DELITTI ED ECOLOGIA AI TEMPI DI PASOLINI di Angelo Brasi

Un signore anziano, elegante e ancora con un bel portamento, cammina per la strada: via Cola di Rienzo a Roma. Osserva con simpatica curiosità i giovani (neanche tanti: la popolazione è notevolmente invecchiata) che passeggiano tranquillamente: alcuni con l’orologio/telefonino, altri con lo smartphone fra le mani, si cimentano ad inviare messaggini, a dialogare tramite Facebook, ecc.

È ottimista questo attempato signore e fra sé pensa:

“Sono certo che i progressi delle scienza e della medicina impediranno che in Italia possa tornare una nuova terribile epidemia come l’Asiatica del 1957 o quella altrettanto catastrofica di Hong Kong del 1968.”

Poi, nel continuare il cammino gli viene in mente Elsa Morante (grande amica di Pasolini) che nel 1974 pubblicò il libro, La Storia, uno Scandalo che Dura da Diecimila Anni.

Già, continuava a riflettere quasi ad alta voce, “questa scrittrice è rimasta turbata dal fatto che in tutto il mondo, almeno ogni venti anni, è stato difficile trovare qualche nazione che non fosse in guerra. Da noi in occidente invece, per fortuna, da oltre settanta anni conflitti armati non ce ne sono. E non ce ne saranno mai più!” 

Il suo inguaribile ottimismo, però, non è disattenzione.

Si accorge che l’essere umano invece di andare avanti continua a fare passi indietro. Lui nota che l’animo di tali passanti è inconsapevolmente sereno.

Si rende conto che a causa di motivi economici od altro nessuno fa niente per l’ecologia. Vede intorno a sé sempre più plastica, ed inoltre rimane colpevolmente inascoltato il messaggio subliminale che ha dato il mondo il famoso 11 settembre 2001: per circa una settimana non fu consentito in tutta la terra alcun trasporto aereo ed in tale periodo la temperatura della ionosfera, in assenza di gas di scarico dei velivoli, si regolarizzò abbassandosi di quasi un grado centigrado.

Lui ha capito che nel nostro Paese e forse in tutto il mondo, non si fa ancora abbastanza per lo spinoso tema. Da una parte vengono mostrate zone degli oceani colme di materiale non biodegradabile e si evidenziano disastri ambientali apocalittici ma dall’altra si vede solo un desolante generale disinteresse. 

Un briciolo di positività, l’ex ufficiale di Polizia, lo ha avuto qualche giorno prima quando ha assistito ad una specie di recita di bimbi al quale partecipava suo nipote (anzi pronipote).

Ha avuto la sensazione che solo con il coinvolgimento di giovanissimi si può sperare di veder germogliare qualcosa di buono su questo insolubile argomento.

Infatti, si era riempito il cuore di gioia nel vedere il disegno di un bambino che mostrava due persone che si scambiavano il vuoto a rendere. È noto che le bottiglie (i famosi pet) sino ad ora utilizzate per il trasporto dell’acqua minerale, per il fatto di dover essere trasportate su automezzi per molte ore sotto il sole, devono essere necessariamente fabbricate con materiale resistente agli agenti atmosferici. Sarebbe opportuno, pertanto, tornare all’uso del vetro e, se occorre, non si dovrebbe indugiare oltre procedendo anche ad una imposizione coercitiva dall’alto.

Poi ha visto un altro bimbo che aveva disegnata un aeroplano dove sopra le ali c’era qualcosa con la scritta “batterie” (per indicare ovviamente i pannelli solari).

Flanetti si è reso conto che questo è il giusto, forse l’unico, viatico per iniziare un vero cambiamento di rotta. Con la sua enorme poetica fantasia ha immaginato qualcosa di surreale: è come quando ci si mette ad osservare alle prime ore del mattino il timido raggio di sole che scalda il filo d’erba bagnato di rugiada; quest’ultimo dopo un po’ comincia piano piano a muoversi.

Sì, solo se si riuscirà a convincere la parte più giovane dell’umanità, si potrà avviare finalmente una vera ecologia.

I giovani sono la prova che c’è sempre una luce di speranza. Ma solo sei abbiamo abbastanza coraggio di intravederla.

Intanto, intorno a lui transitano auto; si accenna addirittura che a breve ci saranno macchine senza guidatore. Si parla di nuovi carburanti come l’idrogeno che andranno a breve (forse) ad affiancarsi alle batterie per la trazione in sostituzione di diesel o benzina.  

“Eh, ne è passata di acqua sotto i ponti!“  Continua a dire a sé stesso, “Chissà cosa avrebbe detto Pasolini su quanto è accaduto negli anni seguenti alla sua scomparsa. Dal delitto Moro al caso Enzo Tortora ecc. Tutto è cambiato, sia in un senso che in altro. Una volta, ad esempio, ci vergognavamo di avere nel nostro meridione posti così poveri, come I Sassi di Matera, ove la gente era costretta a vivere dentro le grotte, al punto che Pasolini ci girò il film Il Vangelo Secondo Matteo, ambientato a duemila anni fa. Ora questo posto, un tempo emblema della miseria viene considerato patrimonio Unesco dell’umanità,” Ed intanto la mente comincia a correre lontano, nel tempo….

“Dunque, mi dica Commissario,” disse il Prefetto, “so che la situazione è triste ed imbarazzante ma è la regola e non c’è alcun dubbio che la verità salterà fuori al più presto. Mi permetta una domanda: le sue pistole sono tutte al loro posto, cioè, dire, al sicuro?”

“Certamente…! Tutte… salvo una…. È stata smarrita il mese scorso… la denuncia è stata effettuata regolarmente.”

 “Lo so, lei è stato sempre preciso e non ho alcun sospetto su di lei però le posso dare solo due giorni per risolvere il caso altrimenti sarò costretto a trasferirlo al competente ufficio di Polizia, ovverosia la sede di Velletri che sovrintende la zona di Artena.”

Il Commissario uscì dalla stanza del magistrato dopo l’inquietante colloquio con il magistrato.

Si toccava il mento ed il lobo dell’orecchio destro con aria perplessa.

Il commissario Davide Flanetti non la smetteva mai di asciugarsi il sudore ed era oltretutto infastidito dal ticchettio della macchina da scrivere che il brigadiere Tommasi continuava a massacrare con insistenza.

All’improvviso però si mise a squillare il telefono.

“Commissario,” disse il brigadiere, “lasci che vada io a rispondere, sarà l’agente Donnini che vorrà chiedere, ancora una volta un permesso per accudire i figli. Come lei saprà, la moglie è   partoriente. E con questo, saranno cinque!”

“No!” Replicò Flanetti, “rispondo io!”

E, nell’avvicinarsi al telefono nero, cominciò a sentire un’insolita indescrivibile angoscia, con un brivido che gli attraversava tutta la schiena, come a presagire qualcosa di strano.

Infatti, dall’altro capo del filo arrivò solo una flebile voce:

“Più forte!”  Urlò il Commissario, “parlate più forte non si sente nulla!” 

“Moretti…. sono Guendalina Moretti ….. aiuto…mi uccidono!”

“Pronto! Pronto!” Insistette l’ufficiale di polizia, che voleva capire un po’ meglio cosa stesse realmente accadendo.

Niente! Per qualche istante si sentì solo il debole rumore di un respiro umano, poi un lungo silenzio, dopodiché l’unico suono che si poteva ascoltare era il classico segnale di linea telefonica occupata, ovverosia isolata.

“Che ne pensi di tutto questo? Non è che ci troviamo di nuovo davanti a casi irrisolti di omicidi come quello di Wilma Montesi a Capocotta nel 1953?” Disse, rivolgendosi al sottufficiale.

Quest’ultimo, continuando a martellare rudemente il vecchio macinino da scrivere, aggiunse:

“Non ci faccia caso capo, non credo che casi così complicati si verifichino così spesso. Per me sarà una di quelle persone un po’ fuori di testa che, di tanto in tanto, vogliono prendersi gioco della Polizia.”

In questa situazione per scrupolo o forse per coscienza professionale, il Commissario sentiva forte il bisogno di non lasciar correre: in lui si manifestava in modo sempre più profondo l’esigenza di approfondire lo strano episodio.

Aprì l’elenco del telefono e si mise a cercare; “ecco qua… Guendalina Moretti.. via della Luce 20”.

Cercò una matita sul tavolo, sparpagliando ulteriormente le scartoffie però, da buon disordinato, Flanetti caratterialmente era uno di quei tipi che comunemente si definiscono “genio e sregolatezza” e annotò l’indirizzo della signora Moretti su un foglietto.

Uscì dall’ufficio e si fermò per un istante a contemplare di nuovo il cielo azzurro.

Il suo sguardo si portò sulla destra, al centro della piazza di Campo de’ Fiori ove emblematicamente emergeva la statua di Giordano Bruno.

“Già”, disse fra sé, “la verità non sempre è una cosa facile da raggiungere e, purtroppo, i tempi non sembrano quasi mai abbastanza maturi per squarciare tutti i veli delle molteplici omertà e delle varie ipocrisie per poterla ottenere in pieno. Infatti, Giordano Bruno fu bruciato vivo in quanto considerato eretico poiché osava contraddire i dogmi religiosi”.

Fece un grosso respiro e si incamminò di buona lena.

In fondo, via della Luce a Trastevere, non era distante che qualche centinaio di metri, forse un chilometro, da Campo de’ Fiori ove era situato il Commissariato e con una veloce camminata ce l’avrebbe fatta in pochi minuti.

Nei limiti del possibile, infatti, gradiva muoversi a piedi.

I motivi erano diversi: innanzitutto c’è da sottolineare che la partenza in auto (solitamente delle ingombranti “Fiat Millequattro”) non era una cosa di grande facilità. Le vetture avevano delle caratteristiche tali che solo per la messa in moto ci si trovava di fronte a problemi incredibili. Si doveva inserire la chiave per il contatto elettrico, si tirava il pomello dell’aria (per far affluire meglio la benzina), si controllava solitamente che funzionassero le frecce: queste ultime erano due palette (della lunghezza di circa venti centimetri) che pendevano collocate ai fianchi del vetro anteriore e manovrate da una levetta, sistemata al centro del cruscotto. Si tirava poi, l’altro pomello, quello della messa in moto. Molto spesso, per i motivi più disparati il motore non partiva. Allora si prendeva una manovella che doveva essere collocata in una apposita fenditura della calandra nella parte anteriore dell’auto. A questo punto, a forza di muscoli, si faceva girare tale attrezzo fino alla tanto agognata messa in moto della vettura.

Oltre che per questi motivi la passeggiata lo aiutava a tenersi in forma e durante i tragitti, poi, riusciva a ragionare ed a riflettere meglio.

C’era poi il fatto che, nel pomeriggio, il brigadiere aveva portato in ufficio, per festeggiare il suo compleanno, dei supplì di riso, delle crocchette di patate e del castagnaccio (quest’ultimo si fa con della polvere di castagna impastata con acqua e zucchero e successivamente messo a cuocere). Cibi senza dubbio genuini ma abbastanza indigesti. Purtroppo per non far uno sgarbo al suo sottoposto, che peraltro insisteva continuamente, il Commissario aveva dovuto fare buon viso a cattiva sorte, ingurgitando il tutto senza battere ciglio.

Decise quindi che una camminata lo avrebbe senza dubbio aiutato a digerire un po’ più in fretta.

Dopo aver lasciato la piazza di Campo de’ Fiori, prese via de’ Giubbonari.

Nel camminare, si trovò davanti ad un forno-panetteria: il profumo del pane fresco (a quei tempi) risulta qualcosa difficile da raccontare. Lì dappresso, davanti ad un portone, c’era un tappezziere che alacremente operava con quell’attrezzo piatto largo quaranta centimetri per sessanta con numerosi chiodi un po’ ritorti cardava la lana del materasso di un suo cliente.

Poi, dopo un po’ passò davanti alla scuola elementare “Trento e Trieste”. Ai lati del portone di ingresso si notavano i grossi cartelloni che invitavano i bambini a non raccogliere oggetti trovati in strada. Era elevatissimo, infatti, il pericolo di incappare su residuati bellici relativi alla Seconda guerra mondiale, finita solo da qualche anno.

Ancora riecheggiava nell’aria il modo festoso e scanzonato degli americani che dismessa di tanto in tanto la divisa andavano, fino a poco tempo prima, in giro per Roma con le loro camicie sgargianti. Ovviamente nei volti di romani, invece, c’era ancora visibile il segno profondo delle ferite, specialmente quelle dell’animo che fanno solitamente molta fatica ad andare via. Anche se era percettibile in tutti la voglia di risollevarsi.

Passò quindi a salutare gli amici artigiani in via delle Zoccolette. Innanzitutto, il gommista Simmetro: un tipo di bassa statura dalla capigliatura rossiccia molto preparato e scrupoloso. Sempre davanti all’immancabile vasca piena di acqua dove inseriva i pneumatici per scovare, con le bollicine, le più piccole forature.

Come quasi tutti gli artigiani era un tipo taciturno e quando faceva qualche lavoro particolarmente delicato lavorava tirando fuori la lingua agli angoli della bocca. Aveva pure l’hobby della meccanica e della orologeria. Si era costruito un orologio a pendolo, tutto da solo. Ed i meccanismi erano mossi dalla catena di una vecchia bicicletta. Questo gigantesco meccanismo, a carica manuale, faceva un rumore abbastanza intenso e sinistro: si sentiva il rimbombo nella bottega ed anche fuori, nella strada. Come aiutante aveva un ragazzino di circa quindici anni che veniva spesso rimproverato dal padrone, sia per il fatto che non era molto pratico del lavoro, sia in quanto portava i capelli un po’ troppo lunghi.  

Poi, l’elettrauto, un certo Gino che aveva, pure lui, un talento particolare, quello di creare meccanismi originali. In particolare, inventò quella macchinetta in cui si inserendo una moneta nell’apposito foro, ne usciva poi un gettone per il telefono. Purtroppo, anzi ovviamente, non andò a registrare ufficialmente il brevetto della sua invenzione e qualcun altro si arricchì dopo, al posto suo.

Arrivò, quindi, in via Arenula dove poté vedere un paio di ragazzi che prendevano il tram al volo per poi scendere all’altezza di ponte Garibaldi, ovviamente sempre scendendo al volo in quanto i tram erano senza sportelli e quando andavano piano, ci si poteva salire mentre erano in marcia senza perciò correre rischi eccessivi. Certamente, solo per chi ne fosse stato capace.

Si sentiva alquanto strano; eppure, l’amenità dei luoghi che stava attraversando per arrivare a destinazione avrebbe dovuto di sicuro rasserenarlo. Stava passando davanti alla piazzetta del Monte Cenci dove c’era il ristorante che aveva inventato i famosi carciofi alla giudia, che è poi rimasto uno dei piatti tipici della cucina romana e aveva così raggiunto l’affascinante Isola Tiberina.

Il Commissario, pur essendo costretto, dal suo lavoro svolto, di poliziotto, a dure esperienze che – ovviamente – è facile immaginare, era sempre stato, però, un tipo abbastanza romantico ed amante delle cose belle.

Tra l’altro, in quella piazzetta si trovava l’incantevole chiesa di “San Bartolomeo all’Isola” dove, a suo tempo, si erano sposati i suoi genitori.

Lui stesso così alto, atletico e con gli occhi verdi. era un uomo piacente, che aveva da poco superato la trentina ed anche quel pomeriggio, come era solito fare, si attardò qualche istante ad osservare il tramonto.

Poi, lo sguardo si posò, come incantato, ad osservare il fluttuare del Tevere.

Da una parte c’erano dei giovani fiumaroli che si cimentavano ad attraversare la corrente a nuoto (allora il fiume non era molto inquinato). Dall’altra parte c’erano dei ghirigori nell’acqua che si formavano insieme ai mulinelli.

Con l’animo sereno, come fosse ossigenato dalla bellezza della città, l’occhio si concentrò su un tratto del Tevere, in quel punto più calmo.

Ma, all’improvviso trasalì: per un istante ebbe l’impressione di vedere che l’acqua si era fatta stranamente molto trasparente e a due o tre centimetri di profondità, praticamente sotto il pelo dell’acqua, c’era il corpo di una donna.

Flanetti, che, ovviamente, quasi non credeva a quello che stava vedendo si girò un attimo per trovare qualcuno che gli confermasse il tutto. 

Quando si voltò di nuovo verso il medesimo punto, l’immagine era scomparsa”.

Cosa mai gli stava accadendo? Si trovava forse in procinto di diventare pazzo? Non gli era mai capitato di avere questo tipo di traveggole.

Si guardò intorno: tutto era tranquillo e normale. L’intera faccenda non era durata che pochissimi secondi.

Fece un respiro profondo e si concentrò intensamente a pensare allo scopo della sua uscita al fine di ritrovare, in tutta la sua pienezza, la tranquillità di cui aveva bisogno.

Continuò il suo percorso anche se il suo animo non si era ancora del tutto sollevato continuava, però, ad osservare tutto ciò che gli passava davanti.

Questa era una caratteristica che non lo abbandonava mai: restava infatti un acuto osservatore e la curiosità, intesa come avidità di conoscenza del mondo circostante, era la principale molla che lo spingeva a guardare sempre oltre l’orizzonte.

Appena poteva, soleva mettersi ad ammirare tutti i particolari dell’Isola Tiberina. Pertanto, non tralasciò sicuramente di osservare anche l’importante Ospedale Fatebenefratelli, fondato ed amministrato dai frati.

Amava la storia di questo nosocomio, un vero condensato di opere importanti e meritorie ma anche di aneddotiche curiose e simpatiche come il fatto che nei primi anni del millenovecento un frate, con una forza fuori dal comune, estraeva i denti dei pazienti con le sole mani nude e si diceva che il religioso avesse conservato circa ottomila denti in una cassa, durante i quasi cinquant’anni di “benefica” attività svolta.

Flanetti lasciò l’Isola Tiberina, raggiunse piazza in Piscinula e passò vicino all’Arco de’ Tolomei ove erano collocati, dei servizi igienici. 

In città ce ne stavano di due tipi, quelli che somigliavano a delle specie di cassoni che andavano bene per tutti ed altri, in posizione verticale, sulle pareti dei muri, i caratteristici vespasiani per soli uomini, che avevano come paravento di protezione dagli sguardi altrui, solo un paio di lastre metalliche o di travertino verticali, di circa trenta centimetri per ottanta,  Anche in questo caso si può affermare che l’ecologia degli anni cinquanta era migliore di quella che viviamo oggi in quanto tali attrezzature non esistono più mentre allora erano molto utili.

Il Commissario oltrepassò poi via della Lungaretta e raggiunse così via della Luce.

La prima cosa che lo colpì fu il profumo di dolci di una pasticceria, anzi, per la precisone, quella era (ed è) sempre stata una biscotteria.

Tra l’altro questo storico esercizio (fondato ai fini dell’Ottocento e che dopo tanti anni ancora lavora) è famoso in quanto un parente dei titolari riuscì a salvare un bambino ebreo dalla famosa retata dei nazisti del 16 ottobre del 1943, spingendolo all’interno di un adiacente portone situato da quelle parti.

Come si accennava, in questo laboratorio artigianale venivano (e vengono) continuamente sfornate dei deliziosi “biscotti della salute” (sono delle fette biscottate ma nella terminologia popolare vengono chiamate in tale modo) e soprattutto dei dolcetti con dello zucchero granuloso, aromatizzato al limone, cosparso nella parte superiore.

La strada era stretta e chiassosa. Sembrava infatti che, quasi all’unisono, ci fosse una gara fra chi facesse più rumore: tanti erano gli artigiani, soprattutto l’arrotino che con la ruota e la sua bicicletta particolare emetteva dei suoni simili a sinfonie, gli altri artigiani come i calzolai, i falegnami eccetera che con i loro rispettivi attrezzi facevano echeggiare i suoni fra le facciate dei palazzi.

Davanti ai portoni si potevano vedere delle ragazzette intente a ricamare sotto lo sguardo vigile di anziane insegnanti.

Inoltre, con cadenze periodiche ravvicinate, si sentiva il rintocco delle campane delle vicine chiese: San Crisogono, San Bartolomeo all’Isola Tiberina, San Francesco a Ripa e Santa Maria in Trastevere.

Infatti, il centro di Roma ha sempre avuto una acustica molto particolare. I suoni sembrano moltiplicarsi: riecheggiano continuamente fra rumori di acqua causati dalle fontane, fra campane e voci della gente. Ed anche gli artigiani che, mentre lavorano, spesso canticchiano (ora purtroppo di questi ultimi ce ne sono di meno e la cosa non è affatto positiva. Per fortuna sembra che adesso stia nascendo la consapevolezza che gli artigiani sono il passato, il presente ed il futuro dell’umanità. E qualcosa, in merito, queste ultime amministrazioni capitoline pare sembrano essere interessate a ripromuovere l’artigianato in tutte le sue forme). Perfino il sole che picchia sulle antiche mura sembra avere un suono di magica interpretazione.

In tale contesto si sovrapponevano ed a volte decisamente avevano quindi “la meglio” i ragazzini che emettevano, mentre giocavano, dei martellanti strilletti. I giochi di questi bambini erano semplici, come, la palla, le boccine di vetro, le figurine di calciatori, un cerchio di bici da far rotolare, cercare di aprire con la punta di un temperino i semi di un cachi (chissà perché ora si chiamano loti) per vedere se dentro c’erano le posatine come cucchiai, coltelli o forchette, ecc., ma si notava in loro una grande serenità d’animo (a differenza di oggi che con i telefonini, o tablet in mano i giovani appaiono tristi e fuori di testa).

L’ufficiale di polizia continuava a camminare, mentre ascoltava, con piacere, la vita brulicante della sua città.

Da una porta-finestra che dava direttamente sulla strada poteva vedere una mamma che lavava il suo bambino in una bagnarola metallica poggiata sul pavimento della cucina (era certamente l’ambiente più caldo). Era ovvio che con tale acqua ci si lavava poi tutta la famiglia.

Vide poi passare una donna che portava una grossa teglia. Dal profumo che emanava il recipiente si capiva che era stata a far cuocere dal panettiere un pollo con le patate. Quasi tutti gli appartamenti erano infatti sprovvisti di forno e avevano solo un modesto piano di cottura a due o tre fuochi.

Si verificava quindi una situazione curiosa: nonostante che la signora non fosse affatto da disprezzare la gente di passaggio, riteneva più invitante il recipiente di quanto non fosse colei che lo portava. Certamente la fame regnava sovrana ma il profumo degli alimenti di una volta era qualcosa da non potersi raccontare.

Lì vicino c’era una coppia di ragazzini che si adoperavano per sistemare alla meglio un vecchio pallone di cuoio: “soffia più forte,” diceva uno, mentre il secondo con la faccia paonazza mostrava chiaramente che non ce la faceva più.

Con una attenta osservazione si poteva notare che uno dei due era vestito in modo leggermente meno misero dell’altro.

I bambini, infatti, appartengono alla categoria più democratica dell’essere umano.

Sotto un certo profilo c’era pure da sottolineare che, a quei tempi, fra i ragazzini “poveri” e quelli “poverissimi” non si rilevava affatto discriminazione di sorta e l’amicizia scaturiva reciprocamente spontanea.

 “Ecco,” diceva uno dei ragazzini, “adesso mettemo bene er bocchettone e tiramo bene i lacci…., così…. ; te sei fatto da’ la cotica (la cotenna del maiale) e pure er lardo dar pizzicarolo?” 

“Certo,” rispose l’altro.

Dalla tasca tirò fuori un pacchetto di carta-paglia completamente unto lo aprì, dopodiché cominciò a spalmare il grasso sul pallone.

“Mettilo bene sui bordi, soprattutto dove stanno le cuciture, così evitamo che se secca troppo er cuoio. Anzi, si n’avanza un pezzetto, passo un po’ de cotica pure sui scarpini” aggiunse il primo, col tono di chi voleva dimostrare di essere il più esperto.

Poco più in là, c’era, inoltre, un ragazzino, di circa dieci anni, dalla pelle molto scura (molto probabilmente un “ricordo” delle truppe alleate sbarcate in Italia verso la fine della Seconda guerra mondiale) che, invece di giocare a palla come gli altri, spiegava ad uno sparuto gruppetto come si costruiva un monopattino e diceva:

“Ve dovete da procura’ du’ tavole de legno delle dimensioni de circa quattro parmi de lunghezza pe’ uno de larghezza, poi ‘n altro pezzo de legno. Più che una tavola servirebbe un ciocco largo e spesso mezzo palmo e lungo almeno uno. Poi troverete un manico de scopa e lo dividerete in tre pezzi; i primi due, insieme a dei cuscinetti a sfera per le ruote ed un pezzo de due palmi servirà come manubrio. Quattro viti con il cerchietto in testa, quelle a cavicchia, ed un ferro lungo almeno un palmo completeranno l’opera.”

“Ammazza aoh ! È troppo difficile…. e poi dove li trovo tutti ‘sti materiali?”  Disse uno dei ragazzini.

Quest’ultimo, che gli altri chiamavano “er Pisulla”, era talmente magro e scheletrico che divertiva gli astanti comportandosi come fanno i saltimbanchi: riusciva, cioè, con un movimento addominale, a mostrare una pancia grande come quella di una donna incinta oppure a mandare in dentro il ventre stesso fino al punto che si formava nell’addome un buco così accentuato che si poteva vedere, dal davanti, la spina dorsale.

Era uno dei “baraccati” che solitamente vivevano sulle pendici di Monte Mario nel versante che guarda il fiume fra la zona di Ponte Milvio e piazza Maresciallo Giardino all’altezza del Foro Mussolini (fu successivamente chiamato Foro Italico).

Erano delle persone che vivevano nella completa indigenza.

Le loro capanne fatiscenti erano costruite con pezzi di cartone o, nella migliore delle ipotesi, con dei pezzi di legno compensato.  

D’inverno ci faceva un freddo atroce, con spifferi che passavano da tutte le parti e l’unico mezzo utile per ottenere un po’ di tepore era l’utilizzo del “prete” (recipiente di metallo con della brace ardente, oppure un mattone di argilla fatto riscaldare precedentemente). Quando pioveva, poi, venivano messi numerosi secchi per raccogliere il gocciolio (inevitabile) dell’acqua.

D’estate le cose non miglioravano di certo perché in certi momenti ci si sentiva soffocare.  Ovviamente, non c’erano servizi igienici e venivano perciò fatte delle apposite buche all’esterno della capanna.

Per maggiore precisione, c’è da dire, comunque, che anche il resto della “truppa” era notevolmente denutrito data la carenza di cibo in circolazione.

Sotto un certo profilo era senza dubbio positiva la circostanza che fra i ragazzini “poveri” e quelli “poverissimi” non c’era affatto discriminazione di sorta e l’amicizia scaturiva reciprocamente spontanea.

 “Io continuo a gioca’ cor cerchione mio… che forse è ‘a mejo cosa”, aggiunse er Pisulla e tenendo in mano un ferro, della lunghezza di circa mezzo metro e doppiamente ricurvo in punta, si mise a far rotolare un cerchio di bicicletta, causando un rumore infernale per tutta la strada.

Altri due ragazzini stavano lì dappresso a scambiarsi le figurine dei calciatori

Gli albi per la raccolta delle figurine hanno sempre avuto un grande successo in Italia (già negli anni Trenta erano famosi e rimase storica la ricerca dell’introvabile figurina del Feroce Saladino. Negli anni Sessanta un’altra figurina praticamente introvabile era quella del calciatore Pizzaballa, grande portiere).

“Se io te do Sentimenti Quarto, tu che me dai?”

“Io te posso da Loiodice oppure Tre Re; ah ecco, guarda c’ho anche Ghiggia e Corsini,” rispose l’altro.

“No, ce l’ho tutt’e quattro, nun se ne fa niente.”

Il Commissario si era fermato e se ne stava divertito ad ascoltare le interessanti conversazioni.

La sua mente volò a quando anche lui era un bambino e da appassionato tifoso della squadra di calcio della gloriosa Roma di Testaccio amava i suoi idoli del tempo che erano Fulvio Bernardini, Guaita, Krieziu ed il portiere Masetti.

Trovava particolarmente simpatico il carattere del “costruttore di monopattini” che – evidentemente – aveva una sorprendente manualità, degna di un esperto artigiano

Poco distante, di fronte e due donne anziane che facevano la lana (che si faceva in questo modo: mentre una donna, seduta teneva la treccia della lana con le due braccia sollevate e parallele, l’altra creava il gomitolo arrotolando la lana stessa).

C’erano pure tre bambini che stavano giocando a carte a zecchinetta (gioco con le carte conosciuto a Roma da molto tempo) seduti sul marciapiede. Come posta in gioco, non mettevano denaro bensì il valore facciale dei giornali a fumetti che avevano in mano. 

All’improvviso, però, una sonora pallonata andò a colpire il tutore dell’ordine in modo abbastanza violento riportandolo alla realtà e facendolo, per un attimo, cambiare di umore: “Maleducati ragazzini,” gridò indispettito.

Per tutta risposta un’altra piccola “canaglia” correndo, anzi scappando, per non essere catturato, gettò vicino ai piedi del Commissario una “castagnola” (un petardo fatto con della polvere pirica incartata insieme a dei sassolini, che, quando viene lanciato in terra esplode facendo un botto estremamente fragoroso).

Riavutosi, almeno parzialmente dal duplice trauma, Flanetti riprese ad interessarsi del caso che lo aveva portato lì:

“Scusa ragazzo,” chiese, all’esperto costruttore di monopattini: “sai dirmi a che piano abita una signora che si chiama Guendalina Moretti?”

Il bambino, che evidentemente aveva già parlato troppo nel dare le spiegazioni al resto della combriccola ed era altresì parzialmente deluso per l’incompleta adesione al suo progetto, non sprecò altro fiato ed alzò semplicemente l’indice ed il dito medio della mano destra per indicare il secondo piano.

“Che accidenti sarà successo in questo tranquillo, si fa per dire, angolo di Trastevere?” Pensò Flanetti mentre si avvicinava, sospirando e con passo lento, al numero civico indicato; tutti i portoni erano corredati del consueto patocco  (grosso anello di ferro che bisognava battere tante volte secondo il piano interessato: una battuta di questo oggetto per il primo, due battute per il secondo e così via).

Di tale attrezzo era indispensabile fare un uso appropriato se non si voleva disturbare inutilmente tutti gli altri abitanti dello stabile.

Si avvicinò al portone ai lati del quale c’erano, come di consueto, da una parte il paracarro e dall’altra la lama conficcata nel terreno per togliere l’eventuale fango dalle scarpe. Quindi, si mise a battere per due volte il pesante anello di ferro sistemato al centro del vecchio portone e rimase in attesa alcuni secondi, con l’orecchio vigile di chi si aspetta di sentire al di là del portone di legno qualche rumore di passi.

Niente…  Di nuovo compì la medesima operazione…: bam… bam..

Evidentemente l’appartamento era disabitato.

A questo punto decise di fare un giro di perlustrazione per indagare in modo più approfondito.

Tornò verso via della Lungaretta.

All’angolo di piazza in Piscinula c’era un fabbro intento a saldare due pezzi di ferro per costruire un lampadario artistico.

Il Commissario si soffermò davanti all’Osteria del Comparone situata proprio al centro del piazzale.

Lì, c’era un uomo che da un camioncino, scaricava del ghiaccio ed ogni tanto ne lanciava un pezzo ai ragazzini, che se lo contendevano ingaggiando aspre battaglie fra di loro o lanciandosi in tuffi degni dei migliori portieri di calcio.

Seduti ad un tavolo all’aperto del medesimo esercizio commerciale, c’erano due persone che giocavano a carte davanti al recipiente di vino che l’oste aveva appena portato loro.

Si trattava di una fojetta di vino spaccato (la tipica bottiglia da mezzo litro svasata al bordo contenente vino bianco, metà secco, metà dolce).

Insieme era stata portata loro anche una bottiglietta di gazzosa con la palletta (palla di vetro che fungeva da tappo per le bottiglie) e pure un pezzo di carta gialla, detta comunemente carta-paglia dove c’erano alcune coppie di carne (di cavallo) affumicata, salata e con molto pepe nonché altre spezie piccanti, legati stretti a due a due con dello spago.

Uno dei due uomini era un grassone in canottiera, flaccido e con la cute esageratamente coperta da peli, sui sessanta anni; l’altro aveva più o meno la stessa età, di media altezza e magro, con la faccia sudata, il colletto della camicia non del tutto pulito ed una sigaretta pendente dalle labbra che lo costringeva a tenere un occhio semichiuso.

Flanetti, si qualificò e chiese:

“Sapete fornirmi qualche informazione sulla signora Guendalina Moretti che abita in via della Luce 20?”

Il primo dei due posò le carte sul tavolo mantenendole coperte e addentando una delle coppie, che stavano sul piatto disse:

 “Voi siete proprio fortunato!”

“E perché?”

“Vede,” disse l’uomo alzando la mano con l’indice puntato in alto come un bambino a scuola con molta lentezza, “forse voi nun sapete che io, pur essenno nato e vissuto a vicolo del Cinque, sì, vicino a piazza Trilussa, so’ er padre der monnezzaro che fa servizio a ‘sto palazzo. Beh, mi fijo m’ha detto che quanno la matina sale su pe le scale cor sacco, è parecchio tempo che nun trova più er secchio de la monnezza a casa de la signora che ve interessa.”

(Peraltro, quei tempi erano veramente antesignani della tanto decantata “economia circolare” di cui oggi si parla tanto. Data l’indigenza non si buttava quasi niente, molte cose erano commerciate con vuoto a rendere e senza involucri; inoltre, quel poco di immondizia serviva anche per nutrire gli animali domestici.)

 Poi si alzò dalla sedia e varcando la “distanza di sicurezza “che è bene ci sia tra due sconosciuti, si avvicinò (accertandosi con fare circospetto che nessun altro lo ascoltasse) e sussurrò con voce profonda guardandolo dritto negli occhi:

“Nun ve lo dovrei di’, ma voglio confessa’ un’indiscrezione che gira da ‘ste parti. Se vocifera che la signora Guendalina Moretti sia morta!”

“Ma chi lo dice? E soprattutto quali sono gli elementi che convalidano questa ipotesi?”  Disse ancora il Commissario.

E l’altro, gesticolando con le braccia allargate:

“Eh, caro signore! Niente e nessuno. Ma so’ presentimenti che qui…, nel quartiere, tutti lo dicono…se sentono …, che ve devo di’? So’ cose che nun se possono spiega’. Anzi ve devo aggiunge, nun solo che è morta, ma è successo pe’ cause che a chiamalle strane, sarebbe veramente poco.”

A questo punto l’uomo smise di parlare, aggrottò le sopracciglia e allungando il dito verso il Commissario.  Poi, guardandolo dritto negli occhi, disse con un tono di voce basso e profondo:

“È stata assassinata!”

“Cosa è che glielo fa pensare?” 

Il tizio allargò le braccia, alzò le braccia verso il cielo, dopodiché, con estrema lentezza si rimise seduto per continuare la sua partita a carte.

Il Commissario, nel sentire queste parole, rimase profondamente turbato e anche se aveva voglia di fare altre domande, ritenne che ormai potesse congedarsi.

Dopo aver fatto due passi, si fermò e di voltò nuovamente con fare pensieroso.

”Come mai questa storia,” pensò, “mette nell’animo e non solamente nel mio, continue sensazioni strane se non addirittura fastidiose?”

E la sua mente si portò nuovamente alla visione che aveva avuto guardando nel letto del fiume; si toccò il lobo inferiore dell’orecchio destro, cosa che faceva d’abitudine quando rifletteva intensamente.

Allo stesso tempo, si mise ad osservare, quasi sovrappensiero, una signora che andava a fare la spesa con i tipici attrezzi adibiti a tale scopo: con una mano teneva una rete e con l’altra una sporta (borsa per la spesa fatta di triangolini di cuoio). 

La sua attenzione fu poi attratta da una vecchietta che ritirava il cestino: lo aveva calato dal terzo piano ove il panettiere aveva inserito gli spaghetti, di quelli venduti a peso e non confezionati, molto lunghi (di circa mezzo metro) e piegati ad “U”, tenuti insieme, per la metà, con della carta-paglia accartocciata; nella cesta aveva messo altresì un pacco di zucchero, confezionato con la carta del tipico colore grigio-azzurro, chiamato appunto: carta da zucchero.

Flanetti, in un dato momento, interruppe la divagazione e tornando con la mente all’argomento che più lo interessava, smise di tormentare il lobo dell’orecchio e disse fra sé:

“Io, di solito, non credo né al chiacchiericcio, né tantomeno alle leggende, ma in questo caso il mio istinto mi dice che c’è qualcosa da chiarire.”

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