DIPINGERE IL BUIO di Rosario Mattia Moniaci

La finestra è spalancata.

Dà sulla notte buia e irrespirabile, le note leggere di un pianoforte in lontananza disegnano un valzer su cui fluttua il pallido nitore delle stelle.

Nemmeno un filo di vento.

Solo le ombre scure dei tetti che rendono il cielo meno profondo.

La tavolozza è nera come la notte. Macchiata da sfumature di grigio e bianco, riflettono i puntini luminosi del cielo, unica fonte di luce in questa stanza, una lastra su cui sono incastonati diamanti opachi.

La stanza è spenta, a meno di un soffice cono brillantino che si posa sulla tela. Nonostante ciò, la mano riesce a decifrarla, ricalca l’osso parietale, poi quello lacrimale e, infine, il tubercolo mentale.

Una precisione chirurgica e sequenziale:

«È una questione di prospettiva. Basta fissare una fonte di luce e fare in modo che le parti in ombra siano in coerenza con essa. Il gioco di luci rende tutto più tangibile.»

Parole mormorate con la stessa delicatezza delle pennellate, un espediente per riuscire a dosare meglio la pressione.

Pennellate che seguono un tempo strisciante e misterioso.

Sono alle spalle e cingo le mie braccia intorno al bacino cercando di assecondare i movimenti.

Ho l’orecchio appoggiato sul dorso.

Ora batte.

Ora no.                                            

Ora batte.

Le macchie oleose si trasformano in riflessi.

Il grigio acrilico si sbriciola a contatto con il bianco su cui sono incisi i suggerimenti che solo la mano riesce a leggere, la miscela cinerea è destinata alle aree più ampie, quella gridellina agli strati di fondo.

Sento la melodica sospensione notturna e l’addome tremare con lo stesso ritmo dell’aritmia:

«Bisogna sfumare i colori per ammorbidire il confine tra le forme. Spesso si commette l’errore di seguire solo le forme della base, ma quella è solo un’indicazione schematica, a volte bisogna lasciare uno spazio, anche impercettibile, per permettere allo strato di fondo di accendersi.»

I movimenti sono atarassici quando si dedica ai denti. Ogni singola incrinatura, un canino storto, una macchia di sigaretta sugli incisivi, ogni dettaglio è ben studiato per restituirgli quello spessore tartarico che lo contraddistingue.

Non è semplice, soprattutto quando il modello non sorride e bisogna attingere ai ricordi.

Con un bel respiro inietta nella mente un pensiero che striscia con ignavia circospezione.

Un pensiero che riascolta una risata ringhiosa, quello di una stanza senza porte, da cui non è possibile uscire, in cui si infila un cane rabbioso che ringhia e inocula un’angoscia funebre, una pressione adrenalinica che gonfia l’aorta fino a risolversi in un aneurisma che soffoca.

È istintivo cercare di rifiatare, ma anche fatale perché le orecchie mozzate del cane nero riescono a fiutare la dispnea della paura.

Non si vede niente quando l’alito della sua saliva impregna la stanza, non si vede da che parte inizia ad attaccare, allora persino l’istinto di difendersi svanisce.

Non resta che urlare come un epilettico.

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