CROLLO di Francesca Modena

“Non ho speso tutti quei soldi perché tu vada in giro a destra e a manca… hai il diritto di divertirti, ma sei qui per stare in compagnia con mia figlia!” esclamò mio padre rivolgendosi a Francesca con un tono incazzato insolito pure per lui.

Non era la prima volta nel corso della vacanza che si incazzava o, meglio, cambiava tono con Francesca, ma se le altre volte la prendeva in disparte e le parlava senza urlare e senza tirare fuori certi argomenti, questa volta era arrivato a livello.

In realtà, stavamo discutendo per un motivo che non rammento nemmeno più, ma siccome Francesca risultava vincitrice, mio padre, che la pretendeva attaccata a me 24 ore su 24 e stufo di vedermi in difficoltà, pensò bene di ricorrere ai ripari con una sfuriata.

Ma non fu l’incazzatura a colpirmi: papà si arrabbiava un giorno sì e l’altro pure…

In quel momento, un sentimento come l’amicizia stava sgretolandosi come una valanga o una frana.

Se soltanto un mese prima mi avessero detto che la situazione sarebbe precipitata in quel modo gli avrei sicuramente riso in faccia.

Ma dove avevo sbagliato? E la colpa di chi era?

A dodici anni, non comprendevo cosa fosse il vero senso di colpa: conoscevo solamente i concetti di “colpa mia” o “non colpa mia”, ma tentavo di sfuggire alle responsabilità e alla colpevolezza come una malattia adducendo come giustificazione il fatto che ero solo una bambina.

Svolgo queste riflessioni mentre mi giro e mi rigiro nel letto dopo l’ultimo predicozzo di mamma e papà, e l’argomento era sempre lo stesso:

”Non hai rivolto la parola alla tua amica per tutto il tempo… finirai per perderla!”

“Perché ci dobbiamo perdere, ci vogliamo bene da morire!” ribattevo con una incrollabile fiducia che caratterizzava le persone ingenue come me.

Ma come siamo arrivati a questo punto?

Un mese prima.

A dodici anni Francesca era qualcosa di più che la mia migliore amica: era un punto di riferimento qualcosa di meraviglioso e nello stesso tempo scontato.

Sapevo che c’era, come c’erano la mamma e il papà, e stare con lei costituiva un bisogno fondamentale come mangiare e dormire; ma non mi consideravo sufficientemente adulta da comprendere che i rapporti si basavano su reciprocità: mostrare l’affetto significava abbracciare e baciare le persone amate, ma soprattutto ricevere tali attenzioni.

Così, dopo sette anni di amicizia paragonabili ad un amore incondizionato, mamma e papà pensarono bene di portarla con noi in vacanza.

“Quest’anno al mare sarete in tre!” esclamò la mamma un pomeriggio di marzo con un entusiasmo paragonabile ad una vacanza ai Tropici.

La mia reazione non ebbe l’esito sperato.

Ora, affermare che io non ero contenta poteva considerarsi una grossa corbelleria: sì ero molto contenta, ma ero incapace di dimostrarlo o, meglio, ero incapace di provare quella gioia che mi suscitava un pomeriggio davanti ai cartoni animati, i giochi con mia cugina e mia sorella.

Se per mia mamma, infatti, dodici anni costituiva l’età in cui avrei dovuto cominciare ad interessarmi ai ragazzini e alle feste di compleanno la sera, io, pur non disdegnando tali divertimenti, la mia parte infantile mi portava a preferire di gran lunga un pomeriggio ascoltando fiabe, cartoni animati o inventando giochi con mia cugina e mia sorella ritenendomi molto più simile a loro che a Francesca, la cui vita, contrariamente alla mia, si basava sui ragazzini e le uscite.

Probabilmente, penserai che sia stupido preferire i cartoni animati ad una vacanza al mare; tuttavia, con la conclusione della prima infanzia e l’ingresso nella mia vita di tali cartoni animati, anche le vacanze al mare costituirono ben presto qualcosa di naturale come andare a scuola, mangiare e dormire.

E arrivò il fatidico primo agosto, giorno della partenza e l’incubo ebbe inizio.

Apparentemente non era successo nulla a parte la tappa a casa di Francesca; per il resto tutto come gli altri anni: in macchina sino a Civitavecchia, la gioia di trovarsi con gli amici, il pranzo, e già lì, qualcosa si era spezzato.

Nell’istante in cui mi salutarono e mi chiesero di presentare la mia amica, mi paralizzai: una insolita incapacità di proferire parola si impadronì di me senza che io lo volessi; senza che io me ne accorgessi.

Ma che cazzo ci voleva a pronunciare tre semplicissime parole come “Ti presento Francesca”.

Non solo non fui capace di proferire parola, ma assunsi l’espressione da cane bastonato di quando i grandi mi sgridavano.

E più mi sentivo ripetere “Non mi presenti la tua amica?” più io mi chiudevo in una sorta di mutismo incomprensibile.

La verità era che le vacanze al mare con amici a seguito e la mia amica e compagna di scuola, costituivano per me due mondi inconciliabili anche se mi occorse tempo per comprenderlo appieno.

E questo non fu che l’inizio di una catena di piccoli episodi in cui il mio silenzio portò chi mi stava intorno a non considerarmi una persona piacevole e di compagnia; a definirmi come qualcuno di impassibile, ma soprattutto ad interminabili predicozzi materni sul mio rapporto con Francesca.

“Come va con Francesca?” domandava la mamma mentre mi asciugava i capelli.

“Bene!”

“Ma come cazzo deve andare? Non è mica un matrimonio!” mi ripetevo la notte mentre mi trovavo nel letto inquieta.

Ma cosa volevano? Cosa dovevo fare?

Così, da un lato avevo i miei genitori che si sforzavano di capire come mai, al ritorno dalla spiaggia, preferissi ascoltare le cassette di fiabe e di cartoni animati invece di trascorrere il tempo con la mia amica; dall’altro Francesca che tentava di incoraggiarmi ad esprimere opinioni personali sulle canzoncine che venivano trasmesse al jukebox della baracchina in cui eravamo soliti recarci tra un bagno ed una gara di bocce.

E ancora, da un lato c’era mio padre che discuteva con Francesca perché contrariamente a me stava crescendo troppo in fretta e fumava; dall’altro le poche volte in cui un determinato comportamento della mia amica mi infastidiva, ella si incazzava con me.

In realtà, (e questo l’ho capito solamente ora), il nostro rapporto non si basava mai su screzi.

Mi spiego meglio: durante le scuole elementari io e Francesca giocavamo, senza comprenderlo, un ruolo da sorelle o, meglio, da marito e moglie alternando rispettivamente l’essere bambina all’essere una piccola adulta.

Siccome ella aveva differenti fratelli, ma soprattutto possedeva la sindrome della sorella maggiore, con me vinceva facile: lei amava coccolarmi, io amavo essere coccolata; lei mi insegnava le cose ed io maldestramente cercavo di apprenderle; lei rimproverava la mia mancanza di autonomia ed io assumevo una espressione da cane bastonato quasi come se venissi sgridata da una persona adulta.

Vi erano, però, certi momenti, se pur rari, in cui ella mi chiedeva consiglio sul rapporto con gli altri amichetti ed io assumevo un comportamento da piccola adulta insolito per una bimba delle scuole elementari.

Con l’entrata alle scuole medie, le differenze tra noi due accrebbero, modificando il nostro rapporto: Francesca amava frequentare le ragazzine più grandi, ma io restavo la sua amica del cuore e non avevo nulla in contrario, anche perché, io, oltre agli impegni extrascolastici, avevo i cartoni animati ed i giochi con mia sorella che, nonostante la tenerissima età, costituiva una piacevolissima compagnia.

Così, con il trascorrere dei mesi, le nostre differenze si accentuavano maggiormente: Francesca tentava di farmi conoscere le altre persone con cui usciva ed io non potevo fare altro che domandarle dei compiti e interessarla ai cartoni che amavo tanto.

E come ciliegina sul gelato, c’era la mamma che mi ricordava incessantemente quanto la mia vita, basata su scuola, giochi e cartoni, fosse così differente da quella di Francesca basata su feste e ragazzini.

Così, quando mamma mi annunciò che quell’estate saremmo state in tre, la considerai come una sorta di imposizione.

Inoltre, durante quelle vacanze, non fummo più unite come alle scuole elementari perché le nostre vite così differenti si erano intrecciate, ma invece di venirci incontro, la distanza aumentò giorno dopo giorno.

Così Francesca si chiudeva in piccoli silenzi triste, mentre io, mi chiudevo in silenzi immensi ascoltando e partecipando a quanto accadeva; e intanto le vacanze continuavano sino a quel giorno.

La sera del ventuno di agosto.

La sera in cui papà, convinto di fare una buona azione, si intromise in quel rapporto già compromesso da tutto e da nulla.

Era un sabato sera come tanti e avevamo chiesto a papà il permesso di andare alla baracchina e lui ce lo negò.

Ad un secondo tentativo, questa volta di Francesca, egli si arrabbiò: da molto tempo aveva osservato i nostri comportamenti; quello di Francesca alla ricerca di bei ragazzi mentre io stavo volentieri con gli altri adulti che cantavano vecchie canzoni. 

Così, secondo papà, il recarsi in baracchina non costituiva che un pretesto per guardare i ragazzi.

Come se non bastasse, quella stessa sera l’aveva beccata fumare!

A quel punto, la rabbia di papà esplose: accusava Francesca di trascurarmi e di avere approfittato della nostra amicizia per divertirsi.

Se fossi stata più forte, gli avrei detto di piantarla e di non prendersela con una ragazzina che poteva essere sua figlia, ma io mi sentivo più piccola di lei e soprattutto tra due fuochi: sentivo come se la nostra amicizia dovesse terminare, ma incapace di affrontare le conseguenze.

Ciò che papà aveva detto non era che qualcosa di definito già da tempo: il nostro rapporto era cambiato e noi facevamo finta di non accorgercene

Scelsi la via più facile: non agire, non vedere e non fare nulla lasciando che il tempo seguisse il suo corso.

Un anno dopo.

Francesca è a casa mia: è venuta a salutarmi prima della mia partenza per la montagna.

Io ho la febbre e non le do molta retta, ma sono contenta di vederla!

Solitamente a fine agosto non ci vediamo, ma quest’anno è il primo anno in cui non varcheremo la porta della stessa scuola.

Io inizierò a frequentare il liceo, mentre lei ripeterà la terza media dal momento che non è stata ammessa agli esami per ottenere la licenza.

Porte diverse.

Scuole differenti.

Vite differenti.

Mentre Francesca mi domanda delle vacanze trascorse con mamma e papà, io rifletto: è trascorso più di un anno da quella che io definisco la nostra vacanza e in un anno di scuola media, l’argomento non è stato mai affrontato.

A scuola ci salutavamo, trascorrevamo del tempo insieme e godevamo volentieri l’una la compagnia dell’altra, ma posso affermare, almeno per quanto concerne me, il nostro rapporto esclusivo si è spezzato.

A tredici anni, non sono ancora in grado di comprendere se tutto questo sia un bene oppure no: si ha bisogno di quell’esclusività che caratterizza i soggetti adolescenti….

Una settimana dopo quella orribile vacanza, sono partita per una nuova vacanza in montagna dove, grazie ad Erica e a Debora, ho iniziato a conoscere il valore di amicizia: quell’amicizia che risplende come la luce del sole e che mi ha accompagnato per tutto l’anno.

Francesca invece ha trascorso l’ultimo anno di scuola con una nostra compagna di classe insulsa mentre il resto del tempo lo dedicava al suo ragazzo diciottenne.

Per diversi mesi mi veniva chiesto da familiari e dai loro amici che fine avesse fatto Francesca e io rispondevo semplicemente che la nostra amicizia era terminata perché una corda si era spezzata: lei è corsa a tutta velocità verso un mondo in cui io non volevo e non potevo seguirla.

Francesca continua a parlare del fidanzato…

Della sua vita: una vita che non mi appartiene così come io non appartengo alla sua!

Non ho più voglia di ascoltare nulla, così le dico che sono stanca e che ho bisogno di riposare (cosa in realtà non del tutto falsa) e la congedo promettendo di andare a trovarla presto.

Accendo il televisore e penso che, se le cose sono andate come sono andate, non è stata colpa mia, né sua, tantomeno di mio padre: appartenevamo semplicemente a due mondi inconciliabili.

Tiro su il piumone, finalmente riconciliata.

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