SOGNO DI UN POMERIGGIO DI MEZZA ESTATE di Guido Fariello

Foto di pixabay

Nelle giornate di mezza estate, decine di imbarcazioni da diporto, a metà mattinata, tolgono gli ormeggi dai posti che hanno in concessione nel porto turistico “La Marina Dorica” o che hanno in uso nelle speciali strutture allestite intorno alla Mole Vanvitelliana, e se ne vanno verso la Baia di Portonovo.

Il punto preciso della destinazione non consente molte scelte. Infatti, se il vento soffia dai quadranti settentrionali, per esaudire i desiderata di moglie, fidanzate e loro amiche, che amano distendersi al sole in acque calme, la meta è lo scoglio del Trave. Se invece vige il caratteristico scirocco estivo, bisogna navigare per altre tre miglia, per ridossarsi, rispettando le distanze di sicurezza per i bagnanti, nelle vicinanze della piana con i laghi retrodunali ai piedi del Monte Conero. 

Lo scoglio del Trave è una forma geologica peculiare. È formato da una parete rocciosa affiorante dall’acqua che si sviluppa perpendicolarmente alla linea di costa inoltrandosi nel mare per oltre un chilometro. Esso rappresenta un vero e proprio molo naturale in grado di difendere la spiaggia sia dalle mareggiate che dall’erosione marina. Il Trave non è una scogliera, bensì una naturale parete rocciosa che originariamente emergeva dall’acqua e che, negli anni, è stata gradualmente erosa dalla forza del mare.

Numerose sono le leggende che sono state costruite, dalle genti del mare, nel tempo, sulla sua natura e sulla sua destinazione.

Per la sua particolare conformazione il Trave consente ai diportisti del mare di trovare riparo dal moto ondoso e permette di godere di una giornata di sole calma e rilassante.

La piana di Portonovo, invece, si formò in conseguenza di una enorme frana.

In epoca preistorica, l’erosione del mare alla base del Monte Conero fece precipitare in acqua una quantità mastodontica di terra, rocce e detriti. L’azione delle onde, nel tempo, formò delle dune che intrappolarono l’acqua del mare che si mischiò con bolle di acqua sgorganti dal terreno e provenienti da piccoli fiumiciattoli immissari temporanei. Si formarono, così, il Lago Profondo e il Lago del Calcagno o Lago Grande.

La distesa ospita anche significative testimonianze storiche: la Torre di Guardia eretta nel 1716 da papa Clemente XI per difendere il territorio dalle incursioni piratesche e il Fortino Napoleonico, risalente al 1810, fatto costruire dal Viceré d’Italia Eugenio Beauharnais per realizzare il blocco continentale deciso dall’imperatore Napoleone contro l’Inghilterra.

La lingua di terra, insinuandosi nel mare, attenua il moto ondoso dei venti meridionali e, come il Trave, permette di ormeggiarsi in acque piatte.

Era un giorno della prima settimana di agosto quando, un po’ titubante, cedetti alle insistenti offerte di Daniele di ricevere il battesimo della barca e della Riviera del Conero.

La barca era ormeggiata lungo uno dei lati pentagonali della Mole Vanvitelliana, una stupenda e mastodontica opera del diciottesimo secolo di Luigi Vanvitelli, quello che sarebbe diventato famoso per aver progettato la grandiosa Reggia di Caserta.

In verità, l’uscita in mare non iniziò proprio nelle ore mattutine. Ce la prendemmo comoda. Non avevo mai visto prima la barca di Daniele, un Boston Waler 17 Montauk.

La prima impressione non fu positiva. Mi sembrava un’impresa azzardata avventurarsi in mare aperto con una specie di guscio di noce, tanto appariva piccola. Dalla superfice dell’acqua mostrava una prua esile e sagomata a modo di ala di gabbiano, come mi spiegò poi Daniele.

Appena salita a bordo, aiutata dal mio mentore, la mia prima impressione cominciò a modificarsi. Camminai, a piedi scalzi, su dei morbidi cuscini, superando uno spazio abbastanza ampio da permettere a due persone di stare comodamente sdraiati, e fui invitata a sedermi su di un solido sedile imbottito con uno schienale in legno di teak, nella parte destra, accanto al posto di guida. Non feci caso al fatto che a poppa dell’imbarcazione era posizionato un poderoso motore di colore nero con il gambo rialzato.

Me ne accorsi quando Daniele, dopo averlo abbassato, armeggiando su una leva, girò una chiavetta e lo mise in moto. Udii un rombo e mi girai. Quel rumore mi diede una certa sicurezza poiché mostrava forza e potenza a dispetto delle ridotte dimensioni della barca.

Lasciammo lo specchio d’acqua antistante la Mole Vanvitelliana e attraversammo, ad andatura lenta, il porto con attraccate numerose navi traghetto in fase di carico di passeggeri e automezzi.

Appena fuori dall’imboccatura dello specchio d’acqua protetto da poderose scogliere, Daniele esclamò:

«Gentili signore e signori siamo pronti al decollo. Allacciate le cinture e tenetevi forte!»

Nello stesso tempo mi prese la mano destra e me la posizionò sulla struttura d’acciaio a protezione della consolle.

«Tieniti forte!» aggiunse.

Così dicendo spinse in avanti la leva di comando alla destra del timone.

Il motore rombò, la prua della barca si sollevò dall’acqua, e io fui schiacciata nello schienale.

La barca ebbe un sussulto e cominciò a correre come una scheggia, lasciandosi dietro una scia di spuma bianca.

«Ora ti faccio vedere cosà può fare!» disse il mio mentore quasi urlando in una specie di esaltazione di piacere. I suoi occhi brillavano e la sua bocca rideva.

Poi, senza diminuire la velocità, virò a destra e, subito dopo, a sinistra, compiendo delle curve che lasciavano dei cerchi perfetti sulla superficie del mare. La piccola imbarcazione ubbidì docile piegandosi di 45° ma senza nessun accenno a derapare. Sembrava che, in quelle manovre azzardate, fosse ancorata a delle rotaie sottomarine che la tenevano nella giusta carreggiata.

La dimostrazione durò pochi minuti. Daniele si rese subito conto che non era il caso di insistere vedendo un accenno di terrore sul mio viso e la forza con la quale stringevo il tubo d’acciaio che sovrastava la consolle.

E così, procedemmo ad andatura più calma in direzione sud.

Oltrepassammo il cantiere delle grandi navi; lo scoglio chiamato “la seggiola del papa” per la sua caratteristica forma; la spiaggia del Passetto con la nuova struttura in vetro dell’ascensore; la lunga teoria delle grotte scavate nella roccia; la spiaggia dei gabbiani; la scogliera della “scalaccia”.

La barca filava docile, sembrava accarezzare le piccole onde che ci accompagnavano da poppa, mentre io assaporavo l’aria che profumava di mare e ammiravo la vegetazione della falesia di un verde intenso per, poi, spostare la vista sulla superficie del mare che appariva come di smeraldo.

Improvvisamente l’acqua cambiava colore. Da verde intenso diventava scuro. In trasparenza si vedevano massi di un colore nero intenso.  

«Sono le cozze» disse Daniele «che danno il colore nero all’acqua del mare. Ne sono piene tutte le rocce sommerse della Riviera del Conero. Più avanti c’è una spiaggia particolare che prende il nome, appunto, dei “sassi neri”!»

La barca passava sopra quelle rocce senza subire il minimo sussulto. Sembrava quasi come se le accarezzasse scivolandoci sopra con delicatezza. Daniele manovrava il timone cercando proprio quelle più evidenti e affioranti.

«Non ti preoccupare!» disse rivolgendomi un sorriso tranquillizzante. «I sassi sembrano quasi affioranti. In realtà sono ad una profondità tale che noi ci possiamo passare sopra senza impattare. Naturalmente questo ce lo permette il nostro Boston Waler.  Se fossimo stati su di una barca a vela con deriva o bulbo, a quest’ora saremmo stati in seri problemi per aver distrutto la casa dei pesci e provocati seri danni alla nostra barca.

Finalmente arrivammo al Trave. Daniele con una speciale manovra ormeggiò la barca a pochi metri dalla scogliera legando la barca, a prua, con una cima alla cui estremità aveva costruito un occhiello con una gassa d’amante, mi spiegò dopo, che aveva agganciato su uno spunzone della roccia e, a poppa, con una piccola ancora che aveva lanciato in mare a mo’ di lazo per la cattura degli animali.

Quando la barca fu sistemata, il mio mentore issò un tendalino che creò una zona d’ombra sulla zona munita dei morbidi cuscini, ricoperti di spessi teli di spugna, nella zona davanti alla console.

Fu una giornata indimenticabile. Sole, mare, bagni ripetuti, snorkeling imparato in dieci minuti di lezione, picnic in barca.

Il pranzo fu una piacevole sorpresa. Non ci avevo proprio pensato. Credevo che avremmo dovuto rinunciarvi per la gita in barca. Non avevo fatto caso ad una specie di valigia rigida di colore rosso con il coperchio bianco che Daniele aveva caricato a bordo prima di avermi fatto salire. Avevo pensato che facesse parte delle dotazioni di bordo.

Era, invece, uno speciale frigorifero contenente porzioni di pasta fredda, frutta fresca, bibite ghiacciate, e anche dolci e caffè caldo in due piccoli termos.

Inutile aggiungere che, dopo un tale trattamento, entrambi ci addormentammo protetti dai raggi del sole dal provvidenziale tendalino.

Erano quasi le 17:00 quando riaprii gli occhi. Passarono alcuni secondi prima di riacquistare la padronanza della situazione.

«Ben alzata!» disse Daniele «Un altro bagno e poi saremo pronti per il ritorno!»

Eseguii gli ordini docile e soddisfatta.

«Posso stare seduta davanti sul prendisole?» chiesi.

«Certamente, e il posto più bello per assaporate le sensazioni del tramonto!»

Mi accoccolai con le gambe accovacciate e la schiena rivolta alla consolle. Avevo in testa un cappello a larghe falde e spessi occhiali da sole.

Ora, le piccole onde erano di prua e la barca compiva piccoli sbalzi che Daniele cercava di attutire moderando la velocità.

Rividi da un’altra angolazione tutti i posti che avevo ammirato alcune ore prima.

Era una sensazione di pace e serenità. Ogni patema era come non fosse mai accaduto.

«C’è un’altra cosa che devi vedere. Appena te lo dico devi toglierti gli occhiali e guardare davanti a te. Se senti fastidio agli occhi sii pronta a rimetterli.»

Alzai la mano destra con il pollice e l’indice a formare un cerchio in segno di assenso.

Eravamo prossimi a doppiare la muraglia del cantiere delle grandi navi.

Daniele mi disse forte:

«Ora!»

Ubbidii.

Ebbi un sussulto.

La barca era diretta verso una colata di oro fuso che stava per inghiottire ogni cosa. Qualcuno aveva sparso del prezioso metallo tutto lo specchio di mare antistante la città.

Ma, più la barca procedeva e più quell’enorme quantità di ricchezza rilucente, come non si potrebbe neppure immaginare, sembrava allontanarsi, fuggire dall’inseguimento.

Improvvisamente, il timoniere virò di 90° a sinistra verso l’imboccatura del porto.

La colata di oro si spostò sulla nostra destra e ci accompagnava con la sua straordinaria lucentezza, verso la nostra dimora.

Il timoniere virò ancora di altri 90° e la colata d’oro sparì all’improvviso, così come era apparsa. Qualcuno aveva rubato quella immane ricchezza.

«È solo il sole che si volge a nascondersi dietro il Forte Montagnolo!» disse Daniele.

E io mi risvegliai da un sogno fantastico.

SOGNO DI UN POMERIGGIO DI MEZZA ESTATE è un racconto di Guido Fariello

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