IL BAMBINO DI SABBIA di Angela Andreozzi
genere: FORMAZIONE
A mia sorella Myriam.
Alle persone che, pur nella sofferenza, amano la vita.
Al tramonto iniziava a far capolino fra la sabbia, un bellissimo bambino dagli occhi castani e dalla pelle candida come la neve.
I capelli un po’ lunghi e mal curati, lasciavano intuire che forse mai nessuno avesse pensato di tagliarli. Erano di un castano chiaro e, alla luce del tramonto, diventavano quasi di un biondo brillante.
Era talmente bello che, seppur ricoperto di sabbia, la gente lo guardava incantata. Avrà avuto più o meno tre anni.
Spesso compariva subito dopo il tramonto, sgattaiolava fra le onde del mare e si mescolava fra la gente.
Era molto socievole e tutti su quella spiaggia sapevano della sua presenza.
Nessuno però si era mai chiesto chi fosse e, sotto quale ombrellone della spiaggia stessero i suoi genitori.
Parlava sempre con tutti soprattutto con i bambini. Aveva una voglia matta di compagnia. Si avvicinava, li guardava, prendeva i loro attrezzi e con perizia iniziava a costruire castelli. Si guardava bene dall’avvicinarsi al bagnasciuga dando l’impressione di essere terrorizzato dall’acqua ma solo lui conosceva il suo segreto. Rideva. Chiacchierava e, quando tardava ad arrivare, la sua assenza la notavano tutti. Era come se qualcosa di magico e misterioso allo stesso tempo l’accompagnasse.
Ogni giorno era attento a tutto quello che accadeva intorno a lui. Desiderava essere come quei piccolini, avere qualcuno che lo abbracciasse, che lo coccolasse, che con amore gli dicesse cosa fare e cosa non fare.
Voleva capire…
Una donna di mare, vestita in malo modo, aveva fatto un incantesimo alla donna che aveva scambiato il suo cuore di mamma e i suoi sentimenti per godere almeno della vista di un bimbo che non sarebbe mai stato il suo. Rinunciando così a tutte le gioie della maternità.
Il desiderio era forte e, in cuor suo, pensava che qualunque sacrificio l’avrebbe poi ricompensata. Perché, si ripeteva: un figlio è come un’eredità, lo ricevi e lui non ti dimenticherà mai, ti riconoscerà ovunque.
“Mi ritroverà. Sarà lui a ritrovarmi. È sangue del mio sangue, ne sono certa e, quando l’abbraccerò, riuscirò a spezzare l’incantesimo.”
Sentiva un malessere dentro, un vuoto forte e nulla e nessuno riusciva a colmarlo.
“Mai arrendersi, mai abbattersi, sorridere sempre e lottare per vincere”, si ripeteva. Inspiegabilmente, stava bene solo quando, seduta in riva al mare guardava quel piccolino sempre sporco di sabbia, che giocava o si sedeva a guardare affascinato le coppie con i bambini e con la sua vocina cantava canzoni strane. Faceva domande. Rideva e scherzava con tutti. Li abbracciava.
Era un incanto!
Così, tornando a casa all’alba si poneva mille domande su quel bambino solitario.
“C’è qualcosa in lui. Chi è? Perché i suoi genitori non si vedono mai? Come mai improvvisamente scompare?”
Il rumore sordo delle onde, le procuravano mille pensieri. Battevano e si infrangevano sulla scogliera ed erano come un indovinello sordo la cui soluzione non riusciva a trovare. Battevano negli angoli della sua mente, ma lei cercava di non darvi peso. Era attratta da tutto ciò, anche se poi inspiegabilmente scacciava quei pensieri e si buttava a capofitto nelle sue faccende.
“Me ne tengo ai ripari” alle volte si diceva e così il suo cuore sbatteva su quella scogliera in un richiamo sordo. Ma non era proprio così. Non era facile.
La donna di mare, un tempo era stata una fata buona, ora malefica e potente. Conosceva molto bene i sentimenti delle persone e ancor di più i segreti della magia che esercitava ormai da anni. Lei stessa, un tempo, si era venduta per amore di un mortale, poi…
Era stata scacciata dal regno delle fate buone e, il mare generosamente l’aveva accolta, quando disperata aveva deciso di farla finita, lasciandosi andare da una scogliera. Sopravvivere le era stato difficile e, più il tempo passava più si affievoliva e si consumava il ricordo della sua umanità.
Quando aveva incontrato Greta sulla riva del mare, le aveva chiesto il perché delle sue lacrime, della sua disperazione e così, leggendo nei suoi pensieri e desideri più nascosti, le aveva proposto di avere un bambino in cambio del suo cuore. Le aveva promesso che, avrebbe potuto avere un bimbo ma lo avrebbe potuto solo guardare ogni giorno da lontano senza capire chi fosse e lui non avrebbe mai saputo della sua esistenza.
Greta aveva accettato senza pensarci un attimo e, durante una notte di luna piena, tutto aveva avuto inizio.
Le era concesso giocare con lui ed accarezzarlo solo in quelle notti, per il resto poteva sfiorarlo per un attimo prima che si dissolvesse fra le onde del mare all’alba.
Nella sua mente, in continuazione, sentiva una nenia inquietante che sapeva d’antico e di magico:
“Forse solo l’amore potrà un dì ridarti
il tuo cuore di mamma.
Ti guarderà, la mano ti tenderà e,
cosa succederà?
Illuminerà il tramonto,
ripopolerà il tuo mondo
perché finalmente,
ti troverà e capirà.
L’incantesimo spezzerà solo
se con forza riuscirà a parlarti.
Un bambino felice sarà
quando, mamma ti chiamerà,
guardandoti negli occhi si specchierà e,
ti riconoscerà”.
Quando aveva scoperto il tumore al seno, i medici non le avevano dato alcuna speranza.
” Non c’è nulla da fare, è troppo tardi” aveva detto il senologo guardando i referti.
“Mi dispiace, se anche riuscisse a farcela, ho seri dubbi che potrà avere un bambino”.
Non aveva avuto il coraggio di alzare lo sguardo da quelle maledette carte, mentre parlava.
Era la sua vita e tutto stava crollando,
Superato lo shock iniziale Greta scoprì di avere una forza che neppure immaginava. Era una donna dalla bellezza disarmante: intelligente, brillante, loquace, sensibile, empatica, altruista, gentile, accomodante…
Il suo modo di essere ispirava fiducia e tranquillità. In un attimo però si era sentita spezzata, ma subito era riuscita a ricucirsi.
Così rimise insieme i pezzi del suo corpo e del suo cuore.
Si ricompose, mentre le lacrime silenziose e pesanti sgorgavano segnando il suo viso accaldato.
Suo malgrado non era riuscita a fermarle, questa era la sua rabbia.
Memorizzò tutto, parola per parola, sottolineando, nella sua mente, le parole più dure:
”Cancro. È tardi. Non riuscirà a sconfiggerlo. Non potrà mai avere un figlio…”.
Inciampò per mesi in quelle parole che, come vetri rotti, distruggevano la sua anima spezzettandola in minuscoli frammenti di vita.
Il dolore le diede la forza per crescere e la fortificava, solo chi prova dolore riesce a comprendere gli altri. Spesso il suo silenzio non era capito e veniva interpretato da chi le stava intorno come un segno di debolezza. Non capivano che era la sua corazza. Continuò a lavorare anche più di prima, affogando nel lavoro per non sentire il dolore e la rabbia che l’attanagliavano. Lo faceva con amore, serietà, professionalità e dedizione, così non pensava.
Piangeva, di nascosto, pur sapendo che non era un segno di debolezza, poi indossava il suo sorriso migliore e ricominciava la sua battaglia.
“La vita va avanti”, si ripeteva “ho tanto da fare, delle promesse a cui tener fede”.
Era risoluta, non si sarebbe data al mondo senza scordarsi di sé stessa, senza combattere. “Mi interessa solo vivere. Posso iniziare la mia battaglia.”.
Era comprensiva e buona con i suoi inciampi, gentile col suo dolore, si amava e si era imposta di farcela.
“Parte tutto da te”, ripeteva risoluta, “Parte tutto da me”. “Il mio rancore e la mia rabbia li trasformerò in sorrisi”, attraverserò con passo sicuro sorretta dal mio Antonio tutti i giorni per complicati che siano. La vita siamo noi! Vincerò la mia battaglia”.
Questo si ripeteva in continuazione seduta in riva al mare.
Da un po’ di tempo era lì cha amava rifugiarsi, soprattutto al tramonto.
Sentiva la vita fuggire via e alzare lo sguardo verso l’orizzonte, perdersi fra le stelle sparpagliate nel cielo notturno per essere catturata dal loro bagliore riflesso fra le onde le permetteva di pensare e di ordinare così la sua disperazione che sembrava piano piano, acquetarsi.
Tutto le veniva alla mente le risate, le meravigliose emozioni che il suo Antonio da sempre le aveva fatto provare, la generosità dei suoi sorrisi e persino il freddo e il buio che da un po’ erano i padroni del suo cuore, però poi riusciva a stiparli soffocandoli in un angolino di cuore.
“Lì dovete stare”, si ripeteva. “Debbo concentrarmi sulla malattia e, vincere!”.
La radio era dura e i dolori forti e lancinanti, con la chemioterapia, poi, aveva toccato il fondo.
Una volta le era quasi venuta voglia di mollare ma fortunatamente era stato solo un attimo, la sua forza aveva avuto la meglio.
“Non voglio pochi mesi di vita, voglio la vita. Voglio il figlio che tanto desidero, voglio vederlo crescere, mi impegnerò. Ci riuscirò”.
A chi le stava intorno, ogni giorno, regalava gioia. Era come il sole che con la sua luce accecante caccia via le tenebre. Respirava profondamente per non piangere di fronte a tutte le battaglie che perdeva, alle delusioni, alle ferite che la malattia le incuteva. Forgiata, allo stesso tempo, da quei segni scoperti che ancora procuravano dolore.
Aveva deciso:
“Mai si sarebbe piegata. Il suo animo, il suo essere era pieno di passaggi segreti e solo lei ne conosceva l’uscita, nessuno sarebbe riuscito a penetrare tutti gli strati, a trovare le chiavi giuste”.
Antonio sì, lui sapeva, con la sua presenza come e cosa fare per aiutarla.
“Non voglio che la paura si impadronisca della mia vita.”
Nonostante tutto non si piegava.
Le cicatrici lasciate dal bisturi sulla sua pelle erano ferite che ancora le procuravano dolore ma, allo stesso tempo, le aveva trasformate nella sua forza, era proprio da lì che traeva la sua forza. I primi mesi furono duri, dolorosi, snervanti. Tante le battaglie perse, ma era risoluta l’avrebbe sconfitto quel male.
Doveva farcela.
Avrebbe cambiato il corso del suo destino, ne era più che certa. Avrebbe ucciso la morte!
Le sofferenze erano atroci, il dolore, la malattia, gli interventi, le continue delusioni… Non era più la stessa, aveva però deciso che avrebbe affrontato, a testa alta, la sua battaglia o come continuamente diceva Antonio, suo marito la “Nostra” battaglia. Non si sarebbe mai arresa anche nei momenti peggiori.
Quando le difficoltà sembravano insormontabili sfoggiava la sua arma migliore, un sorriso disarmante e così camuffava lacrime, dolore, terrore.
A chi le stava intorno non chiedeva nulla anche quando a causa dei farmaci, le sue gambe non riuscivano a sostenere il suo corpo magro e scheletrico ma tanto pesante. Lasciava tutti di stucco la sua testardaggine e la sua forza.
“Ce la farò” ripeteva fra sé e sé, e quando Antonio fra le lacrime le chiedeva di lasciarsi andare, rispondeva risoluta:” Guarirò, vedrai ce la farò!” e poi aggiungeva, prendendo fiato:” Tranquillo, avremo il nostro bambino! Tu stammi vicino. Resta accanto a me!”
I suoi splendidi capelli, un tempo ricci e castani, ormai erano solo un ricordo, le parrucche eccentriche e le bandane dai colori sgargianti del mare adornavano il suo viso, privo ormai di colore, lasciando intravedere quei tratti che una volta segnavano la sua bellezza. Le cicatrici, le ricordavano in ogni attimo quale sarebbe stato il suo destino ma lei era una guerriera e quel pantano che la stava risucchiando pian piano lo avrebbe risalito, ne era più che certa.
”Col tempo sbiadiranno, non le vedrò più, sembreranno dei graffi”.
Sapeva però che per sempre avrebbero segnato il suo cuore, il suo esistere e, che, per sempre, sarebbero state sue compagne di viaggio.
Così non avrebbe mai dimenticato. Non avrebbe mai perso la speranza; non avrebbe mai smesso di lottare, di credere in sé stessa ma, principalmente, mai e poi mai, avrebbe perso la sua sfrenata voglia di vivere.
Decise di passare la convalescenza dopo l’ultima operazione in un paesino di pescatori nell’Africa settentrionale. Lo aveva visitato durante uno dei suoi viaggi di lavoro e ne era rimasta affascinata. L’aria era buona, il clima pure.
Così, preparate le valigie era partita col suo Antonio che ormai non riusciva a negarle più nulla. “Non ci sono ospedali attrezzati se peggiori” le aveva detto preoccupato. “Tranquillo, tranquillo, non succederà.”, ripeteva lei sorridendogli.
Il tempo passava e il male devastava quello che un tempo era stato un corpo desiderabile ed armonioso.
Gli specchi le restituivano l’immagine di un’altra donna. Non era lei si ripeteva. Gonfia, senza capelli, senza ciglia. La sua pelle un tempo chiara e morbida ora aveva un colore strano.
Quel liquido che le avevano iniettato la stava distruggendo, in cambio di una rinascita le stava rubando tutte le energie.
I suoi occhi ieri ricchi di espressione ora apparivano diversi, privi di quel sorriso che le persone che l’amavano apprezzavano tanto. Ma lei non si perdeva d’animo e, continuava a lottare e a sorridere.
Aveva deciso di togliere tutti gli specchi da quella casa che affacciava direttamente sul mare, così almeno non avrebbe incontrato la lei nella quale si rifiutava di riconoscersi. Non aveva bisogno di guardarsi perché ormai anche la sua immagine le raccontava quello che era ovvio per tutti, ma non per lei.
Avrebbe superato quel momento, ne era certa.
C’era una piccola stradina che conduceva direttamente alla spiaggia ed era lì che, nelle notti insonni, quando il dolore incalzava, si rifugiava, non voleva svegliare Antonio e farlo preoccupare ulteriormente.
Guardava il mare che le dava, inspiegabilmente forza e, poi non era sola. Suoi compagni della notte: il cellulare, le cuffiette, la musica di Bob Marley ad alto volume ed una sua frase, che di tanto in tanto, si sentiva fra una canzone e l’altra:
” Se esprimi un desiderio è perché vedi cadere una stella, se vedi cadere una stella è perché stai guardando il cielo e se guardi il cielo è perché credi in qualcosa”.
Lei credeva fermamente che qualcosa di bello le sarebbe successo. Credeva che sarebbe guarita ed era sostenuta dalla preghiera, sua costante compagna di viaggio.
Alle volte non riusciva neppure a capire da dove le venisse tanta forza, quando delusa per i pochi progressi pensava che probabilmente non avrebbe avuto alcuno scampo e che non sarebbe riuscita a scalare quella montagna fatta solo di specchi.
Il bimbo dalla spiaggia spiava tutti gli altri bambini che si divertivano a costruire castelli di sabbia, indossavano salvagenti e si tuffavano felici fra le onde. Si avvicinava, giocava, chiacchierava, raccontava storie di mare che potevano essere fiabe e favole raccontate dai genitori per farlo addormentare. Si guardava bene dall’avvicinarsi al mare, sapeva cosa gli sarebbe successo, si sarebbe sciolto in mille particelle brillanti. Si chiedeva perché tutti fossero così felici e cosa potessero provare.
Quando abbracciava Marea, la donna che da sempre si era presa cura di lui, non sentiva nulla anzi la respingeva e piangeva pur non comprendendone il motivo. Si sentiva solo, gli mancava qualcosa ma, non sapeva bene cosa potesse essere.
La malefica donna che aveva preteso il cuore della sua mamma non sapeva però che un cuore di mamma ama sempre e in qualunque circostanza i suoi figli. Sempre e nonostante tutto. Non aveva previsto che il “cuore di una mamma” custodisce un amore immortale e che è capace di amarli più della sua stessa vita. Non sapeva che il cuore di una mamma è un abisso in fondo al quale trovi: perdono, gioia, felicità, amore e tutto solo per figli. Non aveva capito che, quello che passa attraverso il cuore di una mamma, rimane lì ed è un bagaglio che si porta sempre dentro e che, inspiegabilmente, lo si trasmette a chi si ama
La donna non essendo mai stata madre fortunatamente non capiva tutto ciò.
Unica concessione che era stata fatta a Greta era che dal tramonto all’alba in qualunque posto di mare si trovasse, avrebbe potuto vedere il piccolino, avrebbe provato qualcosa pur non sapendo cosa.
Insomma, non avrebbe saputo usare il suo cuore.
Solo il piccolo “bambino di sabbia” avrebbe potuto spezzare l’incantesimo chiamandola “mamma”, ma il bimbo non sapeva chi fosse per cui la malefica regina delle maree viveva tranquilla.
Ogni sera, la donna, attratta da un richiamo inspiegabile, andava sulla spiaggia e guardava il piccolo incantata. Viveva solo per l’attimo in cui lo sfiorava, durante le notti di luna piena.
All’alba, il bambino si avvicinava al bagnasciuga e, lasciandosi abbracciare dolcemente dalle onde si dissolveva nel nulla. Si lasciava trascinare via e si frantumava in mille particelle brillanti e luminose che si spargevano intorno, lasciando così perdere le sue tracce.
“Pochi attimi cosa sono?” pensava.
“Sto impazzendo.”
Poi triste ritornava a casa addormentandosi stremata.
“È un segno si ripeteva. Ma di cosa?”
Antonio era preoccupato “Sta cambiando” raccontava alle sorelle “Vive in un suo mondo e alle volte, ho difficoltà ad entrarvi”.
Ad ogni suo risveglio la coccolava, l’amava e lei sorrideva felice, non lasciandogli intuire il dolore che provava in ogni parte del suo corpo.
Ormai era un piccolo scricciolo che a fatica si muoveva per le strade sterrate del paesino. Custodiva i suoi sogni e le sue speranze imprigionandoli di giorno e, poi di notte li lasciava andare con la speranza di ritrovarli la notte seguente.
“È una donna dalla scorza dura”, un giorno così le aveva detto il giardiniere “ma è tenera dentro” aveva continuato, “Buon segno!”
Le giornate nel villaggio passavano tranquille, il tempo era bello e, spesso Greta andava in giro nei mercatini alla ricerca di cose strane.
Nel villaggio c’era una piccola chiesetta e, alle sue spalle un orfanotrofio, tanti bambini e gente anziana che li assisteva.
Strinse amicizia con una vecchia signora che conosceva tante storie e leggende, su quel villaggio.
Un giorno, senza alcun apparente motivo, le disse:” Mi hanno insegnato a tenere stretti i valori della vita, a non giudicare. Ho imparato a pregare con semplicità, ad aprire il mio cuore all’altro, ad ascoltare la voce che viene da dentro, ad essere umile, ad apprezzare le piccole cose, i piccoli gesti, ma principalmente, che vita è guardare avanti sorridendo, sempre e comunque.
Greta sconvolta annuiva, era proprio quello che pensava e ne fu sbalordita a sentirlo dire da una persona così semplice e umile, quasi le avesse letto dentro.
Decise di confidarsi.
Le raccontò la sua storia, della sua battaglia, della malattia che ormai stava per catturare tutto il suo corpo privandola dei suoi sogni, dei suoi desideri, delle cose che amava. L’anziana ascoltava in silenzio, annuiva, lasciava che si liberasse dei suoi pensieri in cambio le dava forza e serenità nei momenti difficili.
I suoi silenzi e le sue parole erano come una cura per il suo corpo e per la sua anima. Fissandola dritto negli occhi, un giorno le disse:” Il Signore affida il male a chi è forte, a chi sa affrontarlo. Sappi, il dolore non è solo del corpo è anche della mente. Lotta con fiducia e non perdere mai la direzione, quella dei tuoi sogni, dei tuoi desideri”.
“Posso sopportare, so lottare. Non lascerò che il cancro mi metta in ginocchio. Non permetterò che ostacoli i miei progetti, le mie gioie future, i miei sogni”.
La vecchia sorrise e l’abbracciò.
Un giorno, mentre faceva la doccia Greta svenne. Fu portata nel piccolo ospedale del villaggio che non era attrezzato per l’operazione che avrebbe dovuto aiutarla nel suo percorso.
Il giovane medico spiegò che non poteva rischiare il trasporto e che avrebbe tentato di aiutarla. Greta annuì, era un po’ stanca ma non avrebbe mollato.
Antonio, in silenzio, accettò con un cenno del capo. L’accompagnò fino alle porte della sala operatoria, la baciò come mai aveva fatto trasmettendole tutto il suo amore.
“Sto qui, quando uscirai mi troverai qui.”
Si sforzò di non piangere, ne avrebbe avuto tutto il tempo poi.
“Cosa faresti senza di me?” sussurrò con quel poco di voce che le era rimasta.
Era proprio così, la sua forza era incredibile. Gli sorrise e chiudendo gli occhi lo salutò: “A dopo amore mio. Ho ancora un po’ di forza per continuare a combattere”.
Fu l’ultima volta che gli sorrise prima di entrare in coma.
Un intero mese, giorno e notte, Antonio vegliò al suo letto. Niente e nessuno l’avrebbe allontanato, non poteva correre il rischio che Greta si svegliasse sola in quel letto d’ospedale. La paura costantemente l’attanagliava. Aveva paura di tutto e si dava forza perché la morte la sua Greta non l’avrebbe rapita.
Ora il mare di Greta era in tempesta, urlava e strepitava e lei con quelle poche forze che le erano rimaste lo percorreva sicura.
Restava a galla. Non si era persa, la voce di Antonio la guidava e, piano piano, agile e sicura risaliva la china.
Non aveva molte certezze e le insicurezze cercavano di sconfiggerla ma aveva dei punti fermi a cui potersi aggrappare, prendere fiato e ritrovare la lucidità del viaggio: Antonio e il regalo più bello che la vita le avrebbe fatto, il suo bambino.
E così, trovò lucidità e forza per risalire la china.
Era sola?
No, non lo era i suoi compagni di viaggio erano lì a sostenerla.
Allora e solo allora, riuscì a riprendersi la vita.
In una notte di luna piena, Greta riaprì gli occhi.
“Sono tornata”, Antonio lentamente le stringeva la mano, incredulo.
“Ho incontrato il nostro piccolino. Ha spezzato l’incantesimo. Mi ha chiamata mamma. Finalmente sarò mamma.”
“Non potevo perdermi in quel tunnel, non potevo vagare a vuoto, non potevo affogare. Ho seguito una voce, un richiamo che piano piano è diventato sempre più forte. Era il bimbo di sabbia, mi ha sfiorato il viso ed ha balbettato: “Mamma!”. Ho trovato la forza di tornare, mi hanno lasciata tornare.”
In quel momento, quelle parole sembrarono solo il frutto di un delirio, avevano poco senso ed Antonio non ci fece caso, tanta era la felicità di riaverla con lui.
Era tornata a lui, aveva attraversato il suo pantano personale ed era tornata.
Immediatamente la stanza si affollò di medici ed infermieri increduli per quello che stava accadendo. Un’infermiera non più giovane mandò un bacio all’immaginetta appesa a in un angolo nascosto della stanza.
“Non so spiegare” queste le parole del primario “La malattia, inspiegabilmente, sta regredendo. Ora deve trasferirla in un ospedale più attrezzato, farà tutti i controlli “.
Ritornarono, dopo qualche settimana a casa felici più che mai. Più passava il tempo più Greta ritornava quella di un tempo.
Era felice quando si alzava al mattino e, guardando fuori dal balcone, vedeva il mare, punto fermo nel turbinio delle sensazioni che aveva provato e che continuava a provare, le assaporava lentamente per non perderne l’essenza. Ora era piena di quella forza che da un po’ la sorreggeva.
Continuamente sentiva la voglia e la speranza di vivere farsi largo nel suo cuore. Era grata di poter ancora provare sensazioni che, in un passato non molto lontano, l’avevano fatta star bene e che ora la spingevano a far avverare quei sogni che aveva chiuso nel suo cuore. Era cresciuta tanto ed ora anche le piccole cose avevano acquistato il giusto valore.
Ridendo e sottovoce si ripeteva:
“Sono una donna saggia? Ora sì che so dare il giusto valore alle cose. Ho coraggio e forza. Tutto il dolore provato non lo dimenticherò mai anche se l’ho chiuso nel profondo della mia anima. Ora so veramente cosa significa VITA.”.
Ormai la serenità aveva preso il sopravvento sulla sofferenza barattando il giusto equilibrio.
Una regola primaria, si era imposta:” Gustare lentamente le gioie che, da un po’, la vita le regalava!”.
Da quell’incubo sono passati alcuni anni, Greta finalmente ha deciso di raccontare ad Antonio del suo sogno durante il coma e poi, dargli il suo regalo. Nessuna ricorrenza, ma quel giorno Antonio lo avrebbe ricordato per tutta la vita.
Prepara la cena curando tutti i particolari, incarta con cura e perizia il suo regalo, lo pone sul piatto del suo compagno di una vita e, pazientemente aspetta il suo ritorno a casa.
Antonio incredulo ascolta e gli mancano le forze ricordando le parole di Greta al risveglio in ospedale. Tanti pensieri gli frullano per la mente e, quando apre il suo regalo gli mancano le forze. Lacrime di gioia corrono sul suo viso e felici si abbracciano.
“Oggi mi specchio negli occhi sorridenti di mio figlio e, ritrovo qualcosa di quel bambino che, per un po’ di tempo, è vissuto nel mio cuore o nel mio immaginario.
“Grazie Signore per aver ascoltato le mie preghiere e per avermi accompagnata nella mia battaglia, per essermi stato vicino quando non sapevo chi e cosa fossi e Tu sei stato lì accanto a darmi forza e coraggio.”, penso mentre lo osservo giocare.
Spazzo via le lacrime e l’abbraccio forte.
“Mamma, non respiro!” mi strattona, ma poi immediatamente, si stringe a me ridendo.
Respiro il suo profumo prima di dargli un bacio e lasciarlo andare.
Resto in attesa ed è proprio quel tempo fuori dal tempo che riempie da un po’ le mie giornate.
È così che ho vinto la mia battaglia ed ho ritrovato il mio cuore: “un cuore di mamma”.
Ritornare alla “normalità” è stato il dono più bello.
Dopo il cancro la mia vita non è stata più la stessa e mai più lo sarà.
“Non è stato facile, ma ce l’ho fatta.“
La vita ti stupisce e tu stupisci lei, se non ti arrendi, se non molli perché sai e te l’ha insegnato proprio lei che andare avanti è l’unica cosa a cui non devi mai rinunciare.
IL BAMBINO DI SABBIA di Angela Andreozzi
genere: FORMAZIONE