FILI di Leandro Rinaldi
genere: FANTAPOLITICA
CAPITOLO I
La città dormiva ancora sotto la coltre di nuvole basse, la cupola dell’Università Vecchia illuminata da un timido raggio sfuggito alla foschia. Era l’ora della prima corsa dei tram, mezzi vuoti tra le strade assopite nella nebbia fredda di fine agosto. La neve era arrivata tardi e in abbondanza, se ne scorgevano ancora le chiazze negli angoli bui del centro, sotto l’ombra dei platani rattrappiti che costeggiavano il Grande Viale.
Dubrynsk dormiva in una coperta di vapore, mentre Andrej Rushov fissava il fumo alzarsi a lente volute dalla tazza del caffè appena versato. L’espressione accigliata sotto le sopracciglia sottili guardava il filo sottile spandersi per l’aria immobile della cucina, un vecchio amico passato per un saluto veloce.
Si portò la tazza alla bocca con movimenti studiati, attento a non macchiarsi il mento appena rasato o a non sporcare la camicia fresca.
‘Me ne restano solo due’ pensò ‘devo davvero decidermi a far lavare le altre’.
Tre giorni senza Vera ed ecco come si era ridotto, a centellinare le camicie azzurre e a bere caffè con la luce spenta.
“Se non altro” ripose la tazza nel lavello “è più buono di quello che fa lei”.
Una delle poche cose, in effetti, che senza Vera avesse un sapore migliore.
La colazione era terminata, tempo di andare. Raccolse di fretta la valigetta, posata in un angolo del salotto la sera prima, i documenti del catasto impilati in risme precise contrassegnate da un biglietto, divise per progetto e priorità.
Le scarpe non avevano ancora perso lucentezza, e del resto era troppo tardi per la spazzola; perciò, Andrej le infilò di corsa e rifilò una grattatina sul muso di Mir, stesa su un fianco accanto al tappeto.
Scese la rampa di scale che lo portò al portone e, un secondo dopo, nella fredda alba di Dubrynsk.
“Forse il momento migliore della giornata”, si disse passando accanto un gruppo di operai che staccavano dal turno di notte e lasciavano la cartiera in fondo alla strada.
Quando la capitale dormiva, sembrava una vecchia signora, un po’ in là con gli anni ma ancora capace di un certo fascino: nel giro di un’ora, il suo corpo si sarebbe riempito di pedoni indaffarati e tram e automobili e sulla Pelja sarebbero risuonate le sirene delle chiatte dirette al mare con il carico di prodotti e speranze del mattino.
L’uomo risalì i viali sempre più larghi, fino al ponte Gustav III, slanciato sopra il fiume con il suo arco perfetto.
Oltre, il cuore della città e di una Nazione intera.
Come tutte le mattine senza pioggia, Andrej mise a fuoco la torre della Stazione Centrale, appena aldilà del Grande Viale. La forma che svettava sulle altre, senza però nasconderle, gli ricordava la prima volta che l’aveva vista, scolpita sul tavolo della sua vecchia casa, in un diorama quaranta per quaranta, nel tentativo di immaginarsi come sarebbe apparsa se fosse stata davvero costruita. Austera ed elegante già all’epoca, un decennio dopo manteneva quell’aspetto solenne anche in scala reale, le guglie e i tetti che aveva disegnato e riprovato decine di volte, per trovare un equilibrio solido eppure slanciato.
L’Ufficio Opere Nazionali era solo a qualche traversa di distanza; perciò, Andrej si concesse il lusso di attardarsi: per un momento, i rumori, lo sferragliare e il vociare si chiusero come onde su un naufrago, mentre da qualche parte sopra di lui qualcuno friggeva delle salsicce e il loro odore invadeva la via, sovrastando quello del gasolio.
La mano dell’uomo sfiorò la superfice gelida di un lampione, per chiudersi su quella ruvida di un volantino malconcio affisso sul palo. La carta ingiallita denunciava la notte passata esposta alle intemperie, ma l’inchiostro nero aveva retto all’umidità di fine inverno, mostrando con tutto l’orgoglio possibile le parole “Il potere a chi fa!” stampate in grassetto.
Andrej controllò il logo a fondo pagina, per capire chi avesse prodotto il volantino. Nuovo Fronte, così si chiamava il partito? Anche se quella non era la parola giusta, visto che nessun gruppo di quella galassia ultra-progressista aveva mai avuto un rappresentante tra i nove Ministri, nonostante opuscoli e fogli avessero invaso le panchine e le strade di Dubrynsk per mesi prima delle elezioni.
“Gli idioti non mollano”, rifletté mentre stracciava la pagina. Alcuni partiti estremisti erano addirittura arrivati a chiedere che il Consiglio fosse votato da tutti, nientemeno, in nome di una presunta rappresentanza dei lavoratori, parole loro.
I frammenti del foglio finirono in un cestino all’ingresso dell’Ufficio Opere Nazionali, poi Andrej salì al secondo piano, attraverso l’ufficio comune ancora deserto e fino al proprio: il lieve profumo di fiori che arrivava da davanti alla porta suggeriva che ci sarebbe stata Olga ad aspettarlo, e così era.
Andrej le rivolse un buongiorno, si chiuse nell’ufficio e dietro la porta di legno massiccio cominciò ad esaminare i documenti della valigetta, mentre la segretaria batteva rumorosamente a macchina nell’anticamera.
Strano a dirsi, il lavoro aveva subito una decisa accelerazione negli ultimi giorni. Nonostante i rallentamenti causati dal passaggio della parata reale, i rilievi per la Biblioteca Universitaria procedevano spediti. Ancora qualche mese, e gli scavi sarebbero potuti iniziare, nella zona nord della capitale.
Andrej guardò senza nemmeno vedere gli schizzi e poi i disegni, tavole di carta liscia con vedute prospettiche e alzate e piantine. Una volta ci sarebbe stata la sua firma, lì, e non in calce a qualche documento che autorizzava questo rilievo o accertava quest’altro studio di stabilità.
Dopo essere entrato all’UON, ormai dieci anni prima, la sua matita da architetto era rimasta a prendere polvere. Non solo una metafora, perché da allora i suoi progetti originali non raggiungevano la manciata. Il governo aveva altri piani, per l’Ingegnere Capo, e se la monarchia aveva voluto così… poteva ancora ricordare lo sguardo di sua madre al momento dell’annuncio: il suo unico figlio era riuscito ad appoggiare il proprio didietro in una poltrona tanto prestigiosa. Era stata così orgogliosa, prima che un ictus se la portasse via come un ramoscello al vento.
Ora le responsabilità erano altre, i tempi pure, così l’Ingegnere scelse un foglio dalla prima pila e cominciò ad esaminarlo, nello sforzo di terminare la revisione del progetto così da iniziare i lavori al ritorno del Re dalla visita all’estero.
Le quasi due ore di concentrazione totale vennero interrotte da un discreto bussare alla porta.
Andrej si accigliò, non per la prima volta quel giorno, fece il giro del tavolo e girò la maniglia, per trovarsi davanti la fronte stempiata di Janis. Per una frazione di secondo, valutò l’ipotesi di richiudere la porta e tornare al lavoro, ma il danno era fatto. Si limitò a scoccare un’occhiata a Olga, per la quale evidentemente le parole troppo impegnato, nessun disturbo non avevano lo stesso significato che lui gli attribuiva.
Represse un sospiro e fece entrare il collega, badando di sedersi alla scrivania con tutta la lentezza del mondo, mentre l’altro si prendeva la sedia senza che gli fosse stata offerta. L’ometto fissò Andrej, in evidente attesa che questi gli chiedesse qualcosa, ma che fosse dannato se avesse iniziato lui la conversazione. Il silenzio crebbe di secondo in secondo, poi Janis fece un verso a metà tra un riso e un colpo di tosse.
“Allora, Ingegnere, a che punto siamo con la Biblioteca?”
‘Tu sei uno degli addetti alla progettazione e non c’è bisogno che bisbigli’ pensò Andrej, sfoderando un sorriso.
“Siamo in linea con i tempi, Jan, come sempre, ma lo saprai di certo, così come saprai che al momento sono un poco impegnato…” e lasciò vagare la mano per la stanza.
“Certo, certo, è che proprio non riuscivo a togliermi dalla testa un dubbio.” fece l’altro.
“Riguardo al progetto? Sei libero di parlare, forza.”
“No no, è tutto chiaro. Dimmi, i rilievi sono corretti, vero?” si passò una mano sui capelli sempre più radi “non vorrei, sai, che si finisse come con la palazzina 23”.
Gli sforzi di Andrej per mantenere la calma crebbero di due ordini di grandezza, il mento sporto ancora più in avanti.
“Progettista Janis, il progetto è corretto e quello è stato un semplice errore tecnico” riuscì a sibilare, il cervello già alle prese con la rabbia “lo ha stabilito una commissione, Lei c’era”.
“C’ero, come Lei” la voce era pericolosamente untuosa “ma della sua presenza non ha parlato nessuno, nessuna rivista o giornale. Del resto, un crollo accidentale è pur sempre… un incidente, vero?”
“Precisamente, dunque se volesse lasciarmi a questi…” cenno verso i documenti.
“Non è strano? Una commissione decide qualcosa, e subito quella è Verità. Senza documenti, senza prove, si arriva a un verdetto e tutti sono molto più felici, specie se quel verdetto non ha colpevoli. Le carte parlano, ma chi le ascolta più?”
‘Nessuno, dal momento che sono sepolte in qualche archivio quattro piani più in basso, fascicoli vidimati con la mia firma e il resto’, pensò Andrej.
“Nessuno, sono documenti riservati, lei capisce.”
“Capisco” e il sorriso si allargò “ma restano una lettura interessante. Istruttiva, in un certo modo. Specie se portano la firma dell’Ingegnere Capo, il quale dichiara di sapere quali materiali sono stati usati, quali rilievi fatti e altre notizie”.
“Che cazzo vuoi, Janis?” esplose, il sibilo ridotto a uno sputazzo fuori dalla bocca contratta.
“Tutto quello che ti hanno pagato, Ingegnere, i marchi freschi che hanno comprato quei rilievi finti e il tuo silenzio!” ora non rideva più, proteso sulla sedia, le mani grandi strette sui poggioli. “Lo sai tu e lo so io, ma se lo sapessero tutti gli altri? Voglio dire, la gente ci abitava, nella palazzina 23, non sarebbero contenti di sapere perché è successo l’incidente”.
“Come se te ne fregasse qualcosa di loro! È la procedura” replicò, citando senza volerlo l’anonimo funzionario, quando quello gli aveva consegnato una discreta busta che non sembrava proprio dovesse contenere cinquemila marchi.
“A me non frega nulla, ma sospetto che a qualche giornale di Fronte Nuovo interessi eccome. Immaginati gli opuscoli che ne farebbero: l’ingegnere corrotto che fa crollare le case del popolo! e stronzate del genere. È una storia troppo grossa, persino per uno come te.”
Andrej aveva la bocca secca, la testa invasa da un turbine di una sensazione che non provava da anni: paura.
“Tu ti metteresti contro l’intero Ufficio, o peggio la monarchia, per qualche soldo? Andiamo Janis, se ne fregherebbero delle denunce e tu faresti la figura del coglione” “quale sei”, ma si trattenne appena in tempo dal dirlo.
“Siamo già agli insulti, molto bene” fece un patetico tentativo di sembrare contrariato “sempre meglio di quanto dicono di te qui in giro, in ogni caso”.
Andrej archiviò l’allusione alle chiacchiere d’ufficio:
“Parole, solo aria: è l’unica cosa che puoi offrire.”
“Non hai capito, non c’è nessun bluff. Una copia di quei documenti nelle mani giuste e tutta la città parlerà di te” e lasciò andare la testa all’indietro sulla sedia.
“Stronzate, e lo sai. L’unica prova che hai riguarda la tua stupidità, e ne produci in abbondanza.” Sperava fosse una chiusura tagliente, ma il collega si limitò ad alzarsi, sornione.
“Sette giorni, Andre. Sette giorni e il tuo nome sarà su ogni pezzo di carta di Dubrynsk, sulla bocca di ogni maledetto riottoso. A meno che, una certa busta…” Janis si lisciò la camicia, appoggiò una mano troppo grossa sul pomolo e prese per corridoio. Andrej non si era ancora mosso, incapace di aver lasciato l’ultima parola, i pensieri che gli rimbalzavano frenetici in testa come una mosca contro un vetro.
‘Non può essere serio. Mi è stato detto, garantito’, si corresse mentalmente, ‘che quei documenti non sarebbero stati disponibili, area speciale dell’archivio, impossibile da trovare etc etc.”.
Se lo ricordava bene, il discorsetto. Bisognava dimostrare un po’ di lealtà, no? Specie in quei tempi. La mazzetta era stata solo un incentivo, la fedeltà dell’Ingegnere era fuori discussione, lo aveva ripetuto più di una volta. Un incentivo gradito, in ogni caso. Anche Vera era stata contenta, quando lui l’aveva presa e portata fuori a cena in un locale molto grazioso appena lontano dalla Pelja.
Al diavolo, chiunque doveva chiudere un occhio. Al Ministero del Lavoro sembrava non ne avessero proprio più, diceva sempre Nikita. Al pensiero dell’amico, Andrej riuscì a sorridere, movimento che venne interrotto bruscamente quando si chiese se dovesse parlargli della faccenda, la sera stessa al Club.
‘Non ne vale la pena’ decise, ‘Janis vedrà che non cedo, capirà di avere l’UON contro e che cinquemila marchi non valgono una visita in piena notte da un paio di agenti impossibili da riconoscere ma bravissimi con manganello e domande. Prima o poi, tutte le bolle esplodono. Lo ripeteva spesso: distrattamente si chiese cosa sarebbe successo se fosse esplosa la sua’.
CAPITOLO II
I lampioni erano già accesi quando Andrej salutò Olga e si diresse lungo la strada di casa. I passanti mandavano ancora nuvolette dalla bocca: durante il percorso, con la valigetta a fianco, si ritrovò ancora una volta a desiderare di poter arrivare a casa, accarezzare Mir, sedersi al tavolo e parlare a Vera di Janis e i soldi e tutto il resto. Sapeva benissimo che lei lo avrebbe ascoltato e poi lo avrebbe abbracciato lì, in cucina. Gli avrebbe sussurrato che la sua lealtà sarebbe stata ricompensato e che lui aveva fatto “tutto quello che era stato chiesto” e anche di più.
“Sceglieranno te, non preoccuparti. Sei troppo importante, per loro” avrebbe concluso con un sorriso.
Le saracinesche sferragliavano accanto ad Andrej mentre, passato il ponte, si inoltrava per le vie a mano a mano più periferiche, ed era ancora concentrato sulle parole immaginarie di Vera quando un rumore da destra lo riportò alla strada.
Dall’altra parte della via, un capannello di omini vestiti in blu si agitava davanti al cancello di una fabbrica, urlando e gesticolando a un altro gruppetto in nero: tra le luci fioche di un paio di lampioni si potevano distinguere i gradi colorati della Polizia. Gli altri erano evidentemente operai, e a giudicare dai cartelli che esponevano il loro sciopero era in pieno svolgimento.
Andrej affrettò il passo mentre i poliziotti avanzavano, i fucili in mano ma ancora puntati a terra. Si augurò per il pugno di manifestanti che questi avessero ancora un po’ di buon senso o leggessero i giornali: all’ultimo grande sciopero della manifattura tessile appena fuori Dubrynsk, la polizia era stata costretta a sparare agli operai in sciopero, ma non era stato detto il numero dei morti. Nuovo Fronte e Zarya, comunque, gli avevano dedicato volantini per giorni.
Mir lo accolse sulla soglia, scodinzolando nella sua maniera buffa, la coda bianca che si dimenava.
Andrej pensò innanzitutto a lei, poi preparò una rapida cena per sé. La prima cosa che avrebbe chiesto a Vera, una volta che lei fosse tornata, non sarebbe stato come fosse andata la sua supplenza, ma di preparargli un arrosto, magari anche le patate.
Sorrise al pensiero e scese le scale per controllare la cassetta della posta.
Nessuna lettera, ma non ne era sorpreso.
Sua moglie lo aveva avvertito: avrebbe avuto da fare a scuola, difficilmente gli avrebbe scritto, per quanto lui lo volesse.
“Sarò a meno di un giorno di treno, amore, e ci sarà Mir con te” gli aveva detto mentre, insieme, camminavano verso la Stazione.
Lui aveva abbozzato un sorriso, cercando di imprimersi il suo viso in testa, il modo in cui i suoi occhi fremevano quando parlava, le dita che seguivano le parole come quando spiegava qualcosa ai suoi alunni.
Così era stato, lui era rimasto con il cane e il suo lavoro: almeno c’era Nikita, si consolò sulla strada verso il Club.
Le luci erano già accese, nonostante fosse ancora presto. L’amico lo stava aspettando al solito tavolo, immerso nelle pagine dei giornali, studiandole come un generale che studia i piani per una battaglia campale.
Andrej prese posto, senza che Nikita interrompesse la lettura. Lo conosceva bene, dunque non se la prese. Il giornalista odiava la fretta e se qualche articolo attirava la sua attenzione, nulla gli avrebbe fatto staccare lo sguardo prima della firma di fondo.
Attese dunque paziente che l’amico finisse di leggere, poi che il cameriere deponesse sopra i fogli un vassoio con i due soliti bicchierini di brandy, infine si rilassò sulla sedia, slacciandosi la giacca.
Notò l’altro che aveva cambiato taglio di capelli. Ora li portava più corti, una cascata che scendeva appena prima delle spalle, interrompendosi brusca. La camicia a quadri era sempre la stessa, indossata con la medesima cura con cui si porterebbe un lenzuolo rattoppato.
“Un goccio stasera è proprio necessario!” e lasciò che il liquore annullasse qualunque altro sapore.
“Qualche ora senza Vera e sei già ridotto così?” lo rimbeccò l’altro.
“Oh, falla finita, Nik. Come vedi, sono ancora tutto intero.”
“Certo, ma aspettiamo quando lei sarà tornata da… da?”
Andrej gli ripeté il nome della cittadina sulla costa, poi la conversazione virò sulla stretta attualità.
“Lo sai, oggi abbiamo avuto ben quattro scioperi, in parti diverse della città, e uno in periferia” fece il giornalista “tutti coordinati, a quanto pare. La Polizia ci è dovuta andare più pesante del solito, è impossibile fargli tenere i manganelli in tasca ormai” e scosse la testa.
Andrej lo aveva letto, tuttavia il lavoro di Nik consisteva nel ripetere ciò che gli altri già sapevano, la maggior parte delle volte. La Voce di Dubrynsk, il quotidiano per cui lavorava, aveva una tiratura molto locale e in più era finanziato direttamente dal Segretariato alla Stampa.
“Il clima non è salubre” ammise “perché qualcuno gioca a fare il rivoltoso”.
“L’ho visto e non lo definirei giocare, te lo posso assicurare.”
“Andare in giro ad affiggere manifesti e tentare di dare fuoco a qualche catena di montaggio? Andiamo Nikita, il Re se la starà facendo sotto, anche a seicento chilometri da qui. Una parolina e la Polizia avrebbe materiale da interrogare per i prossimi decenni” concluse soddisfatto.
L’altro lo fissò un secondo, quasi perplesso. Le sopracciglia nere si contrassero, la bocca pallida fece uno schiocco prima di prendere un altro sorso.
“E se quell’orecchio dovesse diventare sordo? Voglio dire, i piedipiatti non amano pensare, preferiscono qualcuno che lo faccia al posto loro: quelli eseguono, senza tante storie. Tremendamente efficaci, ma le idee lasciano a desiderare.”
Andrej crollò il capo:
“E tu pensi che non ascolterebbero più il Re? Sei pazzo.”
“Lunga vita al Re, ma a volte basta poco, soprattutto se hai l’appoggio delle persone. Sono loro il regno, non te lo scordare.”
L’Ingegnere tacque un momento. Dalle scorse elezioni, il sostegno per la Monarchia era ai minimi storici. Non che ce ne fosse bisogno, sia chiaro, ma una parte sempre grande della popolazione aveva iniziato ad avanzare recriminazioni. Non si trattava più di qualche sbandato di Zarya o del Fronte per la Giustizia: diamine, anche un paio di tizi in ufficio avevano insinuato che, forse, operai e contadini lavoravano troppo ed erano rappresentati poco e pagati ancor meno. Dirlo intorno al tavolo del club era un conto, ma un’osservazione del genere, negli uffici dell’UON…
“Allora è una fortuna che ci sia l’Esercito” commentò Andrej di rimando.
Il suo tentativo di stuzzicare Nikita cadde nel vuoto. Anzi, quello si appoggiò al tavolo, i capelli che mandavano un intenso odore di sigaretta economica.
“L’esercito e la sua proverbiale lealtà, sì. Su di loro si può sempre contare, ma tu scommetteresti che sarebbero disposti a sparare sui loro concittadini, sui loro amici, sui loro figli?”
“Cazzo Nikita, potresti davvero scrivere qualche foglietto per Fronte Nuovo, faresti una fortuna!”
“Non sarò io a sputare nella mano di chi mi dà da mangiare, e la mia penna finora ha ballato quella musica. Ma ti dico una cosa. Lo vedo, la gente è stanca. La lealtà è merce rara, alcuni dicono” un sorrisetto si aprì sulla faccia tonda “questo sistema fa comodo anche a me, ma non scordarti che siete una minoranza, non la base della Nazione”.
Alzò una mano per prevenire l’obiezione in arrivo e vuotò il bicchiere.
“Se non durano i matrimoni, ti aspetti che lo facciano i regni?”
Era ormai mezzanotte quando Andrej imboccò la porta del Club. Nemmeno un secondo bicchierino era riuscito a placarne il nervosismo. Camminava più velocemente del solito, già proteso col pensiero verso casa. Le parole di Nikita gli tornavano in mente, onde che si infrangevano di continuo sullo stesso scoglio. Avevano continuato a discutere per un po’, ma l’amico aveva deciso di tenere per sé qualunque altra informazione. Non l’aveva mai visto così distante ed enigmatico: per quanto di solito gli piacesse mostrarsi oscuro, la spiegazione arrivava sempre. Poteva anche sforzarsi di capire il discorso sulla rappresentanza. Con quei pochi marchi che gli passava il giornale, Nik non arrivava di certo alla soglia per poter votare, eppure quella era la prima volta che ne parlava con una punta di acredine nella voce. E non si era nemmeno ricordato dove fosse in trasferta Vera, nonostante la memoria sviluppata in anni di notizie e reportage.
‘Incredibile che riesca ancora a sorprendermi’ pensò: un momento che avrebbe potuto ricordare, in seguito, come il primo in cui le certezze avevano cominciato a sparire.
L’umore dell’ingegnere ebbe un miglioramento, il giorno seguente.
Per prima cosa, pareva che il sole avesse avuto voglia di visitare Dubrynsk, che ora se ne stava esposta alla luce, ad asciugare i cortili dei caseggiati in periferia. La notizia migliore, però, giunse inaspettata dall’ufficio. Nello spazio comune dell’UOP, tra le varie scrivanie, mancava la famigliare visione di una pelata intenta al lavoro.
‘Meraviglioso’ pensò, ‘magari Janis ha ricevuto una visitina nella notte’.
Sarebbe stato chiedere troppo, perciò aprì il fascicolo della Biblioteca e vi ci si tuffò con l’abituale perizia: checché ne dicesse Nikita, con il governo il lavoro non andava sprecato. In effetti, si accorse, quella mattina lo aveva assorbito talmente tanto da essersi scordato di controllare la cassetta della posta. Decise di fare un salto in pausa pranzo, dare un occhio e tornare dietro la scrivania con il solito panino, già pronto e avvolto in un tovagliolo nella valigetta.
Il traffico di mezzogiorno lo travolse fuori dalla porta dell’UOP, perciò si sbrigò, scansando i pedoni usciti per le compere, approfittando di una mattina di sole.
Giunse in vista del palazzo, trasse le chiavi di tasca e aprì la cassetta. Il cuore ebbe un salto: dentro c’era una busta, bianca e nuova. La tolse, rigirandola sotto la luce.
Strano a dirsi, mancavano indirizzi o francobolli di sorta. Si chiese distrattamente come avesse fatto sua moglie a fargli arrivare una lettera in quel modo, mentre sfilava il singolo foglio ripiegato e lo spiegava dritto davanti a sé. Fece scorrere lo sguardo, aspettandosi qualche riga nell’elegante corsivo di Vera. Il foglio mostrava invece la copia mal ciclostilata di un documento ufficiale. Dovette trattenere un’imprecazione, poi un brivido mentre leggeva le prime parole: “Cane, ce l’ha davvero!”.
CONVALIDA DEI RILIEVI PER IL PROGETTO C.D. PALAZZINA 32, recitava l’intestazione in maiuscolo.
In qualche modo, Janis aveva messo le mani sui progetti per l’edificio. Frenetico, girò il foglio, che quasi gli cadde di mano. È solo un assaggio: sai cosa fare, o tra sei giorni lo vedranno tutti diceva il messaggio in lapis sul retro.
Le dita gli tremavano, piccoli spasmi che non si placarono nemmeno ficcandole in tasca. Il primo pensiero fu di affrontare Janis, il secondo di scappare: un espresso per andare da Vera, portarla con una scusa al mare e da lì andarsene.
Il terzo, più sensato, fu di ripristinare qualche vecchio contatto agli Interni. Che diamine, era pur sempre l’Ingegnere Capo, non un impiegato postale in un paesino di campagna!
‘Sanno per certo che alcune procedure prevedono delle buste, soprattutto nell’edilizia. Si potrebbe far uscire la notizia in forma anonima, su qualche quotidiano locale pagato da loro… lo scandalo scoppia, mi fanno qualche domanda di rito e la chiudiamo qua, magari con una multa: un episodio sgradevole, ma necessario.’
Dovette camminare con le mani sepolte nella giacca.
Di ritorno in ufficio si fermò sul ponte, austero come sempre, il suo arco una sorta di sorriso al rovescio che quasi lo sbeffeggiava.
‘Se entro lì dentro, non so come ne esco’ e intanto fissava, appoggiato al parapetto gelido in ferro, la sagoma del Ministero dell’Interno, annidato un’ansa più in là, a sud. Lo avevano definito il suo capolavoro, e lui concordava: grandi facciate incombenti, un robusto corpo centrale e le ali che si aprivano a ospitare uffici e archivi, fino a parecchi piani sotto il livello della strada.
Conservava ancora gli articoli di giornale sull’inaugurazione. Forse al pari del vecchissimo Palazzo Reale, era quello il cuore della Nazione: non c’era da meravigliarsi che il progetto gli avesse aperto le porte dell’UON e di un decennio dietro la scrivania a controllare carte. Quale onore.
“Va tutto bene, signor Rushov?” gli chiese Olga appena prima che potesse entrare in ufficio indisturbato. Doveva davvero avere un’aria stravolta, se pure l’algida segretaria si interessava del suo stato di salute.
“Certamente Olga, grazie” e si precipitò dentro. Le ore successive trascorsero in un’agonia che rasentava la nevrosi, con una lieve nausea che non gli fece nemmeno toccare il panino in valigia. Soppesava, valutava, scriveva elenchi di possibili soluzioni senza trovarne mezza, e fu quasi un sollievo quando giunse l’ora di andarsene. Il vento umido che lo aspettava all’esterno gli diede abbastanza lucidità da decidere di arrivare a casa e portare fuori Mir: una passeggiata lo aveva aiutato tante volte, non c’era motivo perché non lo facesse anche questa.
‘Quello, una scodella di zuppa e il romanzo che ho lasciato indietro, e poi domani vado all’Interno e racconto la storia.’
Si sentiva già più leggero, camminando per le vie insolitamente vuote, ma aveva la testa talmente affollata da non accorgersi di quanto poco lo fosse la città intorno a lui. Pochissime auto in strada, nessun tram che rumoreggiava o gruppo di impiegati che usciva dal lavoro. Mir lo accolse all’ingresso: Andrej depositò la valigetta e tolse il guinzaglio dall’attaccapanni. Il cane si fiondò giù per le scale, nonostante l’età le zampe divorarono le rampe e in lampo furono fuori, nella sera buia in cui l’uomo poteva udire il respiro dell’animale a due passi di distanza, tanto quieta era la città. Fin troppo in effetti, tanto che Andrej iniziò a chiedersi se ci fosse una specie di evento sportivo in programma, per la sera.
Giunto all’angolo, però, senti gli spari.
All’inizio erano lontani, quasi un rumore di sottofondo che ignorò. Due passi dopo, però, un camion svoltò a tutta velocità dalla strada di fronte. Alla guida un uomo, a fianco a lui un altro, con un fucile in mano. Lo sporse dal finestrino e lasciò partire una raffica verso l’alto che si perse nel cielo.
Dalla stessa strada sbucò un manipolo di uomini, poi un altro. Almeno quaranta persone, tutte armate e tutte con divise scarlatte che Andrej non riconobbe. Quelli lo ignorarono, svoltarono l’angolo dietro al furgone e fu solo l’ultimo che urlò agli altri:
“Alla radio!”
Mir si accucciò, spaventata da tutto quel baccano, e Andrej cercò di strattonarla, la corda ruvida che gli stringeva le mani.
Non sembrava uno sciopero, e nemmeno una maledetta rivolta di operai. Riuscì a schiodare il cane dall’angolo e si precipitò verso casa: fece appena in tempo a svoltare l’angolo, prima di vedere un cingolato risalire la strada. Una visione talmente assurda, lì nel cuore di Dubrynsk, che per un attimo Andrej rimase fermo, con le chiavi in mano davanti alla toppa, poi si fiondò in casa.
Il veicolo avanzava noncurante mettendo in fuga i piccioni e ora gli spari erano ovunque: poi si udì un boato, verso il centro, e una luce rossastra si alzò da qualche edificio.
All’angolo dove prima si era fermato attonito, un manipolo di poliziotti corsero verso di lui, poi videro il carrarmato e iniziarono a sparpagliarsi per le strade, mentre gruppetti di divise rosse uscivano dalle strade laterali. Li vide alzare i fucili, coordinati, e sparare sugli altri, che nemmeno ebbero il tempo di abbozzare una risposta prima che le raffiche precise li buttassero a terra.
Andrej guardò Mir, rintanata sotto il tavolo del salotto, e per la prima volta si chiese davvero cosa succede quando la bolla che esplode è la tua.
CONTINUA
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