E LA CAMPANA CONTINUI A SUONARE di Katarzyna Anna Kurpiel

La coltre di neve fresca rendeva paesaggio astratto e sconosciuto. La terra si fondeva con il cielo, il mondo sembrava di un unico colore e a fatica si riusciva a riconoscere le forme del panorama. Tutto intorno era quieto e soffice, la nebbia ovattava il creato e pure l’odore nelle narici era bianco, umido e silenzioso.

Il Vecchio non aveva fretta, la libertà non conosce premura. Procedeva faticosamente sprofondando nella neve, respirando affannosamente.  Conosceva questa terra come sé stesso ed era certo che in nessun modo l’umanità sarebbe stata d’ostacolo al suo viaggio. Non era un eremita, solo che la gente gli piaceva poco e a piccole dosi.

In montagna era tutto diverso, più semplice e giusto. Le regole, da secoli immutate, erano ragionevoli, tutto ciò che mancava al genere umano.

Perciò, noncurante della sua età ormai oltre la soglia del “maturo”, il Vecchio continuava a fuggire nel bosco, portandosi uno zaino in spalla e il cappello rosso, dono di una giovane donna cui salvò la vita. Ma lui si ricordava più del sorriso della ragazza che del gesto con cui la portò in salvo e da quel giorno non si separò mai dal berretto.

Si fermò qualche volta a riprendere il fiato, a controllare la traccia e a godere delle meraviglie del deserto bianco.

Quando un pallido sole fece capolino tra le nuvole, decise di fare la sosta per mangiare e si accomodò al tavolo di una malga chiusa. L’edificio si trovava sulla collinetta e offriva un panorama mozzafiato sulla valle.

Il Vecchio poggiò il pane, il salame e la bottiglia di vino sul tavolo e cominciò a pasteggiare.

Prima tagliò una grossa fetta di pane, poi affettò il salume, quando, all’improvviso non si sentì più solo.

 Masticando lentamente si guardò intorno sottecchi, bevve un bicchiere di vino per scaldare i visceri, ma non vide niente. Ciononostante, si fidò dell’istinto che, chi come lui, in sintonia con il creato, impara velocemente a usare e che la gente giù chiama con disprezzo “primitività”.

Presto raccolse le sue cose e si avviò verso il bivacco dove avrebbe passato la notte.

Il paesaggio era inviolato, ma con la coda dell’occhio notò qualche rapido movimento. Decise di proseguire facendo delle brevi soste per scrutare furtivamente le vicinanze. La convinzione di avere compagnia si fece più forte. Perciò lasciò qualche fetta di salame nella speranza che qualunque fosse il suo compagno le avrebbe apprezzate.

Quando giunse al bivacco il cielo era ormai grigio scuro e stava inghiottendo le sagome delle montagne circostanti. Il bivacco somigliava a una scatoletta di latta. Un vecchio camino in pietra si trovava fuori e il Vecchio caricò le braccia di legna che trovò nel rifugio e si promise di tornare per restituire il prestito.

Accese il fuoco, preparò uno spiedo per far rosolare le grosse fette del salame. Il vino gli scaldò il corpo e l’anima facendolo sentire immensamente felice. Si era quasi scordato della presenza misteriosa quando improvvisamente vide due puntini luminosi come due stelle cadute sulla terra. Capì immediatamente e sorrise sotto i baffi, compiaciuto.

Finì di cenare senza ravvivare il fuoco e lasciò una generosa porzione di salame sul piatto per il suo compare. Andò a coricarsi sotto le coperte e non sentì alcun rumore fuori e, complice il vino, si addormentò subito e pesantemente.

La mattina dopo l’ho trovò di ottimo umore, al contrario delle tetre sbornie prese anni fa in città. Una frugale colazione e il Vecchio spalancò la porta.

Ora distingueva chiaramente le impronte dell’ospite misterioso.

«Ciao bello!» lanciò nel vuoto e si mise in cammino.

Tagliava l’immacolata coperta bianca fermandosi di tanto in tanto e osservando di nascosto i segni della presenza del compagno. All’incrocio con il sentiero proveniente dall’altra valle notò le impronte umane. Un improvviso senso di inquietudine e irrefrenabile voglia di tornare in dietro lo colpirono all’istante.

Il Vecchio rizzò le orecchie, annusò l’aria grigia e umida e rimase immobile, in ascolto.

Poco dopo si mise a seguire le orme. Procedeva senza far rumore sulla neve che scrocchiava come una torta di meringhe. Le tracce conducevano in un boschetto. Ora era più difficile distinguere le impronte e dovette spesso fermarsi per ritrovare la direzione giusta. Improvvisamente si arrestò, si tolse lo zaino, e lo appese ad un ramo, poi sparì tra le piante.

«Mettilo giù!» sussurrò verso l’uomo che stava puntando il fucile in direzione di qualcosa tra gli alberi.

«Ma che fai, tua madre vacca…» ringhiò in risposta l’altro cercando di dare una sbirciatina al suo assalitore.

Il Vecchio sbloccò il grilletto e ripeté l’ordine

«Mettilo giù!»

«Attento, Barba, che ti sparo, sporco pazzo! Tanto tutti lo sanno che non carichi mai il fucile» urlò e rise.

«Oggi ho fatto un’eccezione. Avevo un brutto presentimento di incontrare qualche canaglia.»

«Cazzo dici, rimbambito! Togliti prima che ti spari. Vuoi finire imbalsamato come quel lupo?» sogghignò nuovamente l’altro.

Il Vecchio sparò in aria.

Un rapido movimento tra i cespugli e la preda, qualunque fosse, riuscì a fuggire.

L’altro gettò il fucile a terra, avventandosi con i pugni sul Vecchio.

Presto il bianco della neve si colorò di rosso, l’assalitore sanguinava da una ferita superficiale.

«Ti medico o ti arrangi?» chiese il Vecchio.

«Sparisci vecchio stronzo. Tanto ti beccherò e ti ammazzerò, vedrai» sputò l’altro.

Soddisfatto, il Vecchio si allontanò.

Ormai calava la sera, quindi decise di passare un’altra notte al bivacco e scendere il mattino successivo.

Di tanto in tanto si fermava e cercava i segni della presenza del suo compagno, ma non lo vide. La sensazione di non essere solo, comunque, non lo abbandonò. E questo gli bastò, abituato come era alla solitudine.

Giunto al groviglio di lamiere del bivacco accese il fuoco e abbrustolì le ultime fette di pane e di salame. Ne lasciò un paio anche per l’ospite invisibile e si coricò come la sera precedente.

Il sonno gli cadde addosso velocemente ma restò leggero ed irrequieto. Pertanto, saltò in piedi appena sentì l’ululato dei lupi nelle vicinanze. In questa zona, incontrare un branco di lupi non era un fenomeno frequente, anzi, assai raro da qualche tempo.

Il Vecchio impugnò il fucile e si avvicinò cautamente alla finestra. L’ululato si stava avvicinando e poteva scommettere di sentire anche il ringhio degli animali. E capì. Sentì il grilletto di un fucile scoccare e spalancò la porta, parandosi in mezzo con l’arma pronta a far fuoco.

«Brutta canaglia, sei venuto a cercarmi?» tuonò nell’oscurità che brillava di decine di piccoli puntini.

Il ringhio sommosso degli animali si avvicinò.  

«Ti do lo stesso consiglio: mettila giù. Puoi uccidermi, ma i lupi ti sbraneranno prima che tu ne possa godere. Scappa e non tornare!»

Poi, non vide niente, ma sentì lo scrocchiare della neve sotto i pesanti passi che si allontanavano nel buio.

L’improvviso scuro silenzio inghiottì i puntini di luce e tutto tornò immobile e calmo.

«Grazie, belli!»

E il Vecchio, come lo chiamavano nella Valle, richiuse la porta del bivacco.

Il pullman era pieno fino all’ultimo posto.

Viktor ne è rimasto sorpreso. Si meravigliava di tutta questa gente pronta a varcare il confine dell’inferno. Soprattutto le donne che avrebbero potuto rimanere qui, lontano dalle bombe e missili che piovono sulle teste della gente mentre va al lavoro, a fare la spesa o porta il cane a spasso. Lontano dalla fame, dall’odore di bruciato e dalla nauseante paura che sconvolge le viscere.

Lui doveva tornarci, portando con sé a lungo desiderata laurea. Cinque anni di sacrifici e quel documento perdeva di significato con ogni kilometro che lo avvicinava al confine. Avrebbe dovuto essere il suo biglietto per una vita migliore, un futuro più facile rispetto alla sorte impietosa dei suoi genitori, che in ogni bufera storica si trovavano sul lato sbagliato delle barricate.

Viktor li amava e apprezzava la loro resilienza, ciononostante in lui cresceva il disgusto per la vita nella gabbia di privazioni, di incertezza e mancanza di speranze. O forse le certezze c’erano e proprio esse sono state il motivo per cui, da quando era lo studente delle medie, ha sempre desiderato di andare a studiare all’estero e girare la pagina della sua vita. Mamma e papà hanno perso la combattività, ma non la percezione della realtà e l’hanno sostenuto facendo il possibile, e pure l’impossibile. Lui ha fatto la sua parte, studiando e lavorando per mantenersi.

Poi incontrò Olha, incantevolmente bella.

La sua risata aveva il potere di scacciare i brutti pensieri che si annodavano nella testa di Viktor ogni volta che parlasse con i genitori. Non era mai troppo stanco per fare l’amore con Olha, anche dopo il turno in birreria. Il sentimento che si abbatte su di loro era come un tifone nella calura dell’estate tropicale, salvifico, primordiale e potente. Per un anno vissero in un mondo parallelo, fatto di sentimenti puri e totalizzanti, che con disperata inerzia stava per incrociarsi con la realtà.

Arrivò il giorno della discussione della tesi e Viktor poté finalmente stringere in mano il frutto di vita di tre persone. Un premio alquanto ambiguo, uno spartiacque tra il prima e il dopo, tra la pace e la guerra.

«Anche se fosse l’ultima cosa che faccio, ma la voglio fare, e da libero» disse a Olha la sera prima. Vide le lacrime negli occhi dell’amata e si commosse con lei, e con lei pianse per la prima volta nella vita. Senza nessuna vergogna, lei era la sua anima, erano tutt’uno, pensavano e soffrivano all’unisono.

«Torno con te» disse Olha baciando le sue guance umide.

«Non se ne parla neanche, Olha!» urlò in risposta lui, come se già provasse il tormento di vederla perire.

«Tu devi vivere, devi essere felice e realizzare i tuoi sogni.»

«Tu sei il mio unico sogno, Viktor, perciò verrò con te. Per me non c’è vita senza di te e non c’è nulla che desideri di più che condividere quello che ci sarà dato, capisci amore?»

Capiva perfettamente, per lui era lo stesso.

Ciononostante, sentiva il peso del sacrificio, e ancora di più, il peso di accettare questo dono. La voleva al sicuro, al riparo dagli attacchi arei e l’indigenza, con un futuro fatto di casa, bambini e creme antirughe. Quel futuro che qui chiamano con disprezzo “il solito tran tran” e che quelli come lui agognano invano. Lei fu irremovibile e partirono insieme il giorno dopo la festa, lui ancora stordito dai fumi dell’alcol e lei premurosamente accanto a quel corpo anestetizzato, sospeso tra l’essere e non essere, restio a ritornare vigile. Quella sera bevve tanto, tanto da sperare di morire. Meglio finirla ora, avendo Olha e gli amici vicini, che essere abbattuto come un topo da un cechino nemico e finire per eternità in una fosse comune. Ma non accadde. Vomitò tutto il disgusto e il terrore che gli avvelenavano il corpo più dell’alcol stesso e salì sul pullman diretto a Medyka.

Le ultime diciotto ore della pace passarono inspiegabilmente veloce. O erano loro, restii a far ritorno sulla scena di una guerra moderna. Lui rassegnato, lei infallibilmente pratica e forte. L’ammirava e le era infinitamente grato, altrimenti il suo nome avrebbe allungato la lista dei disertori, probabilmente. Magari ella non sarebbe riuscita a salvargli la vita, ma salvò la sua anima.

La prima notte di ritorno in patria passarono a casa di Viktor. L’indomani i genitori di Olha sarebbero venuti a prenderla e portarla a casa, a duecento chilometri di distanza. Si stringevano convulsivamente le mani mentre la macchina del vicino, che i genitori di Viktor presero in prestito per l’occasione, serpeggiava tra i cumuli di macerie e le spaventose sagome dei palazzi sventrati dal fuoco. La vita sembrava scorrere indifferente al nefasto paesaggio e si vedeva anche chi abbozzava un sorriso o un saluto amichevole.

«Mamma, ci sposiamo!»

Viktor era radioso a dare la notizia del sogno che diventava realtà.

«Come vi sposate? Quando? C’è la guerra…» la donna era perplessa.

«Fra due giorni. Proprio perché c’è la guerra non vogliamo aspettare. Il pope verrà qui a casa visto che la chiesa è stata distrutta.»

«Come faccio a preparare tutto in due giorni? Non puoi farlo…!»

«Mamma…mamma, tranquilla. Non serve nulla, importante che ci siate voi, i genitori di Olha e i nostri vicini. La vera festa la faremo quando la guerra sarà finita. Te lo prometto» e baciò la madre per distogliere il pensiero dalla bugia che l’aveva appena detto.

La donna non protestò più, consapevole anch’essa dell’azzardata promessa, e decise di regalare al suo unico figlio tutta la felicità che le era possibile trovare nel fondo del tormentato cuore di madre.

«Allora meglio che mi dia da fare a preparare tutto, oggi giorno non è affatto facile trovare cose buone e a sufficienza, sai. Ma ci riuscirò. Serghej, quello che lavorava con tuo padre, ha sempre la cantina piena di ogni bene. Secondo me specula sul mercato nero, ma sono certa che per il tuo matrimonio non ci chiederà una fortuna. Tuo padre l’aveva sempre coperto al lavoro quando usciva per i suoi ‘traffici.».

«Ecco, ho portato qualche risparmio, dovrebbe bastare» e srotolò un pugno di banconote allungandoli verso la madre.

Viktor li stava aspettando ogni giorno da quando attraversò il confine.

Sono arrivati in due, presto la mattina, come fa la polizia. Quando bussarono alla porta Viktor sapeva, perciò fermò gon un gesto il padre e andò ad aprire personalmente.

È lui che stavano cercando. Uno di loro, il più anziano, l’ho scrutò per un lungo momento in cui un’ombra gli oscurò il volto, ma poi chiese di vedere il certificato di laurea, il passaporto e la licenza per sposarsi.

«Bene, congratulazioni a te e alla futura sposa. Presentati lunedì al punto di reclutamento territoriale numero 2 in via Melnikova 3, altrimenti saremo costretti a venire a prenderti. Hai tempo entro le dodici. Ancora tanti auguri.»

Entrambi i militari fecero il saluto e scesero le scale del palazzo. L’ascensore da tempo era rimasto bloccato tra i piani perché non si trovava un meccanico in grado di metterlo a posto.

Quel giorno, il giorno del matrimonio, si sforzarono di essere soltanto felici e di non pensare al ‘dopo’. L’ardua impresa, tutto era anormale e tutto li ricordava che si stavano sposando durante la guerra, tre giorni prima che Viktor venisse inghiottito dalla macchina infernale che trasformava le persone in corpi disanimi e mutilati. L’allarme antiaereo, fortunatamente, non suonò e poterono godersi l’umile banchetto ininterrotti.

Mentre la vodka catalizzava l’umore, improvvisamente, nel piccolo ristorante fece irruzione un commando armato.

In pochi se ne accorsero subito, abbandonati alla decadente allegria, nell’umano riflesso di cercare la normalità. I militari ordinarono di spegnere la musica e di chiudere tutte le uscite, poi disposero tutti gli uomini presenti, compresi i lavoratori della taverna, da una parte e controllarono i loro documenti.

Quella sera ne portarono via la metà, assieme alla voglia di festeggiare di chi era rimasto.

Sbalorditi e increduli prosciugarono le bottiglie tra sommesse chiacchiere e qualche lamento più audace. Le voci sul reclutamento forzato giravano da tempo, però trovarsi nel bel mezzo della “retata” gli sbatté in faccia l’odiata realtà, facendoli sentire piccoli, insignificanti e impotenti come topi in una gabbia.

Viktor e Olha non chiusero l’occhio per tutta la notte, guardandosi voracemente quasi senza proferire parole. Il tempo era diventato palpabile mentre fuggiva senza guardarsi indietro. Quando alla fine udirono i primi gorgheggi degli uccelli, colmi di forza e speranza verso un nuovo giorno, il mondo rimaneva ancora avvolto dalla coltre di oscurità e immobilità. Senza la luce sembrava perfino accettabile, l’aria calma non si era ancora saturata di sofferenza e il sole non aveva ancora puntellato i cadaveri di persone, animali e cose. L’aria di prima mattina poteva perfino curare l’anima infondendo una irrazionale speranza che tutto fosse solo un incubo, un brutto sogno. Il canto della natura era talmente convincente, con la testa di Olha sul cuscino, che Viktor sì quasi convinse, che il giorno che stava nascendo davanti ai suoi occhi sarebbe stato uno come tanti, un giorno di ordinata felicità che nessuno apprezza finché ne è privato irreversibilmente. Quando sentì il respiro armonico di Olha, capì che era sprofondata finalmente in un sonno taumaturgico e la vegliò da vicino, cercando di imprimere nella memoria ogni più piccolo dettaglio del suo volto.

«L’avrebbe ricordato al momento della morte?» si chiedeva.

Arrivò il lunedì mattina. Viktor prese uno zaino e lo riempì quasi senza pensare, a fatica trattenendosi dalla voglia di fuggire.

Non pianse per non straziare il cuore della due donne che lo assistevano mentre si preparava ad andare in guerra. Il padre rimase abbattuto sulla poltrona e non si mosse da lì come se avesse paura di non riuscire a reggersi in piedi, più piccolo e vecchio che mai. Non è così che si immaginava la loro prima passeggiata da sposati, pensò, mentre Olha camminava al suo fianco e il mondo intorno continuava ad andare malamente avanti.

La guardia posta all’ingresso del centro di reclutamento controllò i suoi documenti e gli indicò di entrare mentre non lo permise a Olha. Capì col panico che era arrivato il momento più temuto quando avrebbe guardato la sua anima negli occhi per l’ultima volta. Cosa doveva dire? Niente di indelebile gli veniva in mente. Solo il panico paralizzante e rassegnazione. Stava per mettersi a implorare la guardia che gli premettesse ancora un momento con la nuova moglie quando Olha disse:

«Sono qui per arruolarmi anch’io. Ho la laurea in Sicurezza Informatica e posso esservi molto utile.»

Entrambi la guardarono increduli e il panico di Viktor divenne il terrore assoluto, ma la donna fosse irremovibile, come sempre del resto.

Le tre settimane di addestramento passarono nello stesso campo e fu la loro luna di miele, di fango e odore di sudore.

Viktor non le perdonò la decisione, ma poterla vedere e toccare ogni giorno, ancora e ancora, lo indusse a dubitare che la morte era inevitabile. L’amore, si dice, è cieco e irrazionale, e lui diventò così. Poi, lei fu destinata alla Divisione Controspionaggio e lui sul fronte.

Viktor morì in battaglia due mesi dopo, come temeva, per mano di un cechino in un villaggio lontano.

Durante l’agonia, mentre sentiva il colore del sangue pulsante, si confortava con il pensiero che Olha era al sicuro in un ufficio e dopo la guerra sarebbe venuta a cercare il suo corpo. Non sapeva che un massiccio attacco missilistico russo aveva colpito la caserma dove aveva la sede la Divisione Controspionaggio, uccidendo dodici persone e ferendone altre settanta.

Viktor e Olha se ne erano andati all’unisono, come al solito.

Piove. Diluvia. Tanta acqua.

E ieri non ha piovuto, c’era il sole.

Mi alzo, nonostante tutto. Anche se questo non cambia nulla.

Solo quando dormo, quando sogno, è diverso e succede qualcosa. Allora posso correre a piedi nudi lontano da qui.

Poi mi sveglio, ho lo stesso soffitto bianco sopra di me. Come in qualche ospedale psichiatrico.

Sento il vicino che tira l’acqua dello sciacquone.

Quindi anche loro si sono già alzati. Questo significa che stanno bene, altrimenti, se non dormono tutta la notte, rimangono a letto fino tardi la mattina.

Dunque, continuo a sbirciare dalla finestra come se fossero i miei parenti. Non sono parenti, ma non c’è nemmeno nient’altro che valga la pena osservare.

Uno, due, tre… sono le otto e quarantacinque.

La campana suona come un cupo memento mori, e perché no?

Il suono del clacson di un’auto mi distoglie dai pensieri sulla morte, qui su questo freddo pavimento di clinker beige.

Perché ha così tanta fretta? Perché corre? Ha un lavoro?

Vado a prepararmi un caffè solubile e guardo di nuovo fuori dalla finestra. Non è cambiato nulla da ieri. Il paesaggio resta immobile, così come è fermo il tempo.

Tempo, tempo, tempo.

Un sacco di tempo infinito.

Sembra divertente, ma non lo è affatto. Può essere vero che l’intero globo ruoti costantemente e qui c’è una tale stagnazione? Che questo turbine del movimento terrestre non riesce sradicarmi, spostarmi?

Guardo ancora e il vicino sta già buttando la spazzatura e io sono ancora bloccata in mezzo alla cucina con una tazza. Cosa sto realmente aspettando? Che succeda qualcosa e faccia vibrare la statica atmosfera?

Oggi piove, ma per me non fa differenza. Dove andare? Cosa fare? Niente, guardare se smette.

Sono le nove.

Così posso andare a letto per le ventuno. E la vita dopo la vita.

Mi vesto, si mi vesto comunque.

E prima mi lavo. Per il rispetto verso me stessa. Sono l’ultima persona che mi rispetta ancora. Susseguirsi di lenti gesti quotidiani mi dà la sensazione di rimanere agganciata alla corrente della vita che ormai scorre altrove, evitando il mio regno di non esistenza.

Non mi affretto da nessuna parte, i miei pensieri non corrono in mille direzioni, non affronto molteplici compiti, non pianifico le giornate frenetiche, non tesso innumerevoli discorsi pensando già alla sfida successiva.

Rimango seduta sul divano a rendermi conto quanto lentamente passa il maledetto tempo. Ogni minuto lascia la sua pesante impronta nell’aria, con odore di inutilità, e si espande come la macchia di umidità sui muri. Non te ne puoi liberare mai più.

Smetto di contare i giorni e di distinguere le feste come un alcolizzato perde il conto dei bicchieri. Ne ha bevuti troppi. E ne berrà ancora molti, non c’è nessun punto nel contarli.

La noia è bella, l’inutilità mortale. La noia è solo il passaggio tra due momenti di attività, l’inutilità è uno stato permanente che sfocia nella pazzia. O nella morte.

Il mondo taglia i ponti con te.

Nella gabbia delle giornate tutte uguali, cerco di convincermi che ho la possibilità di uno sconto della pena, mentre i rintocchi della campana continuano a segnare la fuga del tempo dalla mia vita.

E poi il silenzio.

Man mano si estinguono pure i miei pensieri come per compenetrazione tra due ambienti confinanti. Non sono neanche più sicura di essere capace di generare un pensiero brillante…come una volta, né di sostenere una conversazione con qualcuno diverso da me stessa.

Davanti allo specchio osservo le varie facce che mimano le reazioni dell’interlocutore immaginario, ma vedo soltanto i miei occhi spenti e rigonfi.

La voce mi esce rauca e incerta come se volesse abbandonarmi pure lei, dimessa dal servizio.

La campana ora suona a morto. Il ritmico din don scandisce il silenzio che ormai avvolge il defunto.

Inizio a considerare un’opportunità nuova, ispirata dalla monotona e greve cantilena din don.

Le pillole non fanno male, non fanno provare un dolore lancinante degli arti amputati da un treno o il terrore dell’inevitabile agonia di un salto nel vuoto.

No, i sonniferi sono buoni, fanno sentire rilassata e tranquilla, e pronta.

Devo stare attenta però a prendere la giusta dose altrimenti si rischia una vita da vegetale. Beh, a quel punto solo gli altri sanno e sentono che sono un vegetale perché io sarò praticamente andata, morta e non potrò provare più nulla, non saprò più chi sono e tantomeno mi renderò conto che sono in coma.

O magari lo saprò ma non me ne fregherà niente perché se l’attività cerebrale sarà minima allora anche la mia percezione dello stato in cui mi trovo sarà assente.

Quindi, diventerà un problema degli altri.

Ma, supponendo che finirò in coma, perché non ho inghiottito abbastanza compresse per andare direttamente al Creatore, continuerò a soffrire? Cioè, quella minima attività celebrare sarà proprio il dolore di cui tento di liberarmi? L’ironia della sorte, ma che macabra, meglio non correre i rischi.

Non è una fuga.

Non muoio perché non posso più sopportare le avversità che si abbattono su di me da una vita, ma perché sono diventata un peso pure per me stessa.  

In realtà, “diventare la complicazione nella vita dell’altro” è un peso, un peso enorme, che mi trascino legato al collo da troppo tempo. 

E mio figlio?

Lui ormai è cresciuto, indipendente. Potrebbe sopportare il peso della mia morte, ma non certo della mia pazzia o del mio diventare una di quelle facce senza nome né connotati che affollano i portici delle stazioni dopo che gli ultimi pendolari si sono avviati verso le loro case. io una casa non ce l’hai, non l’ho mai avuta.

Mio padre si era indebitato, chissà per fare cosa, e così si era giocato pure il mio di futuro. Per fortuna, da parte della madre non ho ereditato i debiti ma solo un conto vuoto e pochi ricordi. Non sempre piacevoli, ma questo non è stata nemmeno colpa sua.

La malattia di mia madre ha gettato una lunga ombra sull’esistenza della mia famiglia e ne ha sconvolto irreversibilmente i destini.

Papà divenne triste e irascibile, con una certa inclinazione ad affogare i dispiaceri di un genitore solo nell’alcol.

Mia nonna, venuta a fare le veci della donna di casa, fui iperprotettiva, per non dire ossessiva, nei miei confronti, sottoponendomi alle ottocentesche regole di educazione e al regime di clausura. La sua demenza senile ha popolato la mia adolescenza di personaggi loschi e impuri che attentavano alla mia virtù in ogni dove, perciò, era consigliato chiudermi in casa.

Non ho ereditato la pazzia di mia madre, ma questo non mi ha salvata da essere infelice come lei.

Ecco, oggi, voglio smettere con questo vizio di insistere anche dove non dovrei, spingermi oltre l’orgoglio e il buonsenso.

Già, non ho perso la ragione, no, parlare a freddo del proprio suicidio è un atto di estrema consapevolezza e lucidità: bisogna scegliere il metodo migliore cioè quello, che garantisce più probabilità di successo, evitando spiacevoli inconvenienti come stati vegetali prolungati o mutilazioni invalidanti, che andrebbero contro ai presupposti di quest’auto eutanasia.

Non c’è spazio nemmeno per il cinismo, solo realismo, che può ferire ugualmente.

Come ci si arriva a pianificare il proprio suicidio? A volte la strada è breve, a volte lunga.

La mia è durata cinquantaquattro anni, diciamo trenta, perché non sono nata con quell’intento, ed è passato molto tempo prima che la speranza mi abbandonasse- ne ero aggrappata come l’edera al muro.

A trent’anni ero convinta che la vita di tutti a volte fa schifo e che ad ogni persona, prima o poi, succedono cose orribili, ma questo ci fa diventare forti per andare avanti, in contro a un futuro migliore.

A quaranta, ero diventata più cauta nell’ottimismo e più pragmatica, che, credevo, mi dovesse salvare dalle ulteriori delusioni.

Quando a cinquant’anni mi sono accorta, che l’anelata pace e quiete tardava ad arrivare, anzi, l’orizzonte si era ricoperto di nubi scure e gravide di imminenti avvenimenti a me avversi, ho realizzato che tra gli umani esistono anche le persone che la pace non la troveranno mai.

È il pensiero che mi terrorizzò e come un pugno sullo sterno mi tolse la capacità di respirare, di vivere. Avevo gli occhi ancora pieni di luce del sole, ma mi sentivo diversa, come se ogni attimo di vita includesse il principio della fine di essa.

Ho compreso, che la società ha messo una croce su di me, non era più conveniente investire in una persona che avrebbe dovuto ormai soltanto tagliare i coupon dalla propria carriera in attesa del pensionamento.

Ero troppo vecchia per aspirare ad un futuro e troppo giovane per vivere sulle spalle del sistema. Ne ero letteralmente fuori.

La scia dei sacrifici inconcludenti, che era il mio Curriculum Vitae, mi portò a diffidare della mia capacità di comprendere la realtà, mise in dubbio l’entità delle doti con le quali avrei voluto contribuire e che davo per certe.

Ora viaggiavo su un binario parallelo, un binario cieco, cui rotaie non sbucavano in nessuna stazione, ma improvvisamente terminavano nella distesa di niente. Tenersi aggrappati alle maniglie di sicurezza non impediva il convoglio di sbandare e ad arrenarsi in mezzo al nulla. E io ero a bordo, con tutte le mie aspirazioni e speranze. 

Ed eccomi, davanti a un bicchiere di buon vino, me ne voglio andare con classe, mantenendo le parvenze di essere finalmente io a decidere.

È ancora una cosa che posso controllare. Posso scegliere se rimanere ad aspettare la chiamata sul cellulare che non arriva mai, il colloquio di lavoro al quale non vengo mai invitata, o salvaguardare la mia dignità di donna ed essere umano che ogni giorno sprofonda un altro po’.

L’ho trovato estremamente difficile di convivere con l’impotenza che provo in ogni minuto della mia vita, con la sensazione di sconfitta ingiustificata assieme all’incredulità che stia succedendo proprio a me.

Il Sistema mi aveva inghiottita, spremuta, usata e sputata come una gomma da masticare.

Stanno avanzando le nuove fila di stagiste da sottomettere, molestare e sfruttare.

«No alla violenza sulle donne!» si sente, ma nessuno pensa a noi, le “scadute” che vengono messe da parte con l’apparizione delle prime rughe profonde per diventare ogni giorno più invisibili.

E chi lo decide?

Nella maggior parte dei casi è un uomo, spesso attempato, colui che dieci anni fa ci mandava le occhiate libidinose e ora non ci permette di deturpare il suo ufficio.

La sedia d’onore spetta sempre alla tirocinante di turno, costo ridotto e terreno di caccia.

Perciò, prima che mi venga tolta pure la capacità di decidere di me stessa, porto il bicchiere mezzo vuoto alle labbra e comincio a contare…una, due, tre… mentre la campana fa il din don.

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