I RICORDI DI UN PRINCIPE (2) di Sebastiano Ferla
6 ottobre 1582
“Chi sei tu,
o prode marinaio
che dalle acque tempestose di un lago
ti fai trasportare,
e paura non hai della riva,
del basso fondale,
di non avere una nave,
dell’essere in un sogno?”
Prima dell’alba Susanna, provvista di buon senso, lasciò la mia camera e ritornò nella sua per un paio d’ore di sonno ancora. Io rimasi disteso nel letto e guardai la luna che s’andava scomparendo. Sorrisi e pensai: “Chissà se qualche sciocco pensa ancora che la luna sia trasportata dal vento”.
Mi alzai, con quella particolare sensazione che si ha non appena ci si rende conto di essere soli. Generalmente mi piaceva; quella volta però, a causa dell’assenza di Susanna, rimanere lì mi risultava penoso.
Le lezioni che ero costretto a seguire al mattino mi stimolavano una riflessione particolarmente triste. O comunque gli argomenti sui quali il mio intelletto si dilettava a ragionare erano particolarmente adatti ad allontanare il soggetto pensante dall’armonia e dalla felicità.
Stavo male, non capivo bene il perché ma ero presente solo con il corpo e dovetti uscire a prendere una boccata d’aria, stavo soffocando, come se i miei pensieri avessero saturato l’aria della stanza e io avessi finito l’ossigeno.
La strada che pensavo potesse condurmi a ritrovare me stesso mi condusse al lago, erano circa le 11:00 del mattino. Mia madre, la madre di Susanna e Susanna sarebbero dovute tornare al castello circa due ore dopo. Guardai il cielo e le nuvole che si spostavano, pareva quasi danzassero; e mi sentì rapito dal quel sentimento di inferiorità che ogni essere dovrebbe provare nei confronti della natura, del mondo, della bellezza stessa.
Simili furono le sensazioni di spaesamento in cui mi imbattei non appena mi arresi all’acqua. Smisi di sentire freddo, smisi di pensare. All’improvviso, non ricordo quanto tempo dopo, uno spavento che mi fece rinvenire: due mani mi abbracciarono da dietro. Impietrito mi voltai e gridai. Sconfortato da come Susanna riuscisse sempre a cogliermi di sorpresa, ebbi quasi l’impulso di annegarla.
L’abbracciai e quel senso angoscioso di smarrimento, a me tanto caro, presente in ogni mia giornata, che mi dà l’impressione di vivere una realtà molto diversa, molto più insignificante e limitata da quella che è la vita in sé, scomparve nel nulla.
Rimanemmo immersi nello specchio d’acqua per molto tempo, seppur a viverlo sembrò così poco, tanto che fummo in abbondante ritardo per il pranzo.
Nel pomeriggio prendemmo i cavalli, insieme ai miei cugini giungemmo alla foce del più grande immissario del lago.
Ci sedemmo nel prato, ascoltavano l’acqua, guardavano la cascata, ammiravano la natura; io guardavo dentro me stesso, mi ascoltavo e ammiravo la profondità del mio smarrimento. Quel momento durò poco poiché i miei occhi caddero sui suoi, di nuovo; accade continuamente e ci casco sempre, lei, ricambiò il mio sguardo e teneramente mi disse: «La smetti di fissarmi?»
Povero me che vengo ingannato così ripetutamente dagli dèi. Mi distesi e guardando il cielo mi persi di nuovo. Fin quando mio cugino il Grande, notando il mio distaccamento e volendo intervenire affinché ognuno di noi interagisse con gli altri mi chiese di raccontare una storia.
Mio cugino il Grande non era affatto un prepotente, era una persona amabilissima. Questi era stato in Scandinavia per una battaglia ed era tornato con animo e aspetto stravolti, estremamente più affascinanti. La nomina di rapsodo mi condusse direttamente al centro dell’attenzione e fu così che mi dilettai nella narrazione delle vicende di un triste e sfortunato marinaio:
«All’alba di un giorno non del tutto perfetto, di una vita lungi dall’essere considerata interessante, un ragazzo, di media altezza, di media simpatia, di media cultura, si trovò con idee non del tutto composte. Com’è normale per tutti, sembra ovvio, avere le idee scombinate, le sue lo erano non poco. Il sole iniziava ad accarezzare le foglioline più nascoste e le cortecce più dure, riscaldava tutto, tranne il suo freddo petto. Si alzò, preda di un impulso che non controllava bene e uscì di casa. Una lunga camminata lo condusse nella dorata spiaggia. Sciolse una barca dalla corda umida, vi salì e mediante la forza delle braccia la condusse lontano, più lontano possibile dalla riva. Si ritrovò a centinaia di metri dalla spiaggia e lì sarebbe voluto per sempre stare. Si distese e per un frangente di tempo rimase attento al faro che imponente si ergeva tra gli scogli. Immerso nel nulla dell’oceano, si addormentò. Lo volle il destino o lui stesso: il sonno fu pesante. I pesci da sotto guardavano la barca e la seguivano divertiti, le nuvole da sopra la osservavano e il cielo dall’alto rideva. Tutti concordi e prostrati alla volontà del destino. La barca andava veloce, cullata dalle onde e incanalata nella corrente che il fato crudele voleva seguisse. Il ragazzo si svegliò, com’è prevedibile, nel bel mezzo del mare aperto, non appena il sole si fece tanto cocente da bruciargli il viso e il petto. Si mise a sedere con il presentimento di essere in grave pericolo. Si voltò prima a destra, poi a sinistra, impallidì, perse quel rosso colorito appena donatogli dal sole. V’era il nulla attorno a lui. I pensieri più brutti, la morte, l’oblio, ogni singola cosa che gli passasse per la mente era grave e dolorosa, ma non tanto dolorosa quanto il nulla che lo circondava. Eppure, anche il nulla attorno a lui era meno pericoloso di ciò che gli veniva incontro. L’acqua in poco tempo si alzò in colonne altissime, tre volte il faro, a suo parere. La barca finì per rovesciarsi e lui cadde tra quelle onde nel mezzo del freddo e pericoloso oceano. Si scontrò con il legno della barca e provò ad aggrapparvisi con tutte le proprie forze. Cosa aveva fatto lui per meritarsi tanta sfortuna? C’è, si dice, una connessione tra gli avvenimenti che non possiamo controllare e tra quelli che invece possiamo controllare. Per questo un’azione maligna, fatta di proposito si crede che possa generare situazione davvero negative incontrollabili.»
Fu qui che mi dovetti fermare e tornammo accompagnati dal chiarore della luna verso il castello.
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I RICORDI DI UN PRINCIPE (2) è un racconto di Sebastiano Ferla