GIÙ DAL PIEDISTALLO – UN GIRO IN TRISCIÒ A KANDY di Silvano Taormina

Un flusso baldanzoso di veicoli scorre davanti ai miei occhi, cadenzato nelle movenze, con le sue regole non scritte, all’apparenza inarrestabile.

Ne osservo la plenitudine di sfumature, l’eterogeneità dei mezzi di trasporto sgomitanti tra loro su quel nastro di asfalto sconquassato. Poi osservo me stesso, puntando lo sguardo verso i piedi e facendolo risalire lentamente al petto.

Con rammarico, non riesco ad inquadrarmi nella mia totalità ma, ciò che constato, parla chiaro e mi fa rabbrividire. Un bel paio di scarpe ergonomiche acquistate pochi giorni prima la partenza, bermuda comodi con un piccolo logo timidamente in primo piano, una camicia a quadri traspirante perché a queste latitudini fa caldo.

Fortunatamente, il mio sguardo non afferra lo smartphone, la macchina fotografica o il portafogli con le carte di credito ben camuffati nello zaino.

Osservo la gente del luogo sgattaiolante in tutte le direzioni: davanti, dietro, ai lati.

Alcuni, nella loro fretta di convenzione ma non necessaria, mi urtano inavvertitamente. Avverto gli effluvi della loro pelle, tra i pochi che non la coprono con sari e vesti variopinte, diversa dalla mia non solo nella tonalità ma anche nelle note olfattive emanate.

Infine, osservo dei turisti, probabilmente europei o americani, come alla fine lo sono anche io. Non mi lascio infastidire dal rude urlo innaturale delle loro vocali slabbrate. Attendono dinanzi a pochi passi, in piedi su quel marciapiede.

Il mio primo giorno a Kandy sta per iniziare.

Attendo da tempo il mio viaggio in Sri Lanka.

Ho sempre considerato questo paese come un antipasto dell’India, un piccolo bocconcino più alla mano per afferrarne i sapori e smuovere l’appetito prima di imbattermi in avventure più impegnative ed esigenti.

Piuttosto che le assolate spiagge di Mirissa e Unawatuna o le foreste nella zona settentrionale dell’isola, ho optato per la impertinente Kandy. Questa cittadina armonicamente caotica, perfettamente equidistante dalle principali località turistiche, la considero il punto di partenza ideale.

Porto con me un bagaglio leggero e tanti luoghi comuni, costrutti mentali dai contorni ben definiti. Forse anche dei pregiudizi infondati. Qualche documentario di troppo adocchiato su internet ha avuto un effetto fuorviante.

Un desiderio mi pervade: voglio fare un giro su un trisciò. Una sorta di carrozzina a tre ruote, sospinta a pedali da un conducente che siede su un seggiolino davanti a quello doppio in cui si accomodano i passeggeri.

Quell’immagine mi allieta.

Esotismo allo stato puro. Il cartellino da timbrare per marcare la presenza e puntellare ulteriormente la mappa dei miei viaggi. Uno scatto da taggare e condividere con gli amici. Ne avrebbe giovato la mia accettabilità sociale.

Con poche rupie posso soddisfare quel capriccio. In pochi secondi mi rendo conto che anche il gruppetto di turisti occidentali stanzia su quel marciapiede con il medesimo proposito. Al passaggio di ogni velocipede si sbracciano urlanti per attirarne l’attenzione e saltare a bordo.

Finalmente uno si para davanti ai miei occhi:

«Good morning Sir», pronunciato con il furtivo accento del subcontinente, è l’inevitabile saluto tributato dal giovane conducente.

Lo compenso con un: «Hello my friend».

Il suo sorriso spontaneo va oltre la circostanza.

Noto subito le mani callose, indurite dal perenne sforzo che la presa sul manubrio impone, e i polpacci tonificati dalle pedalate quotidiane.

«Destination?» continua.

Mi sento costernato, non riesco a fornire una risposta.

«Voglio solo fare un giro» accenno dubbioso.

Non passano due secondi:

«1500 rupie» è la sua offerta battendo idealmente la mano su un banco invisibile.

“Poco più di sei euro, ci sta” rifletto tra me e me pur temendo un’innocente truffa in corso. «Affare fatto.»

La mia riflessione continua silenziosa:

“Per me, pochi euro non fanno la differenza, a lui potrebbero cambiare la giornata.”

Sei euro a me, sei al prossimo passeggero, altrettanti agli altri tre che intercetterà di pomeriggio. Può portare a casa una cifretta non indifferente da queste parti.

Ben presto scopro che il suo nome è Awash.

Non me ne rendo conto ma, inconsciamente, sto commettendo un errore madornale. Mi sto ponendo su un piedistallo, su un piano rialzato rispetto al suo, quasi ad ergermi superiore. Io sono il turista benestante, quello che si può permettere un viaggio dall’altra parte del globo. Lui uno dei tanti che deve sgobbare per mantenere la famiglia, sicuramente starà pagando lo scotto per non aver studiato.

I pregiudizi, i luoghi comuni, affiorano indisciplinati. Come se il mio merito risiedesse nell’essere nato e cresciuto in un paese agiato, la sua colpa nel provenire da uno decisamente più povero.

Io devo godermi il giro e fare le foto da vantare agli amici, lui deve pedalare e basta.

I ruoli sono latenti, prestabiliti.

Lentamente si materializzano dei trisciò con a bordo i turisti sguaiati. I telefonini sono già puntati e i loro commenti inopportuni e discriminatori.

«Mi auguro di non essere come loro» sogghigno esterrefatto,

Probabilmente lo sono.

Awash smonta dal suo sellino e mi fa cenno di accomodarmi.

«Accomodarmi dove?»

Al suo posto guida, ovviamente.

Forse ci siamo fraintesi. La sua richiesta di 1500 rupie è semplicemente per farmi fare un giro, non per una corsa. In pratica vuole affittarmi il suo mezzo, la sua fonte di sostentamento.

Posso avventurarmi in un breve tour per i fatti miei e poi restituirlo.

Ovviamente, non è ciò che intendo.

Cosa potevo fare in quel momento? Il solo pensiero di assomigliare ai turisti intravisti poco prima mi fa rabbrividire.

In un attimo inverto il mio punto di vista.

Sorrido, sospiro e accetto la proposta di Awash.

«Quando mai mi ricapita di guidare una di queste strane biciclette?»

La foto cool per gli amici l’avrei tirata fuori in ogni caso. Un senso di eccitazione mi pervade, colgo l’eccezionalità di quel momento. Quel punto di vista voglio ribaltarlo e scardinarlo, non semplicemente invertirlo. Non posso più tirarmi indietro.

Chiedo ad Awash di accomodarsi sul sedile posteriore.

Proprio così. Io guido, lui si gode il giro. Niente foto. Non c’è nulla da fotografare. Quell’esperienza deve essere speciale, voglio custodirla saldamente nelle mie memorie di viaggio. Ne va della mia accettabilità personale, non di quella sociale. È in gioco la mia autostima.

Awash appare divertito.

Per due volte ripete:

«What?» sguinzagliando il suo sorriso immacolato.

Ribadisco «hai capito bene, my friend».

Avverte la surrealtà di quella situazione.

«Non è possibile» bisbiglia nel tentativo di garantirsi una risposta. Quelle parole me le ripete alzando la voce. È incredulo quanto me.

«Tu sei un turista, non puoi portare a spasso un cingalese».

In cuor suo intendeva «tu sei ricco, non puoi scarrozzare un poveretto».

La stratificazione della sua società, la sua cultura, glielo impone. Non è socialmente accettabile un’eventualità del genere. Cosa poteva pensare la gente? La perplessità, nonché la fermezza, traspare dai suoi occhi.

Alla fine, anche lui ha i suoi costrutti mentali, i suoi luoghi comuni, i suoi pregiudizi. Non siamo tanto diversi, siamo incatenati allo stesso modo a schemi di pensiero diffusi. I medesimi ragionamenti, gli stessi stati d’animo ci attraversano. Poggiamo sullo stesso piano. Su quel piedistallo non ci voglio più salire. Il punto di vista che mi attanagliava fino a poco prima è completamente ribaltato. Lo Sri Lanka mi ha appena fatto un grande regalo. Mi sento arricchito, più leggero nell’animo.

Awash alla fine ha accettato. Sarà il mio passeggero e non vedo l’ora di godermi quella pedalata.

Il quadricipite si gonfia, infonde pressione sull’articolazione del ginocchio, genera una spinta dalla caviglia. Non so perché parto con la gamba destra, so per certo che l’acido lattico accumulato non mi farà dormire stanotte. Il primo affondo sul pedale, il secondo, poi il terzo, il quarto, e così via.

Stento ad impostare un ritmo ma il trisciò quanto meno si muove.

Awash trattiene una risata per non umiliarmi. Lo sforzo che mi debilita lo compie decine di volte al giorno, i suoi muscoli oramai sono calibrati.

Percorro le prime decine di metri lungo il viale del mio albergo, a poca distanza da dove sono stato raccattato.

Sento gli sguardi addosso, ognuno di essi è preceduto da un rapido strabuzzamento degli occhi. La gente guarda dritto, poi di colpo ci fissa. Io pedalo, inizio a sudare, sono indissolubilmente sotto sforzo.

Awash fatica ancora più di me. Non riesce a prendere le misure della seggiola sul retro, ad inquadrare il mondo circostante da quella nuova prospettiva. Temo che, da un momento all’altro, possa balzare giù ed interrompere quell’esperienza ristabilendo i ruoli.

Più di una persona alza la mano verso Awash per tributargli un saluto, lui ricambia sconfinando quasi nell’imbarazzo. Constato subito la sua popolarità, non passa di certo inosservato.

Io continuo a ricercare confidenza con quel mezzo. Cerco la manopola del cambio, sistemo gli specchietti, provo i freni con l’obiettivo di tarare il compromesso tra velocità e pressione per una eventuale frenata improvvisa.

Dal retro mi giunge qualche indicazione. Ne approfitto per un ulteriore richiesta:

«Awash devi farmi anche da navigatore, non so dove andare.»

Nel frattempo, provo ad anticipare le mosse di coloro con cui condivido la strada.

Altri trisciò, biciclette, scooter, moto api impazzite, auto con il clackson incantato, bus scricchiolanti. Kandy è il regno del caos. Un caos armonico. A volte c’è chi mi punta per poi svirgolare all’ultimo secondo ed evitare l’impatto.

I soliti curiosi, nonché amici di Awash, osservano la scena divertiti dalle panchine a bordo carreggiata. La scena di quel bianco impacciato li faceva sbellicare dai risolini.

Il mio passeggero mi fa cenno di imboccare una stradina a destra.

Attendere il sopraggiungere degli altri mezzi sulla corsia opposta mi terrorizza ma me la cavo egregiamente.

Poche pedalate lungo quella viuzza e scorgo un cancello.

L’insegna non lascia spazio a nessun’altra interpretazione, recita “Kandy Botanical Gardens”.

Finalmente un vialetto senza traffico, posso procedere liberamente.

Due file ordinatissime di palme slanciate e snelle mi accompagnano ai lati. La nuova visuale infonde una certa tranquillità che mi agevola nello sforzo. In batter di ciglia si materializzano aiuole dalle forme geometriche e i colori sgargianti, piccoli laghetti, arbusti sconosciuti, alberi imponenti.

Kandy mi rivela la prima sorpresa. Già mi sento in debito con Awash.

Il suo nome risuona nelle mie orecchie, inconfondibilmente è una voce femminile. Niral, sua sorella, lavora proprio ai giardini botanici e ne approfittano per un saluto fugace. Avverto la sua gioia nel presentarmela. Mi interrogo cosa possa significare, per un cingalese, introdurre un amico straniero ad un familiare. Assumere la prospettiva di Awash non è semplice, richiede uno sforzo mentale non indifferente.

L’illusione di uno spazio idilliaco e rilassante svanisce quasi subito, la tappa successiva ha tutt’altri connotati.

Costeggiamo un bacino idrico artificiale, lungo il quale rischio di investire più di una volta delle anatre, prima di giungere in uno spiazzale dove possiamo parcheggiare il trisciò.

Non posso fare a meno di notare un edificio imperante.

Un muretto dal candore quasi accecante ne cinge il perimetro, una sorta di gazebo in muratura con le tegole rosse a spiovere ne sancisce l’ingresso.

“Si prega di lasciare le scarpe negli appositi armadietti” recita un cartello adiacente il gate principale. Avverto la sacralità di quel luogo, le vibrazioni che riesce ad emanare, il rispetto che impone.

Awash anticipa la risposta alla naturale domanda che sto per porre:

«Il tempio del dente di Budda.»

Uno dei più importanti, venerati, riconoscibili di tutto lo Sri Lanka. I pellegrini giungono anche da altri paesi per potersi inchinare di fronte alla reliquia dell’Illuminato. Al suo interno il silenzio è d’obbligo, così come dover lasciare le scarpe nel guardaroba di fianco i cancelli. Si cammina scalzi, come in tutti i templi buddisti. Le decorazioni auree alle pareti impressionano e accecano, la cura dei dettagli denota la devozione nei confronti del Buddha.

Awash, bisbigliando, mi spiega brevemente il significato dei vari altarini, delle statue e di qualsiasi elemento decorativo.

Cercavo un trisciò ma ho trovato un navigatore, una guida e probabilmente un amico.

Mi abbandono a questa riflessione, mentre lui si abbandona ad un momento di raccoglimento prostrandosi di fronte ad un’immagine sacra.

Una nuova sorpresa alimenta quella sensazione appagante di scoperta continua che mi accompagna da quando ho deciso di scendere dal mio piedistallo.

L’ora di pranzo incombe.

Dal mio arrivo in città, è la prima volta che ho la possibilità di provare la cucina locale. Già pregusto infinite varietà di curries fumanti e dosa croccanti mai sperimentati prima, soffici hoppers, intrepidi babath, kool di pesce speziatissimi.

Mi ritrovo a camminare in un vicoletto che ha tutta l’aria di essere l’epicentro dello street food. I profumini provenienti dai numerosi banchetti oramai si fondono in un tutt’uno, la loro unicità svanisce. Noto pentoloni ribollenti, carni infilzate in uno spiedo, fiamme vive, cataste di stuzzichini appena fritte.

Poi, l’inconfondibile sferragliare ritmico dei kottu, una sorta di coltello utilizzato per spezzettare direttamente su una piastra incandescente vari tipi di carne che nel frattempo continuano a grigliarsi e caramellizzarsi.

Alla fine, Awash mi conduce in un ristorante islamico. Mi spiega l’importanza di questa comunità nel suo paese. Li considera suoi fratelli, certi dibattiti sulla propria origine da queste parti neanche si discutono. La civile convivenza è imprescindibile.

Ringrazio quel giovane per la nuova lezione impartitami. Lo ringrazio anche per i beef kabul e gli egg paratha che mi ha dato la possibilità di assaggiare.

Mentre sorseggiamo un caffè denso e inebriante, mi preannuncia che l’ultima tappa del nostro tour ci porterà leggermente fuori città. Ci aspetta il Bahirawakanda Vihara, un altro tempio dedicato a Budda.

A me aspetta anche una nuova sfacchinata debilitante, da affrontare a stomaco pieno. Il tempio, infatti, si trova in cima ad una collina. Raccolgo le energie, mi sento carico fisicamente e mentalmente. Alla prima salita avverto lo sforzo ma non demordo. Metro dopo metro, la scalata si fa più impegnativa. Continuo a tenere duro.

Awash si è accorto delle mie difficoltà, lo vedo in procinto di chiedermi il cambio. Il bruciore ai muscoli mi flagella. Penso a tutti i conducenti dei trisciò, a coloro che ogni giorno compiono sforzi immani per arrangiarsi e portare un pezzo di pane a casa, a tutte le persone che non hanno nessuna colpa nell’essere nate in un paese più povero.

Finalmente giungiamo al tempio.

Mi sento esausto, fiaccato, ma allo stesso tempo energizzato.

L’immagine di quell’enorme statua del Budda, marmoreo nella classica posizione del loto, nella calma profusa dal suo sguardo e dalla lattiginosa tinta bianca mi trasmette serenità d’animo.

Mi siedo anche io per terra, Awash accanto a me.

Restiamo a contemplare per un po’, senza proferire parola. Sono sicuro che quel giovane cingalese, abituato alla fatica, non avrebbe scommesso una rupia su di me. Anche lui probabilmente stava provando ad immedesimarsi. Adesso sediamo entrambi sullo stesso piedistallo.

Gli lascio l’onore della passerella sulla via del ritorno, tanto è una semplice discesa verso la città. Il sellino del conducente è di nuovo suo, il trisciò torna a divincolarsi nel traffico senza esitazione.

Awash mi lascia esattamente dove mi aveva raccolto la mattina.

Mi accingo a porgli la cifra pattuita ma mi accorgo che la banconota con il taglio più piccolo che ho in tasca equivale a circa dieci euro. Gliela consegno senza pretendere il resto. Mi afferra amichevolmente il polso respingendolo verso il mio petto:

«Va bene così my friend», stavolta è lui ad usare quell’appellativo.

Non vuole essere pagato.

La sua giornata lavorativa rischia di risultare improduttiva.

«Oggi ho vissuto una bella esperienza. Mi ha arricchito, mi ha fatto riflettere su molte cose e mi ha permesso di cambiare prospettiva. Ne farò tesoro» aggiunge.

Non me lo aspettavo proprio, in quell’istante proviamo lo stesso sbalordimento.

Insisto per fargli accettare quella banconota ma non c’è verso.

Provo a compensare con una controproposta, pur sapendo che è solo di facciata e non si avvererà mai:

«Allora quando mi vieni a trovare in Italia per un giorno sarai tu a guidare il mio mezzo.» Awash accetta divertito stringendomi la mano.

Ogni giorno in viaggio dovrebbe essere così.

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