I MANUTENTORI di Fabio Forlivesi (prima parte)

genere: FANTASCIENZA

Parte Prima

Sotto

1

Chi sono non ha importanza. Non è quel genere di storia che comincia con un nome e un cognome questa. Non può esserlo. Racconta solo ciò che sai, ha detto qualcuno. Bene, chi sono non fa parte di ciò che so, così come quasi tutto il resto della mia vita.

Oh, mi ricordo bene del mondo, come era prima. Ricordo un bambino che giocava a palla in un cortile ghiaioso, e ricordo mattinate di sole e banchi di scuola e corse in bici a perdifiato lungo strade sterrate. Ricordo lattine di birra sul cofano di un’auto e la prima sbronza e le risate con gli amici, e ricordo i volti di due persone che sono sicuro essere i miei genitori. Conservo il ricordo di un bacio e del viso di una donna che sento di amare e di un abito bianco. Niente di tutto questo ha un nome. Sono frammenti che galleggiano alla deriva in un mare scuro. Qualcosa ogni tanto emerge ma la corrente è forte, le onde la inghiottono, la portano giù sul fondale dove è sempre notte.

Qua sotto lo chiamano il ‘grande trauma’, e vale per tutti noi. Quello, più ciò che hanno sparato in atmosfera. Parlano di perdita della memoria a breve termine, e più diffusamente di perdita delle facoltà mnemoniche in generale. Un nuovo tipo di guerra, che non si è giocata solo con le testate nucleari. L’ultima.

Non troverete niente di confortante o rassicurante in questo racconto. Vorrei che fosse un altro tipo di storia, ma la dovrebbe raccontare qualcun altro.

La mia comincia dalla fine. La fine di tutto, al capezzale del genere umano. Quello che ne resta, ancora vivo ma sepolto sottoterra. Ben più di due metri.

2

Di solito è il rumore dei macchinari che mi sveglia, ancor prima della sirena.

Non mi sono ancora del tutto abituato nonostante sia ospite della struttura già da diversi mesi. Dicono che col tempo ci si fa il callo, che diventa come un basso ronzio di sottofondo, e alla fine nemmeno te ne accorgi più. Diventa parte della tua vita, tanto che ogni altro rumore, per piccolo che sia, finisce per spiccare netto come una lapide dal terreno. A ogni modo ringrazio il cielo che ci sia: quel cadenzato rombo avvolgente che permea le pareti, e le nostre giornate, ci sussurra brusco che siamo ancora vivi. Almeno per un altro giorno.

I macchinari vanno mantenuti in funzione, sempre. Questa è la prima cosa che ci viene spiegata. Forse non proprio la prima in assoluto, ma è di certo tra le prime dieci, nonché l’unica che non smetterai mai di ricordare. Per la verità c’è poco altro da sapere: rispettare i turni, far bene il proprio lavoro, non fare troppe domande e cercare di mettere da parte il passato, altrimenti non ce la fai ad andare avanti, ci diventi pazzo quaggiù e ti viene voglia di fare la fine di Tony, che si è impiccato nel locale delle docce.

Se ti aggrappi ai ricordi, a com’era la tua vita di un tempo, tutto qua si trasforma in uno schifo insopportabile e diventi pericolosamente troppo poco schizzinoso sulle vie di fuga.

Purtroppo, io pure coltivo un insano desiderio di mettere il naso fuori, praticamente dai primi tempi in cui sono qui – ma che uscire sia di fatto impossibile è tra le altre cose che ti spiegano – e, cosa peggiore, sogno spesso; ed è una cosa che non dovrebbe accadere.

Faccio strani sogni. Non mi riferisco a una landa arida bruciata da un sole malato, un’atmosfera surriscaldata al punto da dare quasi un’illusione di umidità; non mi vedo urlare mentre la mia pelle si riempie di pustole cariche di globuli bianchi morti, crepe da cui fuoriesce sangue arroventato; non ho davanti agli occhi uomini che si accartocciano su di loro, percossi da spasmi mentre si strappano carne che cede come un impasto di cenere e fango. Sarebbe plausibile, questo.

Ho detto che faccio sogni strani. Potrei quasi giurare siano immagini reali, immagini di una vita che non sembra dispersa in un passato lontano e sepolto… Sembra tutto più recente. Come se anni di guerra e testate termiche di ultima generazione non fossero che una breve, trascurabile parentesi. Che non sia possibile lo ammetto io per primo. Eppure, sono lì, vecchi ricordi scombinati, immagini falsate in qualche angolo del mio cervello che mi tormentano. Spettri, illusioni.

Non so se ho mai avuto un cane di nome Spot, non so se il volto che ogni tanto traspare dalle mie nebbie interiori è quello di una moglie o solo un fantasma, o se c’è una stanza al piano di sopra con una ragazzina che le somiglia un po’, e che ha una chitarra accanto al letto che ogni tanto si diverte a strimpellare, e un cellulare sempre in mano e una cotta per un suo compagno di classe. Non so dirvi se tutto questo ci sia mai davvero stato per me, ma di certo ora non c’è più.

È sceso l’inverno, su tutti noi, e ha cancellato ogni cosa. La vita ha un altro significato adesso, non più ‘là fuori’, ma ‘qua sotto’.

È sempre vita, però.

Dovremmo ritenerci fortunati. Fuori c’è solo la distruzione di un mondo estinto. C’è la morte, fuori. E ci sono le radiazioni. Quaggiù parlano di tempi di decadimento, ragionano in proiezione sulle generazioni future. Del tasso di sterilità. Per ora le radiazioni sono ancora troppo alte, roba che se gli dai tempo ti riducono una trave d’acciaio da dodici pollici a uno spaghetto scotto. Qua, sotto la cupola, c’è il Rifugio, e ci sono le macchine che si occupano della nostra sopravvivenza: filtrano l’aria, riciclano l’acqua, veicolano le feci in compattatori che le trasformano in concime per le serre, spingono vapore ad alta pressione nei tubi per darci un surrogato abbastanza accettabile del calore. Il complesso dei sistemi di sostentamento vitale. E noi ci occupiamo di loro. Di mantenerle in funzione, efficienti.

Il Rifugio, ci hanno spiegato, è una struttura governativa, di quelle costruite in previsione di un cataclisma, prima che scoppiasse il casino. Parecchio prima, visto com’è ridotta.

Mi rendo conto di aver sognato quando è la sirena che mi sveglia. I sogni non mi mollano tanto facilmente, a volte sembrano volermi trattenere con loro, o forse sono io ad aggrapparmici, e con una forza maggiore del rumore di fondo delle macchine. Ma non della sirena. Niente è più forte della sirena.

Quando capita faccio più fatica a scendere dalla mia brandina e il camerone dove dormiamo si è già mezzo riempito di gente che mugugna e si stiracchia nell’aria pregna di odore di polvere e olio motore. Le luci a risparmio energetico arrivano dopo e non si accendono mai tutte, ma se durante il giorno hai la sensazione di vivere in penombra, la mattina è lo stesso una bella fucilata negli occhi. Io la chiamo mattina perché probabilmente sono un pericoloso nostalgico, come direbbe qualcuno qua, un ‘passatista’, ma è convenzionalmente il ‘primo turnò. Spero mi perdonerete l’utilizzo di qualche vecchio termine e non mi considererete per questo uno che fa un giro nel locale docce con una corda anziché una saponetta.            

A ogni modo, dopo aver passato la testa un paio di volte sotto il rubinetto dell’acqua riciclata e temporizzata (otto secondi a testa, quindi, bisogna essere veloci) ci si riprende in fretta, visto che è tanto fredda da risvegliarci un cadavere, e poi non mi resta altro che accingermi a fare quello che faccio ogni mattina quando la mia squadra è di turno, ossia prendere la tuta da lavoro dall’armadietto e avviarmi al mio settore di competenza assieme al resto dei miei compagni.

Mi assicuro sempre che la targhettina appesa al petto sia pulita e leggibile. Su c’è scritto quello che diversi mesi fa hanno detto essere il mio nome.

3

“Cazzo Dex, dovresti vedere la tua faccia!”

 Il tizio che mi ha rivolto la parola è il migliore amico che mi sono fatto da quando sono qui. Lui è giù da almeno quattro anni, o forse di più, sempre che il tempo non misurato da una sirena valga ancora qualcosa. È un bestione sopra l’uno e novanta, carico di muscoli di nome Fargo, stando alla sua targhetta. Noi delle squadre di manutenzione siamo tutti abbastanza robusti, per via del lavoro manuale, ma Fargo è parecchio più grosso di molti altri. Dev’essere partito avvantaggiato. Mi chiedo che lavoro facesse prima di tutto questo. Se lo chiede anche lui.

“Devo proprio dirtelo, hai un aspetto di merda.”

“Devi proprio, eh?”

“Non è che ci siano tanti svaghi qua, non te ne fossi accorto.”

Alle volte mi chiedo che tipo di occupazione svolgessi io prima che la squadra di soccorso del Rifugio mi trovasse mezzo morto là fuori. Non ho la fibra del manovale, questo è certo. Ma scavare all’indietro è un processo doloroso, qualcosa che la mente si rifiuta di fare a suon di fitte, e riesco a ricordare con chiarezza accettabile solo particolari molto distanti nel tempo… E anche quella non è un’allegra scampagnata sul viale dei ricordi, più un percorso a ostacoli di immagini e sensazioni famigliari, e con un sacco di buche. Genitori, amici d’infanzia, una ragazza del liceo, danzano ai lati della visuale a tratti riconoscibili ma muti, volti senza nome, labbra che si muovono prive di voce. Ma che se sapessi leggere dubito direbbero il nome ‘Dexter’.

È un bel guaio – e un regolare mal di testa – che sembra accomunare tutti noi sopravvissuti… L’ultimo residuo vivente del Grande Trauma Planetario: più ci avviciniamo alla guerra, più tutto diventa fumoso e inafferrabile.

“Altra notte in bianco?”, mi chiede Fargo, restando un po’ sulla difensiva.

“Ho sognato ancora, qualcosa di impossibile.”

“Capita a tutti i primi tempi, poi passa, come una febbre.”

“Io sono qua da quasi un anno.” “Lo so, e se fossi in te non ne parlerei molto in giro di ’sta faccenda. Ai coordinatori digli che fatichi a dormire e basta. Ti danno un po’ di quelle pillole bianche.”

“Ai coordinatori non gli dico un cazzo.”

“Se stai troppo sulle tue cominceranno a dire che sei strano. Che non ti integri. Che farai la fine di Tony. Be’, per la verità hanno già cominciato…”

In effetti non sono uno che gironzola qua e là a caccia di amicizie, che fa gruppo o che cerca di farsi accettare. Non do pacche sulle spalle, non distribuisco sorrisi, non devo essere eletto. Ma non sono nemmeno tanto stupido da capire che isolarsi è il primo passo verso la pazzia. A ogni modo avere a che fare coi coordinatori con la socializzazione non c’entra nulla. “Tu che ne pensi?”

“Ho scommesso due razioni che sarai ancora dei nostri. Almeno per il prossimo mese. Poi le quote salgono troppo.”

“Già, dato un tempo abbastanza lungo ogni scommessa sulla sopravvivenza è persa.”

“Ben detto!”, esclama lui mentre stringe l’ennesima giuntura sbuffante con una chiave inglese consunta.

Appollaiati come siamo sul ponteggio metallico di fianco alla conduttura, i nostri gesti devono tenere conto anche della nostra incolumità; quindi, siamo più che cauti quando ci tocca il controllo dei tubi alti e lavoriamo appesi. Una cosa su questi macchinari: sono dannatamente enormi. La sola conduttura su cui stiamo Fargo e io ci inghiottirebbe per il lungo.

“Alcuni di loro sono a posto, non rottinculo. I coordinatori, intendo. Ci passano le rosse.”

“Non mi fido di tutte quelle pillole.”

“Alla fine, ti toccherà, dipende dai carichi di lavoro. So di tizi grandi e grossi che non ci arrivano a fine turno senza.”

“E poi da dove vengono? Hai visto per caso una farmacia qua attorno?”

“Non sono uno stupido, Dex. Mi sono fatto la stessa domanda tempo fa e mi hanno spiegato. Estraggono il principio attivo da diverse piante, lo cristallizzano in qualche modo e poi lo stampano, tipo con le stampanti da cucina che fanno quelle fantastiche bistecche di fine ciclo.”

“Di soia.”

“Certo, certo. Di mucche quelle sì che non se ne vedono qua sotto! Non so che darei per un po’ di carne vera.”

“A chi lo dici.”

“Ma più di ogni altra cosa sai che mi manca? Il football. Un paio di birre ghiacciate – birre vere non quella brodaglia schifa che passano per fermentato giù alla mensa – e un megaschermo con su una bella partita di football.”

“Per che squadra tifavi, Fargo? Una volta mi hai detto essere dell’Arizona. Eri dei Cardinals?”

“Sì, forse … non mi ricordo. Andrebbe bene una qualsiasi. E una birra, una qualsiasi.”

“Accontentarsi è il primo passo concreto verso la felicità”, dico io con un finto tono da filosofo.

“Già, dovrebbero metterlo sulla porta di questo posto.”

Qua dentro sentirete storie di ogni tipo su quello che manca alla gente. Una pietanza particolare, un programma alla TV, l’affetto del proprio cane, i nostri cari, ovviamente, le persone che abbiamo amato… In gran parte sono stupidaggini, per il resto ricordi dolorosi, tanto che verrebbe da pensare che le amnesie siano una sorta di ragionevole sedativo.

La verità è che col tempo metti da parte quasi tutto. Mangi comunque, e puoi socializzare se vuoi. Le visite al reparto femminine non sono scoraggiate, anche se i manganelli dei coordinatori lavorano più in quelle occasioni che in qualsiasi altra, visto che tipi robusti, frustrati e stanchi non sono proprio i migliori ad accettare un ‘no’. Alla fine, ti adegui a tutto. Tranne una cosa. Tutti quelli che parlano di birra o sport o simili non centrano il punto, e credo lo facciano di proposito, anche se inconsciamente. L’unica cosa che qua dentro non potrai mai avere, e che di conseguenza è l’unica vera cosa che desideri più di ogni altra, è l’esterno.

Gli spazi aperti. Far danzare l’occhio oltre una superficie di cemento. Il cielo e la luce del sole. Tutte cose che non puoi surrogare nemmeno nella più piccola misura. Quando hanno costruito questo posto hanno pensato ai riciclatori, ai laboratori, ad attrezzature di sussistenza, (pure se tutto cade a pezzi e deve essere rattoppato da una manovalanza ben motivata, a dirla tutta, dalle proprie aspettative di vita), ma non hanno pensato che la cattività frega la mente più di ogni altra cosa. Gli costava molto mettere anche solo uno schermo panoramico in sala mensa o da qualche altra parte, e metterci su qualche paesaggio digitalizzato? Ricordo che prima delle bombe ti compravi delle TV da 60 pollici per meno di mille dollari. Non dico avere il wi-fi, giusto qualche megabyte di memoria preregistrata. Invece siamo tornati alle trasmissioni radio. Si cercano altri rifugi. Statico per la maggior parte del tempo. E nessuno esce. Be’, non proprio nessuno…

Ci hanno spiegato che le squadre di ricerca e soccorso escono di tanto in tanto. Con gli scafandri e tutto il resto, e solo per poche decine di minuti. Prendono campioni di aria e di terreno: stanno studiando una qualche miscela che permetta ai nostri polmoni di sopportare l’aria venefica. Gli isotopi radioattivi decadranno prima o poi quanto basta per permetterci di sopravvivere senza essere cotti, ma non è detto che saremo in grado di respirare la nuova atmosfera che abbiamo creato. E ogni tanto riportano giù qualcuno, qualcuno come me, un sopravvissuto d’un rifugio di fortuna, di un qualche bunker casalingo, una pellaccia dura che si è rifiutata di morire. Gli danno una bella ripulita dalle radiazioni – non che ci siano grandi aspettative sulla sua capacità riproduttiva, o sull’insorgenza di possibili tumori o malformazioni, o su quanto potrebbe restargli – lo sistemano al meglio, gli danno il tempo di adeguarsi alla situazione, cioè che adesso la vita è questa, piangi pure se devi ma fattene una ragione quanto prima, gli danno un lavoro e uno scopo. E in fondo a tutto mettono una lontana, tiepida speranza.

Per il resto è solo attesa. E turni di lavoro.

Il giunto di fissaggio sembra stretto a dovere. Gli assesto qualche pugno e faccio un urlo al tizio di sopra, che provi a mollare e vediamo se regge. Un urlo di risposta e il volano della saracinesca stagna si fa un paio di giri in senso antiorario. I soliti crepitii inquietanti, ma nessuna falla.

“Qua siamo a posto”, dico io mentre aspetto che ci issino sul tratto successivo dove un tizio sta tracciando un segno in corrispondenza dei fissaggi da controllare prima che tolgano pressione.

Fargo ha ripreso a parlare, di donne stavolta, ma non lo ascolto più. Penso ai muscoli indolenziti invece, e penso che non siamo nemmeno a metà del primo turno.

4

Fargo e io facciamo parte della squadra di manutenzione delle pompe per la ventilazione forzata degli ambienti del nostro settore; altre squadre si occupano dei generatori elettrici e delle caldaie per il riscaldamento, altre del riciclo dell’acqua o dei pasti; ci sono i gruppi di pulizia dei locali e del sistema fognario, c’è chi si occupa di aggiustare utensili, della lavanderia, delle serre e via dicendo. Lavori manuali. Poi ci sono quelli che stanno su ai laboratori, quelli che fanno parte delle squadre che escono, e i coordinatori, il cui unico impiego sembra quello di controllare che tutto fili liscio, che gli ingranaggi siano ben oliati.

Competenze, immagino. Qualcuno si è portato qua sotto un bagaglio di competenze che gli permette di rendersi utile in modi diversi. Tutti gli altri hanno comunque due braccia. I lavori di manutenzione si possono imparare molto più facilmente della sintesi chimica o della scienza medica quando non si posseggono delle basi. Io non saprei suturare una ferita quanto isolare una molecola, mentre posso tranquillamente saldare una lastra d’acciaio temperato o pulire un pavimento. Non mi è altrettanto chiaro invece quali competenze occorrano per diventare coordinatori.

Maneggiare un manganello, e un certo sangue freddo, non sono nozioni tanto più complicate del fissaggio di ghiere sagomate a dodici bulloni su fascette di rinforzo. Sta di fatto che Fargo e io e tutti quelli che conosco, evidentemente privi di capacità, finiamo alla bassa manovalanza, lontani dalle provette quanto da una semplice sbarra di piombo gommata. In molti hanno fatto richiesta per entrare nel gruppetto di élite del coordinamento (una ventina di individui in tutto), nessuna è stata accettata. Sarà questo motivo, più di ogni altro, a non rendermeli simpatici, a farmi diffidare di loro. Non mi vedrete mai tra quelli che si accalcano per ricevere la loro dose di defaticante sintetico color rosso ciliegia in quelle piccole piazzole di spaccio agli angoli dei corridoi. Come ha detto Fargo, mi sto facendo una brutta reputazione, del tipo che non si integra.

E avere una brutta reputazione, specie in un luogo chiuso, è pericoloso. I piantagrane li sbattono nelle fogne. O doppio turno di pulizia nelle vasche del depuratore dopo lo svuotamento.

Una delle cose che avremo potuto serenamente lasciare là fuori a farsi friggere dalle radiazioni è la politica. Ha trovato il modo di seguire i superstiti invece, lo fa sempre. Come ogni complesso che si rispetti, anche il Rifugio ha un suo direttore. Il signor Gibbs. Non lo si vede spesso sul livello delle macchine, bazzica il piano dei laboratori dove ha un suo ufficio. I coordinatori fanno rapporto a lui, gli scienziati fanno rapporto a una sorta di loro supervisore che fa rapporto a lui. Così come le squadre che escono all’esterno. Nei primi giorni, dopo che le mie facoltà connettive hanno ripreso una parvenza di funzionalità, e prima di essere introdotto al mio nuovo lavoro di serra tubi, mi hanno offerto alcune delucidazioni, una sorda di decalogo di sopravvivenza.

Vi ho già parlato dei macchinari, del rispetto dei turni e del fatto che nessuno esce, ma c’era anche qualche sottile allusione al fatto che nulla funziona senza una certa disciplina, e che occorre una struttura gerarchica per prevenire il caos. È stata una delle poche volte in cui ho parlato di persona con Gibbs. Ci tiene a indottrinare i nuovi arrivati quasi quanto a essere elusivo nei mesi seguenti. È un omino stretto in una specie di divisa con un gilet che spunta da un camicione bianco da medico che quasi striscia a terra, praticamente calvo tralasciando una cornice di ciuffetti bianchi attorno a orecchie e nuca; gracile e insignificante, ma con un’aurea di autorità che lo pervade come una sorta di potere, una sicurezza che gli permette di ostentare il petto in fuori anche quanto mette in riga gente grossa il doppio di lui, e una voce sottile ma decisa quanto il taglio di una lama.

“Be’, signor Dexter, senza disciplina, specie in un luogo chiuso, cosa impedirebbe a squadroni della morte di avventarsi sulle scorte di cibo come locuste? Immagino stupri di massa, omicidi al più piccolo pretesto, e senza una forza lavoro rigorosa questo posto cadrebbe a pezzi, e l’umanità, o quel che ne resta, con esso. So che ha molte domande, e che molte cose le sembreranno ingiuste, ma questo complesso funziona da più di cinque anni con un tasso di sopravvivenza accettabile; ci sono altre colonie simili a questa con cui abbiamo perso i contatti. Confido non vorrebbe trovarsi là.”

Due giorni e imparavo i segreti delle chiavi di fissaggio, a non cadere dalle altalene di cavi con cui ti calano sui giunti, che un vapore ad alta pressione cuoce la carne fino all’osso, che fare troppe domande era inutile, oltre che dannoso. Non preferisco essere in un posto dove gli stupri sono all’ordine del giorno, certo, e non preferisco essere fuori a rosolare. Ma c’è qualcosa dentro di me che non si rassegna. La cosa che mi metterà nei guai temo.

Fargo ha ragione quando dice che sono un rompipalle. Dovrei essere contento di essere vivo, di avere uno scopo, di fare la mia parte per il bene di tutti. Dovrei cominciare a prendere anch’io qualche pillola, mi farebbe stare meglio, dormire meglio, sognare meno. Dovrei uniformarmi, stare in riga, darci un taglio coi ricordi di un passato che non tornerà più.

Dovrei. Dovrei. Dovrei.

5

I pasti vengono consumati in mensa. È l’unico vero luogo di aggregazione del Rifugio a parte alcune aree ritagliate qua e là e trasformate in salette di svago. Anche se è abbastanza grande non si riempie mai del tutto, per via di un sistema di turnazione che si alterna a quello lavorativo, un meccanismo puntuale che ha come unico difetto quello di annullare le differenze tra pranzi e cene, così come sono nulle quelle tra la notte e il giorno. Si ragiona in turni, e più estesamente in cicli; tre turni fanno un vecchio giorno e ogni ventuno turni finisce un ciclo, che equivale pressappoco a una settimana, quattro cicli un mese eccetera. Se duriamo tanto suppongo che dovremmo trovare una terminologia anche per gli anni. L’impianto è attivo da duecentosessanta cicli più o meno.

Gamelle di metallo cromato sferragliano su tavolini di platica e pasti vengono scodellati da un lungo bancone tra il rumore delle chiacchiere e qualche urlo. La specialità del giorno è la zuppa di tuberi. “Non mi è nuova”, dice Fargo tuffandoci il cucchiaio con poco entusiasmo.

Ci sarà una settantina di persone, compreso il personale di servizio. Tutti uomini. All’ultimo censimento eravamo in poco più di ottocento in tutto il complesso, le donne meno di un settimo del totale. Il reparto femminile ha una mensa tutta sua e servizi separati; ci si arriva per un corridoio sorvegliato ma, come ho già detto, se dimostri buone intenzioni nessuno ti sbarra la strada.

Vicino alla mensa è stato ricavato una specie di spaccio in cui vendono sigarette ottenute da foglie essiccate di una qualche pianta coltivata in serra e di cui usano in cucina solo i bulbi, assieme a qualche alcolico, il fermentato che piace tanto a Fargo e che dovrebbe assomigliare alla birra, e una cosa simile alla vodka ottenuta dalle patate. Nelle ore lavorative si accumulano crediti; diciamo pure che la paga fa schifo ma non hai nemmeno niente in cui spenderla che non sia fumo o alcol o qualche occasionale articolo ritrovato e ripulito (assicurano) che hanno portato giù.

Io ho messo gli occhi su una vecchia coperta di lana un po’ tarlata, ma non credo che racimolerò mai abbastanza da potermela permettere; dipende da quanto duro io o dal numero di crediti che hanno maturato quelli che durano da più di me, e sono altrettanto freddolosi. L’articolo di maggior richiamo è un calendario di intimo femminile in condizioni più che accettabili, con tutte le pagine, che è esposto ormai da più di venti cicli, anche se so che alcuni del reparto mensa stanno mettendo insieme i fondi per poterlo acquistare. È un modo come un altro per passare il tempo, il sistema dei crediti; per darci qualcosa da fare. Immagino sia l’idea di qualche genialone del piano di sopra. Aspettiamo che organizzino pure il Bingo settimanale.

Come la maggior parte di noi, Fargo e io passiamo il nostro tempo libero per lo più nelle sale comuni. Negli anni quelli delle squadre di soccorso hanno portato giù diversa roba ancora intatta: ci sono mazzi di carte gettonatissimi e una confezione di scacchi che invece prende polvere in un angolo, diverse logore riviste di sport vecchie di un decennio, qualche scaffale di libri; elettronica niente, tutta fritta, dicono. E poi ci sono i due pezzi da novanta: un tavolo da biliardo il cui tappeto è quasi intatto – ma per farsi una partita c’è una fila spesso lunga più del turno libero – e a meno di dieci passi di distanza un tavolo da pingpong; le palline scarseggiano (quelli del riciclo plastiche ne azzeccano una ogni dieci tentativi) e c’è una penale in crediti davvero infernale per chi le rompe, e alla fine vedi giocare solo i veterani dell’impianto, che hanno accumulato abbastanza da potersi arrischiare serenamente la pensione con un tentativo di schiacciata.

È in momenti come questo che tiro il fiato.

Se sei fortunato per qualche ora ti scordi di tutto e ti senti tra amici, come al bar del dopolavoro. Bevi qualcosa, racconti qualche storia, ti fai due risate, ma l’inganno non dura mai molto. Capisci quasi subito dove ti trovi e cosa è accaduto. Poi a un certo punto c’è una sirena a tagliare l’aria e i tuoi pensieri. C’è un turno di lavoro da fare, i macchinari devono essere mantenuti in funzione.

Ci mettiamo tutti in moto di buona lena, nessuno si lamenta. Saremmo disposti a tenerli insieme coi denti quei cosi. Scoccerebbe a tutti quanti smettere di respirare.

Nella sala comune oggi con noi c’è anche Noah, un ragazzetto smilzo e paranoico con un berretto da baseball sulla testa dalla visiera perennemente incurvata da cui spuntano ciuffi di capelli rossicci. Lavora nei turni di pulitura condotte ed è convinto che una parte del cibo della mensa provenga da riciclo organico. Col tempo ha guadagnato un’intera manciata di sigarette artigianali che custodisce gelosamente nelle tasche e sotto il cappello. Ogni tanto ne tira fuori una al momento della pausa e la accende sempre con studiata lentezza, mostrando orgogliosamente uno zippo cromato che gli deve essere costato una fortuna.

“Ieri sono stato nel reparto femminile”, comincia facendo capolino tra noi, ma solo dopo aver tirato una lunga boccata. È uno di quelli che partono anche se nessuno gli ha dato il via, per cui essere socievoli è un’arte e la discrezione un optional. “Becco una tipa e le faccio: ‘Dovremo pur ripopolarlo o no ’sto fottuto pianeta. Come ti suona?’”

“Se la devi raccontare raccontala giusta almeno”, gli dice Fargo.

“Fin qui è giusta.”

“Allora chiudila qui, prima di menar fregnacce. Lo sappiamo che sei andato in bianco.”

“Sì, e come lo sai, Fargo?”

“Ho le orecchie.”

“Non vi si può proprio raccontare niente a voi! Voi che non avete mai un cazzo da raccontare, tra l’altro.”

Fargo ci rimugina un po’ su. “Io una cosa me la stavo chiedendo, invece”, dice sorprendendo tutti quanti. “Pensavo ai satelliti.”

“I satelliti cosa?”

“Ce ne saranno a migliaia in orbita attorno al pianeta. Quelli sono automatici e funzionano per decenni, giusto Dex?”

“Certo non sono stati condizionati dal fallout radioattivo. Qualcuno sarà andato in avaria, altri distrutti da collisioni con rottami spaziali, ma un buon numero orbiterà ancora.”

“E quindi?”, chiede Noah.

“Centinaia di satelliti per le telecomunicazioni, e noi quaggiù a rivoluzionarci col Morse.”

“È l’elettronica di terra a essere andata in avaria, ecco fatto.”

“Pure quella dei bunker? I laboratori del livello superiore funzionano, la loro elettronica era protetta dalla cupola. Questo impianto è vecchio, ma non tanto da essere privo di comunicazione satellitare.”

“Allora sono andati tutti in avaria, non c’è altra spiegazione”, fa Noah. “O il segnale è inibito dalle radiazioni.”

“No, non lo fanno”, dico io.

“Sai cos’hanno sparato? Che tipo di testate erano? Cazzo sai contro chi stavamo combattendo, per caso? La Cina, gli alieni, una fottuta falange di robot impazziti?”

Fargo fa una smorfia. “O i russi o i cinesi. E hanno cominciato loro!”

Noah tira una lunga boccata poi sputa il fumo su di noi come una provocazione. “Non puoi saperlo.”

“Tu che ne dici Dex? Sei quello tra noi arrivato per ultimo. Dicono che nei primi tempi i ricordi sono più freschi.”

“Già”, mormora Noah, “hai sognato qualcosa in proposito.”

“Non fare lo stronzo, Noah”, dice Fargo, “o dovrai pulire le fogne con un braccio solo.”

“Okay, okay, era solo una battuta.”

“Della guerra non ricordo quasi nulla”, dico io. “Dei flash, colonne di carrarmati, piattaforme missilistiche, come una specie di documentario visto in TV. Dev’essere stato tutto molto veloce.”

“Una testata nucleare è veloce”, dice Noah.

“Questa cosa dei satelliti da’ da pensare, però…”

Fargo si indica la tempia. “Visto, non sono uno stupido.”

“E non solo…”, aggiungo io, “c’erano anche degli uomini lassù. Quelli della stazione spaziale. Alcuni dei nostri mi sembra di ricordare, russi e qualche europeo. Forse una ventina di persone.”

“Be’ si sono visti lo spettacolo in prima fila: fine del mondo su megaschermo panoramico”, dice Noah. “Chissà che roba, tutte quelle detonazioni sulla faccia del pianeta.”

“Se è così, allora sono tutti morti da anni, senza rifornimenti di ossigeno e di cibo”, giudica Fargo. “Venti cadaverini che si fanno il giro del mondo in eterno.”

Noah dice: “Mi immagino la scena… loro che cercano di contattare il controllo missione dicendo di avere un problema. Be’, anche controllo missione ha un problema, ragazzi: è vaporizzato!” Ride da solo. Fargo lo guarda torvo e io alzo la mano per farmi notare da quelli del biliardo. Il prossimo turno è il nostro, finalmente.

Peccato che non l’avrei mai giocata quella partita.

Entra un tizio tutto trafelato, a occhio mi sembra uno degli elettricisti; l’ultima volta che uno di loro è entrato così di corsa nella saletta è quando una griglia di contenimento è saltata e due suoi colleghi sono stati raschiati via dai connettori per mezzo di una vanga.

Ma non c’è stato alcun incidente. Il tizio ansima che la squadra di soccorso ne ha trovati altri vivi là fuori! Tre gli pare d’aver sentito.

Non è una notizia del tutto nuova, anche se genera sempre un po’ di clamore. Ogni tanto quando quei tizi in scafandri a circuiti di calore e schermatura antiradiazione portano i loro contatori geiger a farsi una passeggiata, poi riportano giù qualcuno, oltre ai campioni contaminati. Qualcuno che è sopravvissuto.

6

Prendete qualche centinaio di anime e confinatele in un luogo dal quale non possono uscire, poi intruppatele in turni di lavoro serrati e otterrete una grossa pentola a pressione. Ci sono delle valvole di sicurezza, certo. La prima, la principale, consiste nell’esigenza di sopravvivere. Su questo non si discute. C’è poi da aggiungere che la minaccia di un ambiente esterno radioattivo riesce debitamente ad arginare qualsiasi comprensibile desiderio di libertà. Poi ci sono le pillole bianche, gli incontri nel settore femminile, i turni di riposo. È sufficiente a evitare che la situazione degeneri troppo, ma non impedisce che qualcuno ogni tanto impazzisca, in un verso o in un altro. Vi ho già parlato dei suicidi. Se invece l’oggetto della vostra frustrazione diventa qualcos’altro, o qualcun altro, la strada che andate a incrociare è quella di Mayer.

Mayer è il capo dei coordinatori. La persona che meno desiderereste far arrabbiare in assoluto. Manganello facile, pochissima diplomazia. Una vasta esibizione della minaccia per non arrivare allo scontro, suppongo, perché a mio avviso la nostra situazione suggerirebbe il massimo delle cautele. I piantagrane si fanno qualche giro di giostra di minacce, gli irriducibili assaggiano il manganello, si fanno doppi turni di lavoro nei posti più schifosi dell’impianto, infine si beccano l’isolamento.

Io mi guardo bene dal crearmi guai, ma a quanto pare non sono bravissimo in questo. Sta di fatto che nonostante la mia indole docile e che non mi sfiori nemmeno di attaccar lite con qualcuno senza motivo o buttare in aria il tavolo della mensa, ho avuto ugualmente la mia dose di Mayer. A quanto pare faccio troppe domande, una delle cose che sarebbe meglio non fare.

La questione dei superstiti è una di quelle che mi rode di più. Sono disposto a credere nella capacità estrema dell’umana sopravvivenza, seconda solo a quella di topi e blatte probabilmente, ma che portino giù qualcuno a distanza di così tanti anni dal disastro mi fa sorgere qualche onesto interrogativo sull’effettiva criticità delle condizioni esterne.

In altre parole, come hanno fatto questi a resistere là fuori per anni? Dov’erano, in altri rifugi? In qualche bunker di fortuna? Questa è la spiegazione ufficiale. Fatto sta che arrivano in condizioni non certo peggiori di quelle in cui hanno raccolto me un anno fa o Fargo quattro. Dovrebbero essere quasi cadaveri, invece sono persone.

Per un po’ di tempo i nuovi giunti sono l’attrazione principale del Rifugio. Carne fresca, tanta curiosità… fatica sprecata. Non ricordano molto più di quello che ricordiamo noi, in definitiva. I ‘ricordi freschi’ si riducono più che altro a frammenti di un lontano passato e alla guerra, e sono quasi sempre le stesse immagini per tutti. Per un intero ciclo neanche ce li fanno vedere: massiccia somministrazione di farmaci per il protocollo sanitario, cinque o sei docce antiradioattive, sostegno psicologico post-traumatico, tante nuove informazioni da assorbire, una serie di regole da imparare. Quando si sono ambientati, capire che utilità possono offrire alla comunità.

Una ventina di turni standard di lavoro dopo il loro arrivo, alcuni addetti al coordinamento accompagnano giù ai nostri livelli della manutenzione due nuovi arrivati; il terzo ci dicono non ce l’ha fatta. Uno viene assegnato al nostro settore, dritto nella nostra camerata.

È così che conosco Bernard.

Sia io che lui sappiamo che si chiama così perché è quello il nome sulla sua targhetta.

Poca carne attorno alle ossa, Bernard riempie a stento la sua nuova tuta da lavoro. È dieci centimetri abbondanti più basso di me, che non raggiungo il metro e ottanta se non con gli stivali protettivi con la suola di tre dita. I tratti del suo viso sono affilati, incavati attorno agli zigomi e i capelli sono fini e spruzzati di grigio sulle tempie. Potrebbe non arrivare ai quarant’anni ma ne dimostra di più: le guance smunte sono increspate da una ragnatela di rughe, una pelle secca dovuta probabilmente dall’esposizione radioattiva. Da dietro le lenti di un paio d’occhiali filtra uno sguardo disorientato che sono sicuro di aver visto uguale in uno specchio un annetto fa. Dieci a uno che lo sbattono a pulire il sistema fognario.

So per esperienza che i primi tempi sono i più duri. Vale per qualsiasi situazione in cui uno viene a trovarsi, per qualsiasi cambiamento nella tua vita. E qui non stiamo certo parlando di un trasferimento in un’altra città o un nuovo lavoro: la vita per come la conoscevi ha subito un arresto istantaneo e al suo posto ti hanno servito poco più d’un simulacro di esistenza. È una parete verticale da scalare a mani nude, e quelle di Bernard sono mani da signorina.

Ma c’è dell’altro. Non è semplicemente spaesato, questo è comprensibile. È convito di trovarsi nel posto sbagliato. Guarda ciascuno di noi con sospetto. Lo hanno sistemato a tre brande dalla mia e talvolta lo sento che si agita nel sonno e blatera cose tipo: “Lasciatemi andare, c’è stato un errore, io non ho fatto niente.”

Lo mettono a pulire le fogne. Pagatemi, prego.

7

Passano i turni. Il lavoro continua. I macchinari trottano tossendo i loro sgraziati lamenti, ma il vapore scalda i tubi, le lampadine funzionano, l’acqua che raggiunge i rubinetti non odora di fango, l’aria circola nei condotti.

E la scacchiera non prende più polvere.

Io ho qualche rudimento e Bernard sembra intendersene. È l’unica cosa che sia riuscita a forare in parte quella sua cortina invisibile di diffidenza e distacco; penso di essere l’unico qua dentro con cui abbia scambiato più di tre parole. Dio benedica gli scacchi. Anche se stiamo ventisei a tre.

Il tempo scorre più lento quando fai qualcosa che non ti piace. Dubito che a Bernard piaccia pulire le fogne. Non si ricorda molto di quello che è capitato in questi anni; non sa dove lo abbiano trovato né come sia sopravvissuto. Ma ha ricordi piuttosto nitidi degli anni antecedenti alla guerra. Ricorda di essere stato un professore universitario. Un insegnate di lettere, ne è abbastanza sicuro. E ricorda di essere stato sposato. Lo è ancora giura. Immagino che la sua famiglia sia poco più che polvere ormai, ma lui ne parla come fosse ieri. Mi fa un po’ pena. Alle volte sembra pazzo.

“I pazzi siete voi”, risponde se qualcuno glielo fa notare. “Questo posto è una follia.”

“Follia o no è meglio che ti ci adegui”, gli dico. “Non c’è altro. Sei stato fortunato che ti abbiano trovato.”

“Non mi sento fortunato. Affatto.”

“Be’, immagino che una guerra ridefinisca il concetto.”

“Ricordi qualcosa della guerra?”, mi chiede.

“È tutto sfuocato. Più ci avviciniamo al punto più i ricordi si fanno meno nitidi. Cioè, ancora meno nitidi.”

“Io ricordo immagini vaghe di piattaforme missilistiche e di silo pronti al lancio, e carrarmati che sfilavano sulle strade di una qualche città…”

“Be’, da come si è messa non penso che qualcuno abbia vinto.”

“È dalla Guerra Fredda che un conflitto globale non può più vincerlo nessuno. Da Oppenheimer in poi perdono tutti”, dice lui. “È il concetto alla base della deterrenza nucleare.”

“Non ha funzionato.”

Prima o poi il lavoro finisce sempre per succhiarti via quella parte di te che ancora sogna. Possa metterci interi cicli. Non vale per tutti. Con me non ci è riuscito, non completamente. Ma mi sono adattato alla nuova situazione. E col tempo ho imparato a tenere la bocca chiusa. Solo Fargo e pochi altri sanno dei miei sogni, dei frammenti di vita perduti e di un mondo diverso là fuori a cui in qualche modo sento ancora di appartenere.

Ho la sensazione che non esisteranno abbastanza turni da seppellire le fissazioni di Bernard, dovesse questo Rifugio durare ancora un secolo. La differenza è che lui non solo non si adatta… non tiene la bocca chiusa. Più di una volta ho sentito da qualcuno del turno alle fogne che Bernard si lamentava del fatto che lui non avrebbe dovuto essere laggiù. “Se ti hanno assegnato alla pulizia significa che altro non potevi fare, professorino. Ti fossi laureato in fisica a quest’ora non spaleresti merda!” E lui rispondeva: “Non quaggiù a pulire. Quaggiù in questa cosa che chiamano rifugio, o cupola o complesso… Dovrei essere fuori! Hanno commesso un errore!”

“Per me finisce male”, aveva concluso Fargo. E non si sbagliava.

Nel successivo turno di riposo si è scomodato Mayer in persona. Più due dei suoi sodali. Tre manganelli nella nostra camerata per tenere una lezione gratuita sul quieto vivere.

Col suo metro e novanta, Mayer guarda la maggior parte di noi dall’alto in basso, e se deve vedersela con qualcuno alla Fargo non si fa troppi problemi ad abbassarlo con una randellata al ginocchio. Lo tiene appeso alla cintura, sempre pronto, nero e lucido come gli stivali di un soldato il giorno dell’ispezione. Si porta appresso anche un’aria di superiorità e uno strano distacco come se, a differenza nostra, non appartenesse a questo luogo. Evidentemente si sente una sorta di ultimo baluardo all’anarchia, lo sceriffo che è tornato in città. Non ha paura di fronteggiare bestioni grandi e grossi, specie coi guardaspalle al seguito, ma coi piccoletti mostra una sorta di gusto sadico, un qualcosa che gli leggi in quei suoi occhi azzurri di lupo, un lampo di pura malvagità.

Certo di questi tempi è importante avere un hobby, ma la maggior parte di noi sarebbe pronta a far ingoiare a Mayer il suo non prima di avergli usato il manganello come battistrada… Lo stesso che si ostina a sbattere ora sull’acciaio delle nostre brande. Il rumore supera il sottofondo perpetuo dei macchinari strappando quasi tutti noi dal nostro sacrosanto riposo. Non ci sono facce felici a guardarlo, adesso. Se ne frega. Alcuni si drizzano minacciosi, altri sono solo incuriositi, quelli per cui ogni fuori programma ha un valore apprezzabile, certo più di qualche ora di sonno perduta: spettacolo della notte, proiezione unica. Chi ha fame si ciba di tutto.

Senza troppe cerimonie, Mayer individua Bernard e lo tira giù dal letto come fosse un fantoccio di pezza. “Lo vedete tutti quanti?”, chiede arpionandolo per una spalla quando lui tenta si rimettersi in piedi. “Gli uomini della vostra camerata sono una vostra responsabilità. Lo dico chiaro, occorre lavorare per sopravvivere. Gli impianti non si alimentano da soli e non si riparano da soli, e da quelli dipende la vita di tutti noi. Non c’è posto per chi batte la fiacca. Chi non si adegua è un peso per la comunità…”

Qualcuno di noi protesta, ma in definitiva nessuno muove un dito.

“Respirano aria e mangiano il cibo che produciamo, godono del riparo di questa struttura, e che fanno in cambio? Continuano a vaneggiare cose di un mondo ormai perduto. Rifiutano di adeguarsi. Sono fottutamente inutili. Ed è vostra responsabilità fare in modo che ciascuno di voi sia utile. E mancare a una responsabilità condivisa, diventa una colpa condivisa.”

“Te lo ha scritto Gibbs il discorsetto, Mayer? O te lo ha dettato, visto che tu non sai leggere.”

“È meglio se non tiri troppo la corda, Fargo. Sei già sulla mia lista nera. Ti faccio sbattere sul fondo dei depuratori per una settimana.”

“Cioè per quanti turni?”, gli chiedo io. “Non ti facevo un passatista, Mayer.”

Questa cosa sembra coglierlo più di quando abbia fatto l’affronto di Fargo. Lo vedo deglutire con un certo imbarazzo, poi tirare un’altra manganellata contro la sponda di un letto. “Non voglio che ci siano problemi o altre cazzate, altrimenti aumento i turni di lavoro a tutta la squadra!”

Questo arriva dritto a tutti. Il coro di protesta si fa più vibrante e qualcuno accenna ad alzarsi dalla branda. I due guardaspalle si staccano dalla porta e tirano fuori i loro sfollagente. Chi si stava per alzare si riaccomoda; alcuni fingono di sprimacciare il cuscino.

“Le macchine vanno mantenute in funzione, lo sapete benissimo. E se pensate che mi diverta a venire quaggiù a raddrizzarvi sbagliate di grosso. Sarà meglio per voi se non mi ci fate tornare tanto presto.” Mayer molla la sua vittima, che crolla sul pavimento, poi si passa una mano a ravviare i corti capelli biondi mentre il suo volto cerca di ritrovare un po’ di contegno. “Il lavoro va eseguito, l’ordine mantenuto. La vostra parte, la nostra parte. È per il bene di tutti. Siamo ciò che resta del mondo, abbiamo il dovere di sopravvivere.” Questo è puro Gibbs al cento percento.

Per poco qualcuno non gli fa un applauso.

Quando finalmente se ne va le luci cominciano a spegnersi e resta solo il rumore delle macchine. Ma prima che si faccia del tutto buio potrei giurare di aver visto un mezzo sorrisetto guizzare sulle sue labbra.

8

Fisso i miei bulloni. Un manometro mi comunica che la pressione è regolare e ringrazio il cielo di non lavorare al reparto caldaie, altrimenti quel manometro sarebbe grande due volte e mezza la mia testa e la pressione sarebbe sufficiente a tagliarmi in due, se i bulloni decidessero malauguratamente di saltare. La maggior parte dei morti che ci sono qua sotto è dovuta agli incidenti sul lavoro.

Per tutto il giorno ho cercato di non pensare alla visitina della buonanotte di Mayer, con scarsi risultati. Fargo aveva detto che i coordinatori non sono tutti dei rottinculo; certo non si riferiva a Mayer e ai suoi.

Rivedo nella mia mente la scena della notte scorsa, ed è come avere un brutto presentimento. Bernard non si adatterà e Mayer passerà al livello successivo. Sembrava intenzionato a dare una lezione, farne un esempio. Un deterrente è questo lo scopo. Ma a un certo punto non basta più, la tensione aumenta e prima o poi qualcuno decide di schiacciare il bottone. Se è così che è andata là fuori perché dovrebbe essere diverso adesso? Non siamo certo uomini migliori di quelli. Nemmeno l’essere a un passo dall’estinzione ci ha insegnato il rispetto della vita. Se l’uomo fosse veramente in grado di imparare dai propri sbagli ci sarebbe stata una sola guerra in tutta la sua storia.

Sento che ci scapperà il morto, stavolta. Penso a un incidente sul lavoro, penso alle docce.

Ma c’è anche un’altra cosa che mi preoccupa: negli ultimi tempi i miei sogni sono peggiorati. Ora sembrano in qualche modo più nitidi, più radicati alla realtà, meno caotici e surreali della loro natura di sogni. Mi sembra quasi di poter ricordare dettagli della mia vita, ma al risveglio svanisce tutto, come il vapore che fugge via dalla bocca in una fredda mattinata d’inverno.

Faccio segno all’addetto all’argano di farmi scendere e poco dopo il ponteggio si adagia al suolo. Adesso la gigantesca macchina che pompa aria riciclata nei locali – e nei nostri polmoni – troneggia su di me come un palazzo di tre piani, e i tubi si disperdono su, oltre la mia vista, fuori dai sottolivelli di manutenzione. Li vedo sparire verso i piani superiori dove ci sono le sale mediche e i laboratori di analisi; lassù si trovano gli alloggi dei coordinatori, la stanza degli scafandri e le docce di decontaminazione, con un portello che si apre su qualche centinaio di metri di condotto fino alla cupola: un wafer di cemento armato, lamine di piombo e polietilene ad alta densità di almeno sei metri di spessore. E oltre solo il nostro vecchio mondo bruciato.

Quando il turno di lavoro finisce, contravvenendo ai miei principi vado a parlare con alcuni coordinatori. Chiedo di poter vedere Gibbs. Se Bernard potesse essere spostato dalle fogne forse le cose andrebbero meglio per lui; inserirlo nei turni alle serre, magari. È la cosa migliore qui dentro, il massimo del verde che ci è concesso e terra sotto i piedi. È intelligente, dico, può imparare tutto sulle piante e l’irrigazione e l’irraggiamento e la coltivazione idroponica.

Niente da fare, il gran capo è troppo occupato per ricevermi. In compenso mi danno una dose di pillole bianche, per Bernard e me. Staremo meglio, dicono. Le accetto, ringrazio e me ne vado.

“È tutto a posto, Dex?”, mi fa Fargo.

 “Certo, come sempre.”

La mensa è la solita, placida marea di borbottii, di gente che si passa il cibo e gamelle d’acciaio che scivolano sui tavolini di plastica; l’aria è pregna di odori di cucina che mascherano il sentore stantio del riciclo, e le luci al neon sono intense nonostante le politiche di risparmio energetico. È una scena confortante, come ritrovarsi in una vecchia mensa aziendale, e quando il cibo è decente ha l’effetto di farti scordare la realtà per qualche minuto.

“Bernard?”, chiedo.

“Non si è visto. La sceneggiata di Mayer non credo l’abbia tranquillizzato.”

“Ma va?”

“So che ha dato di matto nel suo turno, e ha cercato di scappare.”

“Cos’è successo?”

“Quello che ti puoi immaginare. Le minacce lo stronzo le ha rivolte a tutti. Alcuni del turno di Bernard gli hanno fatto cerchio attorno dicendo che non volevano andarci di mezzo per colpa sua. Se a quelli gli raddoppi il lavoro lo ammazzano piuttosto.”

“Non è stata una bella mossa”, giudico io.

“Dipende dai punti di vista, Dex. Dipende cosa voleva ottenere Mayer. Fare in modo che altri facessero il lavoro al posto suo senza sporcarsi le mani? Allora è stata una gran mossa.”

Lavoro… Parola grossa nel suo caso. Mai visto Mayer con un attrezzo in mano.”

“Sentita la sua versione? Chi sorveglia fa la sua parte nel Grande Meccanismo. Lo sfollagente è un attrezzo come un altro.”

Do un pugno contro la parte metallica. Il rumore si perde tra i mille della mensa. “Con quello che è successo, la guerra e tutto il resto, la vita dovrebbe essere il bene più prezioso. Gibbs lo sa di questi mezzucci per risolvere i problemi?”

“Vita, Dex? È questo il tuo problema, quello che non capisci. Qua è questione di sopravvivenza, e vale tutto.”

Al successivo turno di riposo, Bernard non si presenta nemmeno in branda.

Suppongo che lo troveranno da qualche parte coi polsi tagliati o una corda al collo. Non si è mai ripreso dal trauma. Non poteva accettare la realtà. Tutto questo è stato troppo per lui, alcuni sono più fragili di altri, è così che va. Accettalo. Magari non ha nemmeno fatto tutto da solo.

O forse scomparirà e basta. A volte succede anche questo. Un cambio di camerata e di turni e c’è gente che non rivedi mai più. Per Noah ci finiscono nel panino. Sei turni di lavoro e nessuno ci pensa più.

Diserto la sala ricreativa e me ne vado un po’ in giro per l’impianto; resti sui livelli-macchina e puoi girare liberamente. Altre camerate, una passeggiata nelle serre, il reparto femminile… armato di buone intenzioni vai dove vuoi. Gli ascensori no. Su ai laboratori non ci vai senza un permesso o se non vieni convocato; sia mai che qualcuno di noi orsi in tuta blu scombini le loro provette, crei pasticci tra le attrezzature del reparto medico, infili unghie sporche di grasso nelle tenui speranze che restano all’umanità.

Di Bernard nessuna traccia.

Attraverso corridoi, paratie metalliche e cunicoli in cui è visibile la roccia, pareti di nuda roccia solida, levigata, scavata da trivelle che sapevano il fatto loro. Non ci hanno mai spiegato quanto siamo in profondità… Qualche centinaio di metri, dicono, forse un chilometro. Non ci hanno mai mostrato uno schema preciso del Rifugio, ma è grande, davvero grande, progettato per migliaia di persone. La sola cupola dovrebbe essere estesa quanto una decina di campi da football.

La gente delle altre camerate è uguale a noi, stesse facce, stesse tute, stessi tesserini col nome. Qualcuno gioca a carte tra i letti, altri fumano, si fanno la loro dose di succo di patata o un riposino di straforo.

Mi aggiro con aria indifferente e butto lì qualche parola di circostanza: “Che si dice… come va il lavoro… era uno schifo la mensa oggi, eh?” Chiedo se qualcuno conosce l’ultimo tizio che hanno portato giù: erano in tre, spiego, uno è morto e uno è finito da noi.

Non ne sanno nulla. Però alcuni mi dicono che qualche tempo prima c’è stato uno che si è ammazzato… era uno nuovo, arrivato da poco. Su come l’abbia fatto circolano diverse versioni, la più accreditata è un taglio ai polsi con un temperino per guarnizioni.

“Proprio come questo”, mi dice un tipo a cui non mancano muscoli e cicatrici, a differenza di un molare e due incisivi. Mi mostra la lama, ma passandosela sulla gola. Mi tolgo dalle scatole finché sono ancora l’unico a fare domande.

Ritorno nel mio settore guardandomi le spalle. Mi sa che non lo vedrò più il caro Bernard. Per di più comincio a provare un senso di pericolo. E non parlo di quello che avverti appeso in modo precario sui ponteggi a una decina di metri da terra.

Per la prima volta da quando mi hanno salvato, trascinandomi qua sotto, mi scopro a pensare di aver fatto qualcosa di male per trovarmi qui.

9

Sbagliavo su Bernard. Lo reinseriscono nei turni due giorni dopo, se mi passate il termine. Mayer ce lo riporta in camerata così come se lo era venuto a prendere: senza che nessuno se ne accorgesse. Ma Bernard non è la stessa persona di prima. Schivo e diffidente per natura ora sembra apatico, quasi indifferente a quello che lo circonda. Quando mi avvicino per parlargli a stento mi riconosce. Gli occhi che mi guardano da dietro le lenti degli occhiali appaiono vuoti, come se pure diffidenza e preoccupazioni gli fossero state succhiate via. Non hanno più luce dentro.

“Che ti hanno fatto Bernard? Ti hanno drogato?”

Scuote appena la testa.

“Ti hanno dato qualcosa? Ricordi se ti hanno fatto prendere delle pillole?”

“No, credo di no…”

Controllo se ha tracce di lividi su gambe o braccia, ma sembra pulito. Di certo non è stato un lavoro di manganello. “Ti hanno minacciato in qualche modo?”

“C’era una stanza circolare, molta luce, una poltrona e dei fili che scendevano… ma sto bene.”

“Non credo, sai.”

“No, va bene. Devo fare la mia parte. Siamo ciò che resta…”

“Sì, ciò che resta dell’umanità, abbiamo il dovere di sopravvivere, lo so.”

“Che turno è? Devo andare al lavoro…”

“Tra otto ore. È meglio se ti riposi.”

“Bess!”, esclama improvvisamente artigliandomi il braccio con uno scatto nervoso della mano. “Mia moglie si chiama Bess, è il diminutivo di Beatrice. L’ho conosciuta al campus. Faceva diritto penale.”

“Un’avvocato? Be’, fa sempre comodo averne uno in famiglia, come un medico… Ti hanno drogato Bernard.”

“No, sono sicuro di no. Ma ero di sopra. Mi hanno portato di sopra.”

“Eri ai laboratori?”

“Mi fa male la testa, mi hanno fatto qualcosa alla testa.”

“Ma di che diavolo parli?”

“Immagini, ricordo delle immagini. C’era mia moglie. E poi è esplosa. La nostra casa. Tutta la città è esplosa.”

“Quale città? Ti ricordi quale città era?”

“San Francisco, credo. L’hanno attaccata coi missili. Da ovest, hanno attraversato il Pacifico.”

“Ricordi come ti sei salvato?”

“È più nitido adesso. Le sirene d’allarme, un bunker sotto la città. Perdite nel contenimento. Era quasi finito il cibo. Sono morti tutti, uno dopo l’altro… poi devono avermi trovato. È così. Non c’è niente là fuori, è tutto vero. Non c’è più niente, Dex.”

Dal momento che le squadre di soccorso dubito possano prendere l’auto, il Rifugio deve trovarsi nei pressi di San Francisco. Costa ovest. California… Che cazzo ci faccio io qua? Poco ma sicuro non sono della California, non credo nemmeno d’esserci mai stato… Naturalmente dando per scontato che i ricordi di Bernard siano attendibili. Di Bernard che sembra sedato fino al midollo, imbottito di tranquillati. I ricordi dei nuovi arrivati sono più freschi, poi col tempo si dimentica, ci sei costretto, è un meccanismo di sopravvivenza. È per l’effetto del trauma; quello, più ciò che hanno sparato in atmosfera. Cancella la memoria a breve termine, ricordi tutto, non ricordi niente; sai distinguere una forchetta da un cucchiaio, sei che eri un ragazzo, che vivevi da qualche parte, ma non sai dove… Nel Midwest… Missouri, forse? Sei uno di Topeka, hai studiato a Kansas City? Ricordo che un anno fa forse ricordavo cose del genere.

Basta Dex, stai impazzendo. Stai diventando pericolosamente paranoico. Lo hai sentito Bernie. Ha detto che si ricorda della guerra, che ora le immagini sono più nitide. Rassegnati. Comincia a seppellire quella parte del tuo cervello che ancora vuole uscire, che ancora sogna cieli limpidi e aria fresca e che ricorda il tempore del sole sulla pelle; quella parte malata, quella che si porterà tutto il resto della tua mente nell’abisso e il tuo corpo verso una fine ingloriosa. Corda anziché sapone.

Fai come Bernard che ha ficcato la testa nel cuscino. Hai un turno di risposo. È meglio che ne approfitti: domani sarà giorno di lavoro.

10

Mia moglie non si chiama Bess e non è avvocato; fa la cameriera al Coffee and Lounge nel Village, sulla 29th, nel south west. Io lavoro a contratto nei cantieri edili, come responsabile della sicurezza. Non abbiamo figli, ma un cane sì, Buck; ce la caviamo a malapena. Un figlio arriverà quando la situazione economica sarà più solida… Costruiranno quel nuovo grattacielo di sessanta piani vicino a Lawrence, è un buon contratto, di almeno due anni. Vedremo, dice lei. So che come la moglie di Bernard anche la mia è morta. Non è stata una bomba. Mi sveglio con la sensazione della sua morte tra le mani. Ho vaghi ricordi di una vita precedente a questa. Svaniscono nel tempo che ci metto a tirarmi su dalla branda. È questa la fregatura coi sogni.

Mancano più di due ore alla sirena: affacciandomi sul corridoio vedo il display digitale, i numeri che brillano rossi. Per un attimo mi sembra di ricordare il suo nome.

Invece di tornarmene a letto proseguo nel corridoio. Mi sento affetto da una carica nervosa che non riesco ad arginare. Me la sento pericolosamente addosso.

Trovo Fargo nel bagno della sezione femminile, che è più pulito della nostra mensa.

Gli lascio finire quello che sta facendo, ossia non di venire a pisciare in un posto più lindo, ma farsi una sveltina scarica-stress con una che ne ha bisogno quanto lui. Quando li vedo uscire, lei va da una parte e lui dall’altra e nemmeno si guardano. La tipa l’ho già vista altre volte, è una che sta mettendo da parte crediti per del rossetto. Questo tipo di incontri non sono scoraggiati, i rapporti promiscui non vengono visti di cattivo occhio e le donne, be’ sono abbastanza facili. Fanno test di gravidanza ogni tre o quattro cicli, e se qualcuna resta incinta si becca un’esenzione dai turni per quasi tutto il tempo della gravidanza. Congedo di maternità. Non dico che ci saltino addosso, ma poco ci manca.

Con un elastico Fargo si riavvia i folti capelli neri in una corta coda di cavallo, il volto squadrato e duro appare teso e imbruttito dallo sforzo, mentre alcune gocce di sudore gli rotolano giù sui lineamenti marcati.

“È tornato Bernard”, gli dico. “E non come cadavere. Anche se a vederlo non si direbbe.”

“Dubito sia andato a farsi un giretto fuori.”

“Dovunque sia andato era in compagnia di Mayer.”

“Che gli hanno fatto?”

“Be’, non credo abbiano avuto una romantica liaison in un bagno.”

“I tipi che fanno tanto i duri qualche volta hanno un lato femminile da nascondere. E vedendo Mayer ti viene da pensare che lo prenda anche in retromarcia.”

“Non lo hanno pestato, o violentato.”

“Imbottito?”

“Dice di no. Mi ha sparato questa storia che i ricordi sono più netti. La guerra e tutto il resto. Ha detto che dovremo essere suppergiù sotto San Francisco.”

“Ecco questa sì che è una cazzata! Devono avergli incasinato il cervello.”

“Mi sa che ci hai preso. Qualcosa gli hanno fatto di sicuro. E, per la cronaca, dice di essere stato su ai laboratori. E a questo ci credo.”

“E come sta?”

“Docile come un agnellino.”

“Problema risolto, allora.”

“No, qui sta succedendo qualcosa di sbagliato.”

Lo vedo incrociare le braccia sul petto, che ora sembra il muso di un tir a un passaggio a livello. “Ti ci metti pure tu? Sei solo paranoico.”

“Probabile. Sai, ho cercato di farmi ricevere da Gibbs. Per un cambio-turni.”

“Fammi capire, non ti trovi più bene con me, Dex? Sono un po’ offeso.”

“Per Bernard, ma non sono stato ricevuto.”

“E la cosa ti sorprende?”

Appoggio la schiena contro il muro. Ci sono file di porte su bagni vuoti, specchi di metallo, lavabo e nessun orinatoio. “Rispondi a questo: conosci qualcuno delle squadre di soccorso?”

“Non scendono qua.”

“Qualcuno che abbia anche solo parlato con uno loro.”

“Non capisco dove vuoi arrivare.”

“Che sono paranoico, Fargo, certo. Ma che tu sei qua sotto da quattro anni e non sai chi cazzo siano quelli che ci hanno salvato… non li hai mai visti. E quelli dei laboratori? Li abbiamo visti tutti quando ci hanno fatto le visite, decontaminato, fatto ciucciare cocktail d’antivirali ad ampio spettro, ma poi?”

“C’è una gerarchia, il sistema funziona così. Ognuno coi suoi compiti.”

“Mi sembra di sentire Mayer…”

Ecco, col senno di poi questa me la sarei dovuta risparmiare. Pianta una delle sue manone a pochi centimetri dalla mia faccia facendo schioccare la superficie liscia della parete come una frusta. Mi sormonta di quasi quindici centimetri e di almeno una cinquantina di chili di muscoli… non è una persona che vorresti avere contro. “Ti ho parato il culo i primi tempi, quando sembravi un cagnetto spaurito. Credi che dopo un anno hai tirato fuori un po’ di tempra, abbastanza da pensare di averci i coglioni ma saresti stato la puttana di qualcuno, senza di me.”

“Ci siamo guardati le spalle a vicenda.”

“No, io ho guardato le tue. Ora tu credi di dover fare lo stesso con Bernard. Ci attacchiamo ai nuovi come se fossero fatti di speranza. Ma non è così, sono solo altri candidati per il sottosuolo, altre braccia. Più ne portano giù meno lavoro per noi, più turni di riposo. Tutto qui.”

“Sono persone che vengono salvate.”

“È forza lavoro.”

“Non posso pensare che sia solo questo.”

“È tempo che ti svegli. E che cominci a prendere le pillole. Lo dico per il tuo bene.”

“Farai in modo che qualcuno me le metta in mano, Fargo? O nel bicchiere…”

“Dovrei colpirti per quello che hai detto. Magari ti aiuterebbe a capire la situazione. Forse ti sei fatto un’idea sbagliata…”

“Forse sì, credevo di potermi fidare.”

“Non fotto la gente alle spalle. Non faccio spiate, io. Questo lo sai.”

“Sono più le cose che non so.”

“Sai Dex, in fin dei conti sei lo stesso cagnolino di un anno fa, solo con un po’ di muscoli in più e qualche rotella di meno.”

Tira un’altra manata secca al muro. Poi si volta e se ne va lasciandomi nel vuoto del locale a chiedermi se ho davvero qualche amico qua sotto.

CONTINUA

I MANUTENTORI di Fabio Forlivesi (prima parte)

genere: FANTASCIENZA

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