tanto sottile, con le loro mani grandi e nodose. I loro pensieri erano incentrati, sul contorno e, relativamente poco, sui contenuti, persuasi superbamente di conoscerli appieno.

Non le potevano fare più grosse ‘ste penne, che non si vede manco quando uno scrive?

La maggior parte degli agricoltori tratteggiava con vigore i segni posti e, se ne aveva l’opportunità, li ripassava ben bene. L’inchiostro doveva vedersi ed erano certi che, se il segno fosse stato evidente, sarebbero apparsi e, quindi, sarebbero anche stati valutati più bravi. Mai sia a venir scambiati per intellettuali. Orgogliosi com’erano della loro inettitudine, possedevano una elevata dose di rispettabilità cavernicola da preservare, perciò zappavano convinti, su quei poveri fogli, ignari della sorte beffarda, che li avrebbe attesi, all’uscita dalle cartiere.

Che io sono alfabeta.

Era la toppa a colore usata, per giustificare tutti gli errori compiuti. Il test finale consisteva nella somministrazione di una serie di domande a risposta multipla. Alla fine di ogni lezione, dopo la spiegazione e l’interrogazione, si facevano simulazioni dell’esame e tutti risultavano essere impreparati perché, se di giorno lavoravano, nessuno di loro la sera, una volta rincasato, aveva né testa né voglia di aprire la dispensa, contenente gli appunti delle varie lezioni e il riassunto del libro da studiare. In realtà, quand’anche avessero avuto tempo libero, a loro mancava, per l’appunto, il proposito di applicarsi seriamente.

Costava troppa fatica cercare di imparare, pertanto, preferivano di gran lunga restare in campagna a dedicarsi ad un servizio. Era da tener presente che non si trattava di gente abituata a farlo, sicché riprendere a leggere, di punto in bianco, direttamente da adulti, era una cosa sicuramente scioccante, a dir poco complicata, se non impossibile.

Durante le lezioni negli Uffici del Sindacato, gli agricoltori parlavano e sparlavano del più e del meno, come tante donnine, avide di pettegolezzi. Prima o poi, sarebbe toccato a chiunque di finire nelle tagliole di quegli uomini d’altri tempi, che affilavano le lingue, sia nel bene che nel male.

In quei giorni, ridevano di Sabino Filogero, un giovane volenteroso, che desiderava coltivare un pezzetto di terra rossa, ricca di ferro e di pietre. Il ragazzo non era del mestiere, nemmeno per discendenza, perché il padre pensionato era stato operaio del siderurgico, benché amasse la campagna.

Le popolazioni nomadi raccolgono la frutta e la verdura, necessarie, per il loro sostentamento, a seconda del posto in cui si fermano temporaneamente, a differenza dell’agricoltura, caratterizzata dallo stazionamento delle genti. La coltivazione dei campi dona stabilità alle persone, alle famiglie e ai popoli. La differenza è fondamentale, anche nelle scelte di vita, condizionate dalle stagioni di semina, di coltura e di raccolta.

Infatti, persino, nei momenti d’oro dell’industria locale, c’era gente che, come il padre del pizzaiolo Sabino, pur percependo uno stipendio, usava le ferie o si metteva in malattia di proposito, in determinati periodi, per andare a fare i lavori agricoli, negli appezzamenti di terra, ricevuti in eredità o acquistati, per impiegare proficuamente il tempo libero. Il ritiro dal mondo del lavoro era necessario, per vivere una vita agricola tranquilla, con la sicurezza della pensione e l’aria fresca della campagna, che se pure non avrebbe potuto far guadagnare molto, quanto meno non faceva mancare la sussistenza ai parenti e a quegli amici, dei quali si voleva conservare la “comparanza”.

Con tale termine si intendeva l’uso smodato, che si faceva, nel meridione, della conoscenza improvvisata delle persone, dolosamente in maniera indiretta, come se fosse di secondaria importanza, che chi si conosceva diventava irrimediabilmente colui che avrebbe dovuto salvare l’altro da qualunque tipo di problema. Ovviamente la ricompensa era, per l’appunto, in prodotti della terra e quasi mai in denaro.

Non appena gli impegni glielo consentivano, Sabino Filogero si dilettava a coltivare il suo campo. Seminava le verdure e gli ortaggi, sufficienti per il consumo domestico e per alcuni piatti particolari della sua avviata attività di pizzaiolo al taglio.

Il giovane adorava la tradizione di fare la salsa da mettere sulla pizza o nei panzerotti, direttamente a mano, coltivando e raccogliendo i suoi pomodori. Aveva piantato pure l’insalata, le patate e le carote rosse o arancioni. Scarso era il tempo e, in ugual modo, limitata era la sua conoscenza agraria, tanto che le carote nascevano tutte storte, perché man mano che maturavano, sottoterra, incontravano i sassi come ostacoli e, quindi, erano costrette a deviare o a concentrare l’orientamento spaziale della loro crescita, assumendo sagome sgraziate. Il pizzaiolo non aveva pensato a far venire una macchina macina pietre, per frantumare i sassi, ma ben presto comprese che, per fare un lavoro a regola d’arte, gli sarebbe servita. Sebbene fossero buone dentro, quelle carote erano bruttissime a vedersi. Proprio per quel motivo, prendendosi in giro da solo, mostrava lui stesso gli ortaggi e i tuberi deformi agli agricoltori e chiedeva cagione di tale esito insoddisfacente. Risultava simpatico e si prestava bene, al ruolo di zimbello dei contadini.

Nessuno nasce imparato.

Ma questo non bastava a colmare la voglia dei coltivatori di prendersela con qualcuno e di sentirsi, ognuno, il Ministro dell’Agricoltura, pronto a risolvere le questioni legate alla crisi economica, allo spreco alimentare e alla fame nel mondo.

L’ignoranza popolana aveva persuaso Cosma che fossero i nomi femminili a dover terminare con la “A”, pertanto, si riteneva che il suo non fosse appropriato per un uomo. Preferiva essere chiamato Cosimo, Cosimino o Mino. Andava bene pure Cosmo, perché suo figlio Giuseppe gli aveva spiegato che “cosmo” vuol dire “ordine”.

Difatti, si gloriava che, nel suo appellativo, vi fosse segnato un intero destino da tramandare, quello di riportare la giusta sistemazione, l’adeguata collocazione delle cose, l’organizzazione lì dove era venuta a mancare, dall’inizio o in un momento successivo. Se non lo avesse fatto lui, era orgoglioso al solo pensiero che ci sarebbe riuscito suo figlio.

Infatti, in passato, a suggerirgli e a fargli capire gli argomenti, che stava seguendo, presso il sindacato, al corso dei “veleni”, c’era stato suo figlio Giuseppe. Il ragazzo si era laureato in geologia, ma si faceva capire bene dal padre e da chiunque gli chiedesse chiarimenti, apportando esempi semplici, nelle sue lezioni private, diluite nell’arco di tutta la giornata.

Da oltre due anni, però, si trovava in Alaska, per completare il dottorato di ricerca sulla prevedibilità delle calamità naturali e, in particolar modo, stava approfondendo gli aspetti relativi alle probabilità, da parte della scienza, di anticipare la verificazione dei terremoti.

Giuseppe, che si era sempre dimostrato uno studente brillante, era stato colto da una crisi, forse dovuta all’affaticamento nello studio.

“Io non ho capito nulla di quello che ha spiegato.”

“Nemmeno io. Magari, oggi pomeriggio possiamo vederci per rileggere un po’ gli appunti.”

Per il geologo italiano non era consolante trovare altri studenti in difficoltà, in quanto era lui a voler essere motivato e spronato.

“Mi sa che non ce la facciamo per giugno.”

“Non lo so.”

Non lo so” era diventata la risposta, che forniva a qualsiasi domanda. Stava maturando la decisione di prendersi un periodo sabbatico, per riflettere e per comprendere, innanzitutto, se continuare a seguire il corso e, poi, se restare a lavorare all’estero oppure tornare in Italia. Ma di questo la sua famiglia non ne sapeva ancora nulla, né lui aveva intenzione di parlarne, per la vergogna di essere considerato un fallito.

Si era stancato dei pendoli geodetici. L’enorme grotta ghiacciata, in cui scendeva quotidianamente, per i rilievi, iniziò ad accumulare parti della sua vita. La caverna si riempiva all’interno e la sua esistenza si svuotava all’esterno. Era difficile da comprendere come potesse accadere, fatto sta che la confusione albergante, nella sua testa, non gli faceva discernere alcunché, sul suo ruolo, presente e futuro. Non riusciva più a vedersi immerso tra le carte, in un antro, in un canyon o in montagna, al gelo, sotto la neve a studiare, a ripassare, a misurare e a controllare.

Ripeteva frasi, in maniera maniacale, perdendo pian piano il contatto primordiale con la natura e con il desiderio di scoprire qualcosa di affascinante o di travolgente, in campo scientifico. Lasciò che la passione scemasse in lui e non ebbe il tempo, per recuperare quelle sensazioni iniziali, che lo avevano condotto sin lì.

Non poteva continuare ad apportare giustificazioni alle assenze alle lezioni e ai laboratori. Il dottorato non era fatto solo di gite e di escursioni, ma anche di studio e di approfondimento nel Centro Ricerche.

“Non mi sento bene. Forse mi sto influenzando.”

Giuseppe restava seduto sui gradini dell’ingresso, fuori dall’Università, fermo ad ammirare il suggestivo paesaggio circostante, come se cercasse di ottenere delle risposte dalla glaciale Natura sconosciuta.

Invano, pure il Professore provò a convincerlo:

“Anche io, quando ho i miei momenti di sconforto, mi domando a cosa serva stare qui, lontano da casa e da tutto. Poi, mi ricordo che noi cerchiamo quel qualcosa che possa aiutarci a preservare questo mondo. La natura vince su tutto e noi possiamo solo intuire cosa ci vuole dire, quando è così arrabbiata.”

“Non so se ne sono capace e se mi piacerebbe ancora scoprirlo.”

“Non buttare all’aria tutti questi anni di studio. Stiamo andando a fare i rilievi. Vieni pure tu? Dai, vieni solo a guardare…”

Giuseppe scosse la testa e con le labbra serrate, abbozzò un mezzo sorriso, rafforzante il suo rifiuto.

Infine, il Prof. Giorgi si allontanò rassegnato:

“Verrai la prossima volta. Ogni tanto si è stanchi. Capita. Prenditi qualche giorno di riposo …”

Il dottorando annuiva, sperando di rassicurare sé stesso più che i suoi colleghi:

“Già … Il fatto è che a me non è successo nulla, che possa giustificare questa stanchezza …”

“Che importanza ha? Una vacanza fa sempre bene alla mente …”

Concluse il professor Giorgi.

Giuseppe era un tipo meticoloso e puntiglioso. Il fatto che non gli andasse più di fare una cosa poteva essere giustificato soltanto con la spossatezza. Era certo che avrebbe ripreso. Non osava modificare le proprie abitudini, se non sapeva bene chi avrebbe dovuto incontrare, dove sarebbe dovuto andare e cosa avrebbe dovuto fare. Qualora una delle tre componenti fosse venuta meno, avrebbe optato per il restare fermo.

Arriva un momento, confuso in una miriade di altri momenti, in cui tutto si trasforma all’improvviso.

Solo un evento traumatico interno, dopo anni di inconsapevole rassegnazione alla propria lentezza, poteva far esplodere in lui una irrefrenabile voglia di vita, per un istintivo spirito di autoconservazione. Si trattava di un’esigenza fisica: stava sentendo la mancanza del sole. Non voleva più restare chiuso, in un antro, in una biblioteca o nella sua stanza, a studiare. Non voleva più fare ricerche nei laboratori. Il suo mestiere era vivere a contatto con l’ambiente, ma di creato, di paesaggi e di natura, ne aveva visti pochissimi, da quando stava all’Università, anche perché perennemente coperti dalla neve. Quindi, non gli bastava.

Percepiva il cuore della terra, monitorandola attraverso una sorta di elettrocardiogramma, che visionava di continuo, per rilevare, studiare e comprendere le dinamiche dei movimenti tellurici.

Prevenire i disastri era stato da sempre il suo disegno di vita, il suo progetto di studioso. Aspirava ad essere un eroe ante litteram: anticipare i disastri, impedirli, perché nessuno fosse costretto ad agire, in fretta e furia, dopo la loro verificazione. Aveva intenzione di riuscire ad eccellere nelle sue scoperte, ma in geofisica nessuno prima di lui era riuscito ad opporsi alla volontà delle leggi dell’Universo. Quella infelice presa di coscienza lo aveva condotto ad una fase di stallo, da cui non ne poteva uscire, se non cambiando completamente strada ed allontanandosi da quelle che erano le proprie convinzioni iniziali. In realtà, anche su consiglio o su esortazione del suo professore, si persuase che gli occorresse un periodo di riposo, per riprendersi dall’affaticamento mentale, che lo aveva colpito, privandolo degli stimoli necessari a continuare.

Dopo un segmento temporale ben determinato, che matematicamente aveva il bisogno fisico e psicologico di calcolare, per non trovarsi impreparato ed in preda ad attacchi d’ansia, credeva potesse tornare più vigoroso, pimpante ed acuto di prima. Sentiva il bisogno di respirare aria nuova, nel senso di vedere nuovi posti, di conoscere persone diverse e di fare quello che non aveva mai potuto compiere prima, perché troppo preso dalla necessità di dover eccellere e di dover dimostrare qualcosa, più a se stesso che agli altri.

Voleva meritarsi l’affetto e la stima, convinto che, probabilmente, non si può essere amati, in maniera gratuita.

Come se fosse un principio imprescindibile ed incontrovertibile che il voler bene debba avere necessariamente un prezzo. Riteneva che l’affetto verso i genitori consistesse nel ripagarli dei sacrifici compiuti, avendo sostenuto le spese degli studi, per vederlo realizzato, come professionista. Il conto da saldare con una fidanzata sarebbe stato rappresentato dall’essere sempre gentile con lei, sopportandone le inquietudini e le eventuali evasioni. Infine, la cifra da saldare con gli amici era rappresentata dalla sommatoria dei vari adattamenti al cervello e alle discussioni di tutti, anche delle menti mediocri o, addirittura, inesistenti. Ridere alle battute scontate, accettare serate scadenti, pur di adeguarsi alla scelta della maggioranza dei presenti.

Così trascorrevano le giornate, tra lo studio e il contorno umano, che affannava i suoi pensieri, rimpicciolendo i suoi sogni. Erano visioni oniriche tipiche di un ragazzo comune, come ce ne sono tanti. Anzi, a dirla tutta non le aveva mai considerate fantasie. Non si era mai fermato a darne una definizione, che delimitasse i contorni della sua aspirazione. Un’ambizione maturata pian piano, nel corso degli studi superiori.

Gli piaceva studiare la terra, perché era nato in campagna. Da essa promanava ogni suo sapere, il cibo che mangiava e i prodotti venduti, per pagargli l’Università. Si sentiva in debito ed era convinto che alla terra dovesse tutto, perciò desiderava approcciarsi ad essa, non dal punto di vista della produzione e, quindi, del ricavarne qualcosa. Ambiva studiare la natura, comprenderne i meccanismi e le contraddizioni, le motivazioni del suo essere, allo stesso tempo, tanto benigna quanto maligna, il perché della sua fertilità, in alcuni siti ed arida in altri, i segreti dei suoi colori, rossa qui e giallognola lì. Le radici erano ovunque e avevano diramazioni in tutto: erano l’origine del mondo, non solo del suo universo, bensì di tutto il creato.

Pertanto, si sforzava di arricchirsi della comprensione della sua composizione chimica. Quella terra avrebbe voluto ricrearla artificialmente, carpirne le dinamiche, i periodi di stasi e i movimenti interiori e sussultori.

Si domandava come fosse possibile che un territorio che toccava ogni santo giorno, che percepiva tanto sicuro, che dettava regole, tanto in campo scientifico, quanto in quello giuridico, basate sulla proprietà, sull’appartenenza, a prescindere dai metodi d’acquisto della stessa, alla fine potesse essere così cattivo con i suoi stessi figli.

Per questa ragione, la sua mente diresse ogni attenzione sui terremoti e sugli tzunami, i quali vedevano scatenarsi in contemporanea la potenza interiore, sia della terra che, in corrispondenza, delle onde del mare.

Auspicava a controllare col pensiero e con la sua parte scientifica tutto ciò, che fosse in grado di percepire.

In virtù di tale logica, il vedere equivale al possedere, non solo attraverso un patrimonio di nozioni, ma addirittura prevedendo le eventuali metamorfosi, le azioni in divenire e le conseguenze.

Giuseppe Dattilo bramava dominare le persone, esattamente come gli eventi naturali, cui assisteva; ciò nonostante, sentiva l’impotenza della sua limitatezza, nel concretizzare ciò cui aspirava. Era in grado di controllare i suoi stessi impulsi, pertanto, avrebbe ben potuto condurre verso le sue idee anche i colleghi, incanalandoli in un percorso a lui noto.

Non poteva ammettere l’esistenza di qualcosa o di qualcuno, di cui non riuscisse a contenere l’esuberanza. Aveva il bisogno fisico di rimpicciolire le dimensioni di ogni cosa, entro dei confini ben definiti, in maniera tale da poter conoscere tutto: origini, sviluppo, crescita, ramificazioni ed estinzione. Era sostenitore convinto della teoria che tutte le cose vitali attraversino le stesse fasi, sebbene con le dovute differenze.

Quando Giuseppe tornava a visitare la terra delle gravine, nel suo paesino d’origine, sito nella parte alta del Salento, per tutti era l’americano, mentre per i suoi colleghi d’oltre oceano era il pugliese, il terrone. Una biforcazione mentale, che non si assestava definitivamente, se non al disequilibrante bivio di partenza.

Al padre Cosma mancava quel tempo passato, in cui raccoglievano insieme le cortecce, le foglie, le pietre e le varie tipologie di terreno, che poi il figlio classificava, catalogava e studiava.

Giuseppe gli spiegava tutti i concimi e i sali da usare: se avesse avuto qualche dubbio gli avrebbe telefonato, per farsi consigliare sull’acquisto di un nuovo prodotto per le piante.

Da quando il figlio era andato all’estero, necessitava di un aiuto concreto e lo aveva trovato soltanto in quel ragazzo pakistano, che gli era stato suggerito da Don Feliciano.

Comments

  • Kate
    22/06/2024

    Conosco Francesca da anni e mai avrei pensato che dietro al suo bel sorriso si nascondesse una penna meravigliosa. Mi ha emozionato leggere e mi ha emozionato ancora di più trovare nelle sue parole una qualità di scrittura che difficilmente posso riconoscere altrove.

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  • Gianma
    22/06/2024

    Sto studiando per la maturità e mia madre mi ha suggerito questi testi. Molto ben scritti, si vede che + una che ha stoffa.

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  • Domenico
    23/06/2024

    Davvero ben scritto!
    Un racconto davvero interessante, spero di poter leggere il resto.

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  • Nicola Russo
    23/06/2024

    Ho letto solo tre pagine ,mi è sembrato molto interessante, brava Francesca

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  • Antonella Casavola
    23/06/2024

    Brava Francesca,lettura e racconti molto interessanti e piacevoli

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