COSE D’ALTRI TEMPI (1) di Daniela Trombetta

Il vento lungo il vialetto sterrato accompagna la nostra corsa.
I raggi del sole si insinuano tra le foglie degli alberi e, se non fosse per gli occhiali, ci accecherebbero.
Mio fratello, in bici davanti a me, aumenta la velocità della pedalata e non si accorge del foulard che sta uscendo dalla tasca dei suoi pantaloni.
«Peter! Attento!» gli urlo.
Non mi sente.
«Peter!» provo di nuovo, più forte, ma la mia voce non gli arriva.
Vedo che il foulard è quasi del tutto fuori dalla tasca e do alla mia bicicletta lo sprint necessario per affiancarmi a lui.
Nonostante ormai la precisa vicinanza, Peter sembra non vedermi e d’un tratto capisco il perché: ha gli occhi chiusi.
“Oh no, ci risiamo” penso.
Proprio quando mi rassegno che il foulard sta per cadere e che questo rallenterà tutto, un’impetuosa folata d’aria lo solleva e lo innalza verso il cielo. Stacco una mano dal manubrio per tentare di afferrarlo ma, inaspettatamente, finisce dritto sulla mia faccia, coprendomi la visuale. Lo tolgo subito e rifletto sul fatto che, per fortuna, ho sempre avuto un ottimo equilibrio sulla bici.
«Insomma, Peter!» gli tuono nelle orecchie e stavolta mi sente.
Si riscuote, spaventato «Che c’è?»
«Ti sembra il momento di metterti a sperimentare i tuoi giochetti?»
«Non sono giochetti, sono esercitazioni» contesta pacato.
«Chiamali come vuoi, comunque adesso non è il caso.»
Sbuffa. «Non vedo quale sia il problema, il foulard è al sicuro.»
«Non per merito tuo.»
«Volevo testare la tua abilità sulla bicicletta» commenta lui divertito.
«Non è uno scherzo questo, dobbiamo sperare che non ci abbiano visti.»
«Non preoccuparti, abbiamo pianificato tutto alla perfezione.»
«Lo credo anch’io, ma ci conviene raggiungere casa il prima possibile.»

Da bambini, io e Peter avevamo preso la cattiva abitudine di rubacchiare. Si trattava di sciocchezze, non ci siamo mai permessi di toccare qualcosa che avesse un certo valore.
Prima di entrare a scuola, ci recavamo nella solita panetteria per comprare un trancio di focaccia a testa, e la seconda destinazione era la solita cartoleria.
Questa, tra le tante cose, vendeva penne e gomme da masticare che ci piacevano particolarmente perché ne avevano di svariate forme e colori.
Il prezzo era irrisorio, eppure a noi metteva eccitazione il rubare, più che il comprare.
L’adrenalina di quei momenti, però, durò ben poco: una mattina qualsiasi, il commesso della cartoleria ci fece chiaramente capire che ci aveva scoperti.
“Sono 500 lire a penna, e lì ci sono le telecamere” disse indicandone una sopra l’ingresso del negozio e un’altra, in alto, all’angolo di una parete.
Pagammo e ce ne andammo con la coda di paglia, e con la promessa reciproca che non avremmo rubato mai più.
Fino a questo momento, se non altro.

«Ruby, seguimi!»
Lo strillare di Peter mi riscuote dai miei pensieri mentre realizzo che sta facendo inversione di marcia.
«Muoviti, ci stanno dietro!» strilla ancora.
Voltandomi, scorgo con orrore un’auto della polizia avvicinarsi velocemente e con le sirene che mi perforano i timpani.
Pedaliamo al massimo delle nostre forze, attraversiamo un ponte e svoltiamo rapidi sulla destra imboccando un altro viale alberato, ma più lungo e più largo.
“Peter, dove stai andando?” mi domando travolta dal panico.
Decido di seguirlo a prescindere, ricordandomi che ho fiducia in lui e che, se ha voluto percorrere questa strada, significa che c’è un motivo.
Tasto in automatico il lato sinistro dei pantaloni: il foulard c’è. Chiudo la tasca con la cerniera.
Sento le sirene più lontane e intuisco che l’auto avrà rallentato a causa del traffico.
Questa è l’occasione adatta per accelerare e tentare di seminarli.
Peter deve aver avuto lo stesso pensiero perché ingrana l’ultima marcia per aumentare la distanza. Poi, d’un tratto, impallidisco: so dove si sta dirigendo mio fratello.
«Peter, sarà chiuso il cancello a quest’ora!»
«Non ancora» mi dice.
Lo raggiungo e vedo che ha di nuovo le palpebre abbassate.
«Due persone si sono perse all’interno del parco e le hanno trovate soltanto adesso» continua «Stanno per uscire. Se manteniamo questa velocità, facciamo in tempo a entrare prima che chiudano il cancello. Saremo abbastanza veloci da sfuggire alle guardie.»
«Ammesso che rimangano nel gabbiotto» borbotto io.
Mi ripeto che mi fido di lui; dopotutto le sue capacità non l’hanno mai ingannato.
Con gli occhi chiusi, immaginava il posto in cui sarebbe voluto andare e visualizzava ciò che lì stava accadendo. Il fatto da sempre sorprendente, per me, era che riusciva a ricorrere a questo potere persino quando si trovava in movimento.
In qualche modo, l’istinto guidava il suo corpo mentre la mente si trovava da tutt’altra parte, e questo gli consentiva, per esempio, di non schiantarsi se stava pedalando.
Il cancello del parco è sempre più vicino. Non voglio girarmi per vedere a che punto è la polizia, potrei perdere secondi preziosi.
Peter scarta con maestria le due persone appena uscite e che ora stanno percorrendo il ponte acciottolato che collega la fine del viale alberato con l’ingresso al parco.
Il cancello è aperto ma la sbarra per i mezzi a motore è abbassata.
Non possiamo permetterci di rallentare. Sulla destra, tra la sbarra e il gabbiotto, c’è un piccolo spazio che si può attraversare anche senza scendere dalla bici, ma sarà pericoloso a questa velocità.
“Ce la faremo, andiamo in bici sin da quando eravamo piccoli. Non siamo imbranati” rimugino dandomi un po’ di coraggio.
Peter pedala convinto, senza timori.
Ci siamo, sono gli ultimi metri.
Quasi in sincronia, svirgoliamo in fila sulla destra, oltrepassando quel piccolo spazio che, per un attimo, mi è sembrato larghissimo.
L’adrenalina aiuta in qualunque situazione.
Una volta dentro il parco, sfrecciamo avanti e sentiamo una delle guardie urlare. «Ehi! Stiamo chiudendo! Dove andate?» Ma siamo già lontani quanto basta.
«Cosa vedi?» chiedo a Peter, continuando a pedalare.
«Hanno chiuso il cancello mentre noi siamo entrati. L’auto della polizia, per ora, è rimasta fuori. Abbiamo tempo sufficiente per seminarli e accamparci da qualche parte per la notte.»
«È grande qui, non ci troveranno mai» dico trionfante.
«Esatto. Domattina basterà uscire a Druento e il gioco è fatto. Senza contare che non ci hanno nemmeno visti in faccia» aggiunge lui sogghignando.
Avverto l’esultanza di prima svanire all’improvviso.
C’è qualcosa che mi inquieta ma non capisco cosa.
«Tutto a posto?» mi chiede Peter, cogliendo la mia espressione.
«Sì. Cerchiamo un luogo in cui dormire» gli dico perplessa.

Il parco di Venaria copre 6571 ettari, il che vuol dire che occupa la maggior parte del territorio della contea.
Venaria è il più vasto tra i villaggi, gli altri sono Druento, subito accanto, Robassomero, Fiano, La Cassa e San Gillio.
È un parco che ospita undici specie animali tra cui cervi, daini, volpi, lepri, tassi, nutrie e rapaci notturni; i cinghiali sono la mia fonte di preoccupazione.
Io e Peter li abbiamo visti molte volte e mai ci è accaduto qualcosa, salvo un pomeriggio di parecchi anni fa in cui, sempre in sella alle nostre biciclette, ci infilammo in uno dei sentieri più stretti e più difficoltosi.
Andavamo veloci, com’eravamo soliti fare, quando le frenate brusche degli pneumatici scavarono il terriccio umido. Il bosco era silenzioso: si udiva giusto cantare qualche cardellino qua e là e il fruscio delle foglie. Anche il cinghiale, a quindici metri da noi, era silenzioso. Silenzioso e immobile, finché partì in corsa nella nostra direzione.
Il dietrofront con le bici fu rapido e automatico.
Riuscimmo a seminarlo e a uscire dal sentiero, ma non ho ancora dimenticato la paura che mi assalì.
La stessa paura che ho adesso; una sensazione strana che non riesco a spiegarmi perché, in fondo, credo che non sia legata esclusivamente ai cinghiali.

«So a cosa stai pensando,» la voce di Peter mi fa sobbalzare «troveremo un posto che ci protegga, non temere.»
«Ho un presentimento.»
«Ti stai facendo suggestionare dal buio.»
«No, non è così. Quando sento qualcosa, difficilmente mi sbaglio. Dovresti saperlo.»
«Lo so, ma so anche che è stata una giornata insolita e questo, forse, confonde le tue capacità.»
Proprio come Peter, anch’io possiedo un dono.
Percepisco tutto ciò che mi circonda: gli stati d’animo delle persone e le vibrazioni dell’universo, negative o positive che siano.
Tali percezioni mi hanno indirizzata nella giusta via ogni qualvolta si presentassero; una specie di “so cosa devo fare e come devo comportarmi”.
Decido di non continuare il discorso con lui. Rilassandomi un po’, è probabile che la sensazione si attenui.
Tuttavia un brivido scorre lungo il mio corpo. Mi fido del mio istinto, c’è qualcosa che non va.
Smontiamo dalle bici e percorriamo un pezzo di strada a piedi.
Ci siamo addentrati quanto basta e il parco è talmente vasto che può diventare un labirinto.
Il crepuscolo scende su di noi e anche la lieve brezza autunnale. Le temperature in questo periodo sono ancora abbastanza alte e ciò ci consentirà di non gelare durante la notte.
In ogni caso, sappiamo dove siamo diretti.
Quand’eravamo bambini, nostro nonno ci portava a prendere una fetta di torta in un’osteria ricavata tra le mura di un vecchio rudere e raggiungibile da un cortiletto sterrato: una scala con pochi gradini porta all’ingresso, ma non è da lì che entreremo. In effetti, il resto dell’edificio è disabitato però accessibile tramite finestre prive di vetrate o inferriate.
Basterà arrampicarsi un po’ per entrare.
L’ultimo tratto di strada in salita e siamo arrivati.
«Ti eri dimenticata di questo posto?» mi chiede Peter.
«Certo che no.»
«Come vedi, qui i cinghiali non possono arrivare.»
«No, infatti» sussurro titubante.
«Ma non sei tranquilla.»
«No… cioè, sì. In realtà non sono i cinghiali a preoccuparmi.»
«Cosa ti preoccupa, allora?»
«Non lo so, ma accadrà qualcosa.»
«Oh, andiamo Ruby! Accadrà qualcosa senza dubbio, non staremo qui tutta la vita.»
«No, Peter, tu non capisci. Capiterà qualcosa che è fuori persino dalla mia comprensione. Non so se saremo preparati.»
«A cosa ti riferisci?» Sembra esasperato.
«È questo il punto: non lo so.»
«Va bene, basta così. Abbiamo bisogno di dormire. Nasconderemo le bici dietro quegli alberi. Domattina dobbiamo svegliarci prima che aprano il cancello e l’osteria, altrimenti saremo nei guai.»
«Perché? Secondo te, non ci cercheranno tutta la notte?» gli domando allibita. «Siamo dei ladri, la polizia non si ferma per un cancello chiuso!»
«No, hai ragione, ma col buio sarà più difficile trovarci, e vedrai che qui non ci cercheranno mai. È un posto troppo scontato e banale.»
«Se lo dici tu…»
Ci arrampichiamo su per una finestra del piano rialzato, è un gioco da ragazzi per noi. Sebbene conosciamo quel luogo come le nostre tasche, non siamo mai stati all’interno, salvo all’osteria, beninteso.
Dentro filtra la debole luce del sole rimasta, tra poco non si vedrà più nulla.
Ci troviamo in quella che doveva essere una camera da letto, vi è ancora la struttura. Sulla sinistra si intravede un armadio antico con le ante di legno rovinate e uno specchio rigato. Non c’è altro, se non strati di polvere ovunque.
«Non è così confortevole ma ci adatteremo» sospira Peter, poi sente il mio stomaco brontolare «Mi spiace, Ruby. Ho fame anch’io. Non era in programma questa fuga, diversamente mi sarei procurato del cibo.» Mi sorride, comprensivo.
«Non importa» lo rassicuro «male che vada, mi metterò a cacciare» rido perché non credo nemmeno io a quel che ho detto.
«Sì, le farfalle» mi prende in giro.
Continuiamo a parlare finché il sonno ha la meglio e poi ci addormentiamo l’uno sull’altra: i nostri corpi sono la sola superficie morbida presente.
L’indomani mattina ci risvegliamo comunque doloranti da tutte le parti.

Cose d’altri tempi è un racconto di Daniela Trombetta

Continua . . .

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