![](https://i0.wp.com/www.iseaf.it/wp-content/uploads/2025/01/CUORI_PAVANI_di_Leonello_Capodaglio_ISEAF_BOOKS-.jpg?fit=1280%2C852&ssl=1)
CUORI PAVANI di Leonello Capodaglio
genere: STORIA
Capitolo primo
La pioggia che veniva giù ininterrottamente da alcuni giorni aveva ridotto la valle a un acquitrino. I casoni sembravano emergere come palafitte dalla laguna già comunicante col mare. Colpi di vento si alternavano a raffiche tempestose, e con l’urlo mettevano in circolo i lamenti delle bestie, che sembravano ora impaurite e reclamanti, ora minacciose e aggressive.
Mirabile sapeva che quello era un novembre come altri passati a Conca, da affrontare standosene rintanati nell’unica stanza a cucire pelli, o a cardare lana caprina. Sua figlia Giustina, fattasi mammola adolescente, era insieme aiuto e compagnia. Purtroppo, Livio, cavaliere dell’esarcato ravennate, non era rincasato per la licenza invernale, né sarebbe ritornato, ora che tutte le vie di mare erano state chiuse per il resto dell’anno.
Si ripose sul giaciglio, accanto alla figlia che dormiva, e cercò di riprendere sonno pensando a Livio. Preferiva immaginarlo lontano, per terre orientali, forse a Bisanzio. Sapeva che non avrebbe mai potuto sottrarsi a certe missioni disposte dall’Esarca Longino e tanto meno dall’Imperatore, perché era un uomo molto responsabile, sollecito e generoso. In gioventù era stato un ottimo cavaliere, ovviamente del partito degli Azzurri, che contendeva a quello dei Verdi, la supremazia sportiva nelle gare equestri all’ippodromo di Bisanzio. Per quelle vittorie era stato premiato in tre occasioni dall’entusiasta Teodora imperatrice.
Quando faceva ritorno le portava sempre dei regali, qualche rara piantina da frutto, piccoli oggetti lavorati a mano, e ultimamente una pezza di stoffa sconosciuta detta seta, che in oriente si ricavava da un verme voracissimo di gelso. Una coltura che proprio l’imperatrice stava iniziando a diffondere.
Mirabile si chiedeva la ragione del suo mancato rientro. E finiva per prendere in considerazione l’eventualità che Livio fosse stato ferito, o peggio caduto nel corso di qualche scontro militare con i barbari, ritenendo che la tragica notizia della sua morte non le fosse stata recapitata proprio per la chiusura della navigazione. Per qualche notizia doveva pazientare fino alle idi di marzo, cioè fino alla riapertura dei viaggi di mare, che veniva sancita dalla festività solenne dell’Isidis Navigium.
Per non inquietarsi maggiormente, si abbandonò ai ricordi più belli, cioè a quando lui rincasava portando a lei e a Giustina degli immancabili piccoli doni: piante da fiore sconosciute come l’oleandro, o da frutto come il pesco, il carrubo, lo zizzolo, le quali, dopo aver attecchito, erano ammiratissime nell’orticello di sotto attiguo al pollaio.
A poco a poco si appisolò. Ma si svegliò subito, sembrandole udire l’ululato del lupo avvicinarsi al casone. Ne ascoltò l’ansimare, il tramestare, il fiatare nel recinto sottostante del pollame. Fu sicura che i lupi del bosco del Tanatò tentassero di entrare nel pollaio. Allora si riscosse, dette una scrollatina a Giustina per svegliarla, e le disse:
«Santissima Reithya! Alzati, presto. Ci sono i lupi!»
Poi andò con decisione alla cassa, ed estrasse un arpione.
«Accendi la lucerna, svelta!».
Da sotto il tavolato saliva impetuosamente lo strozzamento e il parapiglia delle galline.
Mirabile tirò un poco la cordicella dello spioncino, per vedere meglio. Era ancora notte fonda e pioveva sempre a dirotto, in modo torrenziale. Attese gli eventi col cuore in subbuglio ma con risolutezza, pronta a contrastare i lupi con l’arpione, se fossero penetrati. Poi udì la loro fuga precipitosa, mentre portavano via tra le ganasce alcune galline sicuramente sfatte.
«Ringraziamo la santissima vergine Reithya! I lupi se ne sono andati! Ma quanto danno ancora al nostro pollaio! Speriamo almeno che la conigliera abbia resistito. Ma il gatto Teobolo, dov’è»?
Giustina, che nel frattempo era riuscita ad accendere la lucerna a olio, le rispose:
«Prima stava con me sul letto».
Si mise a chiamarlo e a cercarlo finché non lo trovò: si era rifugiato dietro la cassa con gli occhi tutti straniti.
«Eccoti qui! Il grande Teobolo, il giustiziere dei topi, non avrà mica paura, eh»? Poi lo prese in braccio, lo baciò, lo riportò sul giaciglio, e gli si distese accanto.
Mirabile depose l’arpione, spense la lucerna, si adagiò, tirò un sospiro di sollievo e mandò una preghiera alla dea. Poi disse ancora a Giustina:
«Ora puoi dormire tranquilla, i lupi non torneranno. Non c’è più nulla da predare».
Si girò sul fianco e ripensò ancora al palazzo di Teodora. Là si doveva vivere protetti e comodi, in case di marmo, mica di canna, e in luoghi ameni, non tra i cuori, le bisce, le zanzare, i lupi. E sempre fantasticando ebbe l’impressione che il tempo si fosse dilatato e sospeso. Non ricordava se stesse vivendo una vita precedente o futura. Sapeva di essere riuscita a raccogliere della legna e qualche frutto di bosco. Dietro di lei, la voce nota e cara di Livio le diceva:
«Avvicinati, guarda cosa ti ho portato.»
Si era girata e lo aveva visto, sorridente e lucente nel suo pettorale di bronzo, mentre stava su un cavallo alabardato con florilegi in drappa azzurra. Allora gli si era avvicinata, e mentre stava per prendere il regalo che lui le porgeva, un calice d’oro, spostandosi di fianco aveva urtato il braccio di una statua. Quel braccio si era spezzato, era caduto, e ora lo vedeva a terra, staccato dalla mano, con l’indice marmoreo che indicava qualcosa o una direzione.
Per l’emozione di aver causato la rottura del braccio si stizzò talmente che si svegliò, e capì di aver vissuto un sogno. Per qualche istante si rammaricò di non aver parlato con Livio, e tentò di entrare nuovamente nel sogno, senza riuscirvi. Allora lentamente riprese coscienza, la mente si schiarì, e ricordò che correva l’anno bizantino 6096.
Avvolta dalle coperte, accanto alla sua mammola che dormiva, stette ancora a ripensare al sogno, a quella cosa che Livio voleva darle, e a quel dito che sembrava orientarla. Concluse che per decifrare il significato del sogno fosse necessario recarsi in pellegrinaggio all’oracolo di Aponio. Laggiù ogni perplessità sarebbe stata chiarita, con la certezza che, attraverso qualche dono offerto alla compiaciuta vergine Reithya, anche le condizioni fisiche ed esistenziali sarebbero migliorate.
Avrebbe intrapreso quel viaggio con la bella stagione, perché il santuario si trovava al limite della Romània con la Gotia e la Cimbria; e anche se distava pochi giorni di viaggio era necessario prepararlo con cura. Ma prima di tutto doveva essere approvato dal comite di Conca, Marco Nevio Galliano, che nonostante fosse suo cognato, doveva valutare tutte le incombenze necessarie e decidere in modo saggio e imparziale.
Gliene avrebbe parlato quella stessa mattina. Gli avrebbe manifestato la propria risolutezza ad affrontare il viaggio anche sola, priva di accompagnatore. E considerava che avendo passati i quarant’anni, e pure con qualche disturbo alla schiena dovuto alla umidità sofferta, avrebbe potuto cavarsela egualmente bene. Quale pericolo poteva spaventarla? Voleva delle assicurazioni: conoscere se il suo futuro fosse quello di moglie o di vedova.
Giustina dormicchiava in un sonno leggero, per l’agitazione procurata dall’assalto dei lupi. Distesa accanto a sua madre, nello stesso giaciglio, si sentiva protetta. Teneva Teobolo acciambellato sul grembo e si sforzava di pensare a giorni migliori che il futuro poteva riservarle, e che avevano il volto di Cesio Lupidio Galliano. Le piaceva immaginare che nei prossimi tempi, meglio se già a primavera, i rapporti personali con lui potessero subire una svolta positiva, che si risolvesse in una migliore frequentazione privata che non quella occasionale offerta alla gioventù di Conca.
Ripassava le poche occasioni d’incontro avute, e le occhiate eloquenti che lui le aveva indirizzato da lontano, trovando nel suo sguardo una promessa di felicità.
Ora la pioggia filava giù liscia senza alcun rumore. L’alba dava qualche lucore grigiastro che filtrava nel casone. Fuori la vita riprendeva. Cacciatori e pescatori avevano incominciato a trascinare i loro passi nella fanghiglia del pantano.
Capitolo secondo
Il villaggio di Conca era situato nella Fossa Paltana, una valle circondata da numerosi cuori, e delimitata dai fiumi Medoaco, che veniva giù passando da Patavia, e Rabbioso, proveniente dai vicini monti. Era costituito da una ventina di abitazioni, tra capanne di legno e casoni, abitate da una sessantina di operosi veneti, che praticavano la caccia e la pesca, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Le donne, nondimeno, si industriavano a confezionare capi di abbigliamento di pelle o lana, che periodicamente vendevano o barattavano coi mercanti che giungevano dall’adrioto. Era attraversato dalla Via Annia, o meglio dai resti dell’antica strada romana, che la collegava a Patavia e alla capitale Ravenna. Ma l’antico ponte sul fiume era crollato a causa di una piena rovinosa cui aveva fatto seguito una inondazione; perciò, al suo posto era sorto per necessità un frequentatissimo passo fluviale dotato di una zattera trainata da due cavalli sistemati sulle rive opposte.
Sulla riva destra del Medoaco funzionava un molino, e più centralmente un forno comune di pietra. Nello spiazzo centrale un cippo marmoreo ricordava la romanità della terra. C’era anche una edicola sacra dedicata alla Dea, e, da pochi anni appena, vi era stata infissa dai chierici del vescovo Basilio una croce di legno, come presidio iniziale in attesa di edificarvi una chiesa.
Ogni mese nella bella stagione, ma ogni due nella brutta, passavano i chierici del vescovado, incaricati di ritirare le prebende stabilite, che ciascuno doveva al vescovo. Erano costituite da animali, sia di allevamento sia selvatici, che era stato permesso di cacciare in modesta quantità, poi pesce, uova, formaggi, granaglie, e frutta coltivata o di bosco.
Nella data stabilita i villici sospendevano ogni attività perché era il giorno del vescovado. I chierici arrivavano con un gran carro tirato da una pariglia di buoi, sempre accompagnati da quattro soldati agli ordini di un capitano, che spesso era il vescovo in persona.
Il carro veniva fermato sullo spiazzo accanto alla croce, mentre i soldati raccoglievano il dovuto da ogni abitazione. Quando tutta la gente aveva adempiuto ai doveri, e dopo che il capitano aveva fatto i debiti controlli delle carte e verificato ogni cosa, si metteva sulla pista del ritorno.
Talvolta il capitano era autorizzato a qualche dimostrazione esemplare nei confronti di coloro che non avevano provveduto alla propria quota, o che si fossero resi colpevoli di qualche malfatto. Un cacciatore, che si era spinto oltre il bosco del Tanatò, fu arrestato e portato via legato al cavallo, come un delinquente.
Ma in generale gli era comandato di amministrare la giustizia civile e quella divina per conto dell’Esarca di Ravenna. Il suo interlocutore privilegiato era, pertanto, il comite del villaggio, dal quale si attendeva il resoconto dei fatti mensili, anche incoraggiando ogni delazione possibile. Dopo, prendeva le sue decisioni per eventuali ammende, che annotava sul libro, e alle quali provvedeva istantaneamente.
Quando riusciva a racimolare il dovuto, era particolarmente felice. Allora come compenso per i buoni servigi della comunità, imponeva ai chierici di dire una messa; poi, nel mezzo della funzione, prendeva la parola per assicurare tutti che dopo la lusinghiera devozione, era certo che quanto prima sarebbe stato mandato un ministro di dio, in modo stabile, per costruire una chiesa e diffondere il vangelo.
Ma durante l’invernata, che si presentò inclemente, non mantenne le promesse. Nessun prete giunse mai a Conca.
I villici, bloccati dal rigore, vivevano serrati nei loro casoni di canna e paglia, e uscivano solamente per lo stretto necessario. La situazione climatica peggiorò per la caduta di una infinità di neve. I corsi d’acqua non permettevano nemmeno più la pesca, tanto erano gelati da spesse lastre di ghiaccio.
Mirabile pensava sempre a quel sogno enigmatico, e al viaggio che sentiva di compiere alla volta di Aponio. Stava sulle spine perché era tempo di coinvolgere nel progetto il cognato comite. Chiamò Giustina, le disse di andare da Nevio, al molino, e di riferirgli che aveva bisogno di parlargli.
Giustina indossò gli stivali di pelle, un cappelletto di coniglio, il mantello di lana, e uscì.
I casoni erano tutti allineati lungo il Medoaco. Quello di Nevio, con annesso molino, era situato al lato opposto, all’estremità orientale. Ma come tutti gli altri era avvolto completamente da neve, tanto da essere invisibile.
Giunta davanti al casone, Giustina si fermò e disse ad alta voce:
«Marco Nevio Galliano, sono Alba Giustina Eutichiana. Aprite»!
La porta si aprì e Giustina entrò.
Oltre a Nevio, c’erano parecchi uomini, che sembravano discutere in assemblea. Riconobbe tra loro molti capifamiglia, e vide subito il volto chiaro di Lupidio, che si accese per l’improvviso incontro. Stava accanto al nonno, Placidio Ermolao, un vegliardo sdentato dai lunghi capelli bianchi, che le disse nel solito modo complimentoso:
«Chi è, là? Ah, ora ti riconosco… Tu sei la piccola Era, la dea Reithya. Avvicinati, o cara, e mondami. La mia infermità è solo una questione di vecchiaia…» E cominciò a tossire, con l’aspetto di una persona ridotta al lumicino.
«Ma che dici, nonno» intervenne Lupidio, un poco vergognato da quelle frasi. «Non vedi? È Giustina Eutichiana».
Quando il vociare dei presenti si raccolse, Nevio si rivolse a Giustina, chiedendole il motivo di quella visita. Lei recitò rapidamente il messaggio ottenendo quale risposta:
«Dici proprio a me, o piuttosto a lui»?» e, sorridendo, le indicava Lupidio «Sembra che tu voglia parlare a lui, se lo guardi tanto».
A queste parole, sotto gli occhi di Giustina comparvero a bruciapelo le ombre di due albicocche color fiamma, mentre Lupidio produsse il ghigno evasivo di chi è colto da un’improvvisa difficoltà.
«Ecco» disse Nevio, sempre con fare scherzoso. «Prendi questo, e dallo a tua madre. Lei saprà cosa farne».
E le diede un sacchetto di farinella speciale, aggiungendo: «Dille che ora sono in conciliabolo con questi uomini, ma che verrò prima dell’imbrunire, con Lupidio».
I due giovani si smarrirono nello stesso sguardo sorpreso.
Abbandonando il casone, Giustina si sentiva improvvisamente colma di felicità, e saltellava come una cerva tra la neve. Giunta a casa, riferì la risposta di Nevio e diede alla madre il sacchetto di farinella. Quindi si mise da un lato, si svestì, si mise una mano ai capelli, e pensò che fossero troppo lunghi. Allora pregò la madre che glieli accorciasse di un palmo.
«Ma siamo d’inverno» protestò Mirabile. «Tienili lunghi ché ti riscalderanno di più».
Giustina piegò la testa di qua e di là, per verificare se la curvatura del seno fosse evidente, poi le chiese nuovamente:
«Madre, abbiamo ancora un pizzico di quella polvere di rose per le mie gote»?
«Cerca nel cestino dentro la cassa, se non troverai cenere. Ma cosa ti prende, mammola mia, deve arrivare l’imperatore Giustiniano»?
Giustina era in subbuglio. Voleva che l’abitazione fosse più in ordine. Mise fuori la gallina mora, ne spazzò il guano dal tavolato. Portò le pelli e i ritagli di confezioni nella stanza adiacente adibita a ripostiglio. Spostò più in là il letto, dispose il tavolo e le sediole nel centro, vi sistemò sopra la grande lucerna a olio, e arieggiò il locale. Alla fine, prese Teobolo, lo sistemò sul letto e lo istruì per bene, in modo che più tardi potesse comportarsi da personcina dabbene.
Mirabile sapeva che Nevio era stato designato nella carica di comite dal vescovo precedente, una carica divenuta tradizionale per quella famiglia, ed era fiduciosa del suo consenso. Sapeva anche che tutto il riguardo che le riservava era dovuto dall’essere il migliore amico del marito, oltre che cognato e testimone delle loro nozze. Un uomo dal cuore d’oro, che badava molto alla sostanza e poco all’apparenza.
Aveva l’abitudine di regalarle la farina migliore, quella sopraffina che sapeva ricavare solo lui, dopo ore di macinazione con mole speciali. Spesso quel regalo nascondeva una finalità. Quella farina si prestava a confezionare certi dolcetti, dei quali era decisamente ghiotto. Pertanto, quel sacchetto consegnato a Giustina, era un modo tutto suo e collaudato per invitarla a preparare qualche focaccia. Allora lei, come se non aspettasse altro, procedeva immediatamente a esaudire quel goloso desiderio.
Non era ancora l’imbrunire di quella giornata rimasta grigia, quando si udì la voce di Nevio giù dalla porta. Giustina corse ad aprire, preparando il più bel sorriso disponibile. Vide l’alta statura dei Galliani, e notò l’evidente somiglianza dei tratti tra padre e figlio.
Mirabile li fece accedere e accomodare. Nevio presso il tavolo, Lupidio accanto a Giustina, sopra il letto.
Il buon odorino di frittura, sottolineato da delicati respiri, mise a suo agio Nevio, che iniziò a conversare.
«Donna Mirabile, non ho potuto giungere prima. Ero trattenuto da una discussione con i paesani, ai quali ho proposto di bonificare i cuori settentrionali, oltre il Medoaco. Un’operazione vitale per la nostra sopravvivenza. Dovremo asciugare quella terra a ogni modo, adoperando ogni risorsa disponibile, vecchi tronchi, ceste di sabbia, stoppie ed erbacce, compreso macerie e rifiuti. Scaveremo anche dei canaletti per far defluire le acque stagnanti verso il mare. Poi spianeremo e zapperemo in modo che a primavera il nuovo campo possa raccogliere la sementa, e noi d’estate i suoi frutti».
«Perché questa fretta, compare mio»?
«A voi non posso nascondere la verità, anche se dura. Il vescovado ha improvvisamente aumentato le decime. Sono ormai doppie di quelle di ieri. E sembra che non concederà nemmeno più il glandarizio e l’antico diritto di cacciare e pescare liberamente nella sua riserva».
«Santissima Reithya! Ancora un aumento! Come vivremo? Capisco ora quanto valida è la vostra proposta. Lavoreremo tutti, anche noi donne. Io, se non fossi presa da questo mal di schiena, lavorerei quanto un uomo. Ma sono sicura che dove mancherò io arriverà la mia mammola». E così dicendo voltò lo sguardo verso i due giovani seduti sul letto che seguivano il discorso. Avevano Teobolo nel mezzo e lo accarezzavano scambievolmente.
«Dite voi, Mirabile, ciò che vi preme, dal momento che mi avete mandato a chiamare».
«Caro compare, spero che voi e Lupidio possiate accettare ciò che le mie incapaci mani hanno preparato: una frittatina coi gamberi, con le ultime uova della gallina mora, scampata al lupo, servita con erbette; una cotica di porco, messa a suo tempo nel lardo del cratere; e quei zaletti, che vi piacciono tanto».
«Lupidio, come possiamo rifiutare le uova benedette della mora, e tutto il resto»?
Giustina si alzò dal letto. Prontamente prese la patera delle cibarie e la consegnò a sua madre, che iniziò a spartire su dei comodi piattini di coccio. Poi distribuì.
Dopo aver consegnato il piattino a Lupidio e aver preso il proprio, Giustina sedette accanto a lui. Allora tutti iniziarono a mangiare.
Nevio, tanto legato al passato, ne perpetuava i riti e i gesti anche mangiando. Strofinava la focaccia sulla porzione di lardo e, ascoltando Mirabile, la sbocconcellava con gusto.
Lei iniziò dapprima compiangendosi ed evocando Livio assente. Gli rivelò del sogno fatto e della volontà di recarsi al santuario di Aponio per avere sue notizie. Infine, chiese a Nevio l’approvazione a intraprendere il viaggio.
I giovani, dopo aver mangiato, e offerto qualche briciola al gatto che la reclamava, ascoltavano in silenzio, già tanto soddisfatti di essere vicini, come mai era capitato loro fino ad allora. E reciprocamente si sfioravano le mani, quasi per distrazione, senza che nessuno dei due fiatasse. Stavano davvero bene in quel tepore, mentre fuori il vento urlava e scompigliava il canneto. Bella era, poi, la conversazione dei loro cari nel baluginio della lucerna. L’acceso scintillio degli occhi ambrati di Giustina s’incontrava a ogni istante con quello degli occhi azzurri di Lupidio.
«Donna Mirabile, dopo quest’impagabili zaletti, non frenerò più le vostre decisioni, che lo stesso Livio al mio posto avrebbe già approvato. Ma questo è un viaggio che non posso permettervi di affrontare in questa stagione. Lo farete a primavera, dopo l’apertura dei mari. Per sicurezza vi darò in qualità di guida armata un giovane guerriero» disse Nevio guardando Lupidio. «Prenderò i nostri giovani, li istruirò, poi ne sorteggerò uno per questa missione. Andrete sola o con Giustina»?
«Preferirei lasciarla qui, perché è più sicuro».
«No, madre mia, non resterò qui da sola» proruppe Giustina. «Dove andrete voi, là sarò io!» Quindi timidamente abbassò il capo.
«Proprio così, caro Nevio, prima di andare a riposare nell’Isola Morta, mi sia concesso di compiacere Aponio e la santissima Vergine, nella speranza che mi facciano riabbracciare Livio».
Dopo essersi informata sulla salute della comare Velia Eufrosina, che non vedeva da tempo, raccomandando più volte a Nevio di salutarla, Mirabile si accomiatò dagli ospiti. Nevio andò alla porta e uscì, mentre Lupidio lo seguiva cercando una conferma delle sue fantasie nello sguardo di Giustina.
Capitolo terzo
Erano giorni che Lupidio portava nel cuore le fattezze di Giustina. Ovunque gli apparivano come per magia quella figura slanciata e robusta, quel viso dolce e confortevole, quelle chiome bionde e ondulate, quegli occhi color d’ambra. Ricordava sempre la sera nella quale aveva potuto starle accanto sul giaciglio di casa. E quelle reciproche e velate carezze sulle mani, quasi impercettibili, rubate al gatto, che già rappresentavano più di una conferma.
Non potendo più sostenere l’assenza di Giustina, si era messo ultimamente a ripassare per il sentiero che conduceva alla sua casa, con la giustificazione di qualche battuta di caccia o di pesca.
Si faceva accompagnare dal coetaneo Rufo Montano, detto Ovoide, un giovane tarchiato e grassottello. Gli avevano dato quel nomignolo per la capacità d’ingoiare un gran numero d’uova di ogni genere, da quelle d’oca a quelle dei nidi. Ma l’avevano visto cibarsi anche di quelle delle serpi.
Rosso di pelo, era per natura il più burlone dei ragazzi. Ogni malefatta era la sua. «È stato Ovoide»! riferivano le bambine, quando Rufo sopraggiunto di corsa aveva alzato loro le sottanelle. Combinava scherzi a chiunque, compreso Lupidio, che però glieli perdonava.
Una volta, dopo che aveva scorto all’orizzonte la figura di un incappucciato intenzionato a raggiungere il paese, di sicuro un missionario mandato a convertire, gli andò incontro e quando gli fu vicino, portandosi una mano alla bocca, con l’altra gli faceva il gesto di andarsene. Il cappuccino si fermò preoccupato chiedendogli. «È capitato qualcosa di grave»? Ovoide annuiva col capo e, sempre con la mano a proteggere la bocca e il viso schifato, si toccava in tutto il corpo. Il cappuccino, pensando subito alla lebbra o alla peste, gli chiese. «Tutti ammalati»? Per essere più chiaro, Ovoide strabuzzò gli occhi come un agonizzante e mise le mani a croce sul petto.
«Misericordia»! esclamò il cappuccino. Non aggiunse altro, si girò e prese in fretta la strada del ritorno benedicendolo da lontano.
Molte volte Lupidio passava presso il casone di Giustina, con la speranza di vederla. Se non stava al telaio, sperava di trovarla fuori, immersa nelle piccole faccende domestiche, che ordinariamente erano quelle di attingere l’acqua potabile al pozzo, o dare il becchime alle galline del pollaio, o cercare del trifoglio per i conigli lungo il prato adiacente. Se Giustina si accorgeva di lui, gli mandava svelta un saluto con la mano, e un bel sorriso che voleva intendere tante cose.
Un pomeriggio la incontrò inaspettatamente nella stalla di Gaio Quintino Matercolo, che oltre a essere il traghettatore, vendeva o barattava il latte della sua vacca. Era giunta, proprio come lui, a prendere del latte fresco di mungitura, e intendeva barattarne una zucchetta per quattro uova.
Per questa incombenza, di solito Quintino chiamava sua moglie Clelia Galla. Ma essendo andata a un casone, incaricò in sua assenza il figlio Plinio Cesario.
Il figlio, sui vent’anni, era alto, bruno e fiero, e si riteneva il più bello e il più forte tra i giovani del villaggio. Nutriva per Lupidio una forte rivalità, che talvolta era scoppiata in qualche notevole screzio, senza punto conseguenze. Vedeva per sé un futuro migliore degli altri, proprio per quel carattere ardente e scontroso che sapeva di avere. Aveva già sparso la voce che l’anno seguente sarebbe partito coi cavalieri dell’imperatore, per andare a Bisanzio, essendo destinato a vincere quei giochi equestri per i Veneti, cioè per gli Azzurri. Con la ricchezza del premio conquistato, avrebbe fatto edificare un palazzo di marmo, sulla sommità del dosso, a oriente del villaggio.
Quando Lupidio, mandato da Quintino, entrò nella stalla silenziosa, e lo trovò a mungere in presenza di Giustina, si adombrò. Cesario sembrava non finire mai quella occupazione, e trattenere con studiata lentezza l’infastidita ragazza. Infatti, lei era in piedi accanto alla vacca e osservava imbarazzata il mungitore, che tirava per le lunghe l’operazione. Ma quando si accorse dell’arrivo di Lupidio smise subito, consegnò la zucca ricolma di latte a Giustina e, rivolgendosi a lui, disse:
«Vuoi una mungitura, anche tu? L’ho appena data a Giustina».
Lupidio guardò un po’ allarmato Giustina, e vide che il suo sguardo era puro e innocente. Quanto era bella! Era incappucciata e vestiva un caldo mantello di lana. Evocava la più bella immagine della vergine Reithya, la protettrice della gioventù, dell’amore e delle nascite.
Proprio questi comportamenti di Cesario facevano aumentare l’avversione di Lupidio nei suoi confronti. Ma si confortava al pensiero che fra qualche mese appena avrebbe potuto starle assieme, forse, per qualche giorno. Quanto gli sarebbe piaciuto essere designato quale accompagnatore armato dell’Eutichiane in pellegrinaggio ad Aponio!
Ma sarebbe stato proprio lui il prescelto? In fin dei conti aveva appena diciotto anni, due meno di Cesario. Ciò valeva in natura una minore esperienza. E poi, quali sarebbero state le difficoltà da superare? Ne sarebbe stato capace, o quella prova poteva tramutarsi in un fiasco, dove avrebbe perduto anche la stima di Giustina?
Presto ogni domanda avrebbe avuto la giusta risposta, quando suo padre, il comite, avrebbe convocato i giovani volontari per addestrarli nelle arti marziali.
Da febbraio prese avvio il disgelo, insolitamente prima degli anni precedenti, forse a causa delle continue piogge. Tutta un’acquata, un rivolo, un fluire continuo, un allargarsi di fiumi, scoli, condotti, stagni e peschiere. Le acque fluivano tranquille verso l’Adriatico, del quale si respirava il soffio profumato.
Il mare, che distava da Conca pochi stadi, era ancora chiuso alla navigazione, e sarebbe stato aperto con una grande cerimonia alle Idi di marzo. Ma fino a quella data era impossibile che giungessero dei mercanti a ritirare i capi di vestiario confezionati dalle donne, e gli altri prodotti.
Intanto una mattina tutti gli uomini di Conca si trovarono sull’argine, per dare inizio alla bonifica dei cuori settentrionali, che si estendevano oltre il Medoaco. Tutti gli uomini e gli attrezzi necessari quali badili, zappe e carriole, furono traghettati sull’altra riva. Quella assunta era una sfida inedita e ben difficile: rendere coltivabile una terra recuperandola al lago in cui era sprofondata. Il fallimento dell’opera avrebbe messo fine anche alle loro esistenze, poiché il vescovo Basilio pretendeva un tributo più cospicuo, come ricompensa per l’uso delle terre di proprietà dell’Esarca Longino.
Agli ordini di Nevio, i lavoranti si disposero su due file parallele, e iniziarono a tamponare l’acqua dei cuori, dapprima usando vecchi ceppi e tronchi d’albero, poi frasche di ogni tipo, fasci di canne e perfino paglia avanzata. Per ultimo carriolate di terra e di sabbia rimossa altrove, dov’era più abbondante, e portata lì in apposite ceste.
Un lavoro faticoso che dava un risultato apprezzabile molto lentamente, dopo ore e ore d’impegno continuativo. Ma sia pur lentamente, per la grande tenacia infusa, tutti i cuori finivano per essere prosciugati. L’acqua rimanente era deviata da opportuni scoli, convogliata al Medoaco, o, a mezzo di piccoli canali, portata a morire altrove.
In quei giorni ancora invernali, il tempo era mutevole. Calavano nebbie improvvise e persistenti acquazzoni. Dai monti veniva giù la ventata pungente della burrasca che prometteva poco di buono.
Nevio era risoluto a terminare i lavori al più presto, perché sapeva che nuove e continue perturbazioni nel corso dell’opera avrebbero potuto compromettere il risultato conseguito. Capì che nell’interesse comune fosse fondamentale utilizzare la manodopera delle donne e dei ragazzi. E così ordinò, lasciando al villaggio soltanto i vecchi e i bambini.
Sua moglie Eufrosina lavorava a fianco dell’amica e comare Mirabile; Giustina nella riga delle ragazze, tra le quali Domizia Nereide, una cugina dai capelli rossi; Lupidio, Ovoide e Cesario stavano in quella opposta, e si mostravano sempre allegri, dall’arrivo delle ragazze in poi. Cantavano e si burlavano in continuazione.
Un pomeriggio Gaio Mutilio, il fratellino di Lupidio rimasto ai casoni, si presentò sulla riva, col cane Caligo, e si mise a chiamare ad alta voce:
«Padre! Padre! Il nonno è caduto»!
A quella voce, tutti i lavoranti si fermarono. Nevio alzò la testa, piantò la vanga e scambiò un’occhiata con Eufrosina.
«Continuate. Che nessuno smetta»!
Poi raggiunse Lupidio e gli ordinò di non muoversi. Prese la zattera; attraversò il fiume, e con Mutilio ritornò al molino.
Trovò suo padre Ermolao esanime sul tavolato di casa. Era disteso in avanti. I capelli, lunghi e bianchi si erano sciolti. Nel pugno destro stringeva il bastone del comando. Lo girò, lo auscultò, lo chiamò, ma Ermolao aveva lo sguardo spento: era ormai spirato.
Allora si rivolse a Mutilio, e gli disse con voce che tradiva appena la solennità dell’evento:
«Figlio mio, tuo nonno non è più qui. È in viaggio per i Campi Elisi, dove già l’attendono i nostri antenati, che lo riceveranno con un gran banchetto».
Mutilio pianse, e Caligo, che era un cane molto sensibile, guaì di compassione.
Nevio avrebbe gradito un rito funebre grandioso, pari alla gloria acquisita dal padre. Gli sarebbe piaciuto fosse intervenuto qualche chierico del vescovado con qualche liturgia cristiana. Ma era impossibile mandare un cavaliere ad Adria, e i giorni della venuta del carro vescovile erano lontani. Più ancora avrebbe gradito la buona compagnia di Bendito, un benedettino che da qualche anno giungeva a Conca da Cluza. Aveva doti caritatevoli e confortevoli, sconosciute al vescovo Basilio. Ma non si sapeva quando sarebbe ritornato. Allora Nevio si ripromise di fare una cerimonia di suffragio alla prossima venuta di Bendito, direttamente all’Isola Morta, il cimitero di Conca, che si trovava poco più avanti, dove il Medoaco si divideva in due rami.
La salma di Ermolao, avvolta in un sudario bianco e protetta da una stuoia di canna, fu messa sulla zattera, e quattro uomini, guidati da Nevio, la portarono all’isola. Sulla riva destra, tutta la popolazione in lutto assisteva a quel viaggio pietoso.
Lupidio stava sulla riva con i restanti familiari. Cercò lo sguardo di Giustina e trovò che era tanto consolante, e colmo di partecipe commiserazione.
La zattera sparì nella nebbia che avvolgeva le acque.
I cuori della Fossa Paltana erano molteplici. A Nevio premeva fossero bonificati quelli più prossimi, in modo tale che fosse possibile la seminagione primaverile. Ogni giorno che passava, la copertura totale delle acque perdute sembrava sempre più imminente. L’applicazione e lo sforzo di tutta la gente veneta, era pari alla fama e al rispetto acquisito presso i popoli vicini. All’alba i lavoranti erano sulla riva sinistra a iniziare la battaglia per la terra contro le acque stagnanti. All’occorrenza c’era chi era disposto a immergersi nel pantano fino al collo. Poi all’imbrunire tutti ritornavano ai casoni morti di fatica, ma con la certezza e la fierezza di aver conquistato ancora qualche palmo di terra fertile.
Nei casoni le poche provviste stavano esaurendosi, e presto sarebbe giunto il giorno del vescovado.
«Ancora un giorno o due e finiremo» diceva Nevio per incoraggiare i lavoranti. «Poi andremo tutti a fare una grande cacciata nel bosco» e indicava a settentrione l’imponente vegetazione che occupava tutto l’orizzonte.
«E se invece andassimo al bosco del Tanatò»? disse spavaldamente Cesario, rivolgendosi a Nevio.
«Sai bene, Cesario, che è proibito».
«Proprio per questo vi sarà una gran quantità di selvaggina».
«Non ci è permesso. Ricordati bene che ci sono i casotti dei saltari, le guardie del vescovo, che arresterebbero chiunque si inoltrasse nel bosco senza un permesso speciale».
«Se non li avrà mangiati il Tanatò» intervenne Lupidio, infastidito dalle uscite sventate di Cesario.
«L’orco del Tanatò è una fantasia dei vecchi per spaventare i giovani» aggiunse Cesario.
«Sbagli, Cesario. Il Tanatò esiste davvero. Ricordati del tuo amico Popillio, che non è più ritornato».
«Storie. Sarà emigrato altrove» azzardò nuovamente Cesario. E all’indirizzo di Lupidio aggiunse: «Avresti il coraggio, tu, di venire con me a cercare quest’uomo selvaggio»?
Lupidio guardò suo padre, e indignato per la proposta non gli rispose. Lo fece invece Nevio:
«Giovane Matercolo, risparmia la tua vita per quando ne avremo bisogno. Non c’è solo il Tanatò, ci sono anche i barbari che da un ventennio vagano per la Romània. All’occorrenza dovremo esserci proprio tutti, per difendere il villaggio».
Il tempo ritornò più clemente. Per alcuni giorni sembrò un ritorno anticipato della primavera. L’orizzonte era sgombro di nevi; le acque dei fiumi, che ora apparivano celesti, lasciavano scorrere dei ghiaccioli. L’aria si era fatta più tiepida, quasi mite.
La Fossa Paltana era ormai un enorme campo, e a vista d’occhio non si vedevano più specchi d’acqua stagnante. La bonifica era ultimata! Ora si poteva arare e seminare. L’impresa di coprire i laghetti, che sembrava in partenza impossibile, soprattutto perché attuata d’inverno, era pienamente riuscita.
La nuova terra fu divisa in parti uguali, e affidata a ciascuna famiglia, che dopo l’aratura poté seminare.
Secondo la vecchia tradizione, le fanciulle, preparate dalle madri, fecero una danza rituale, propiziatoria alla fertilità della terra, per la benedizione di Cerere.
CONTINUA
CUORI PAVANI di Leonello Capodaglio
genere: STORIA