IL CLERGYMAN di Stefano Giraldi Ceneda
Foto di pixabay
Febbraio pareva aver scaricato le munizioni e aveva consentito alla primavera in crescendo di aprirsi una breccia nel muro del gelo.
Nel paesaggio in scala di grigio, gli alberi, perlopiù ancora spogli, erano cesellati dalle folate salmastre e acerbe che annunciavano l’imminenza delle fioriture.
Lungo le coste, il clima non contempla i principi astronomici, e la primavera e l’estate, a dispetto del calendario, si espandono fino a spazzare via i residui dell’inverno e a posticipare il sopraggiungere dell’autunno.
Daniele si concesse dunque il lusso di abbandonare il suo attico borghese con un giubbetto di pelle e una camicia di cotone, confinando in un cassetto la sua inseparabile sciarpa di pashmina.
È l’unica cosa da fare.
È l’unica cosa giusta.
Era l’unica possibile, come ormai da un numero imprecisato di mesi.
Il resto – gli amici, la musica, gli studi irregolari – era marginale.
*****
La fontana, sgargiante e post-moderna, rifrangeva i raggi di sole che incombevano sulla piazza, cinta di salici, accerchiata da una serie ininterrotta di palazzine rinascimentali. Ingegneri e architetti avevano disposto che quella piazza fosse dotata di due accessi, paralleli e contigui, situati entrambi agli antipodi del punto cardinale dove era ubicata la chiesa. Secondo Daniele, diploma di liceo artistico e un talento fatto di carboncini e grafite, la finalità era obbligare il visitatore a contemplare la facciata romanica del luogo di culto e a ridursi in una condizione di minorità rispetto alla croce che la coronava.
Il ragazzo mosse verso la fontana e si fermò. Studiò il cancello di ferro battuto che segnava quel confine ritenuto invalicabile.
La brezza di mare densa di fragranze gli schiaffeggiò la pelle del viso, infervorando le guance mal rasate.
Respirò a pieni polmoni nel tentativo di catturare qualcosa.
Esitò.
Riprovò, ma il risultato non cambiava. Il petto si gonfiava incamerando ossigeno e profumi che l’olfatto non avrebbe percepito. Ciò nonostante, guadagnò coraggio e valicò il confine. Non sapeva se lo volesse fare, ma ora era persuaso che si trattasse di una cosa giusta. Quantomeno l’unica cosa possibile.
Non si guardò intorno per riesumare ricordi. Scorgere qualche vecchia conoscenza o qualche immutabile dettaglio sarebbe equivalso a indietreggiare fino all’istante esatto in cui l’incantesimo si era spezzato. Fino a quando era iniziato lo scioglimento del dramma.
Da uno dei saloni della parrocchia era intanto spuntata una figura in apparenza giovane.
Daniele si arrestò per inquadrarla meglio: uomo, venticinque anni circa, pettinatura impeccabile, fisico asciutto, un clergyman che sembrava su misura. Daniele non ne vedeva uno da tempo immemore, in particolare indosso a un sacerdote che non avesse superato la sessantina.
Continuò a soppesarne i movimenti, protetto dalla scocca di una monovolume in sosta.
La figura passeggiava con un’andatura spedita al centro del vasto cortile parrocchiale – anch’esso schermato su un lato dai salici – mulinando la testa tra i capannelli che si erano addensati tra il portico e le panchine di pietra serena.
I bambini, saettando sui sampietrini, la schivavano come se fosse un ostacolo.
Daniele non nutriva alcun dubbio: non aveva mai visto prima di allora quel ragazzo. Era dotato di una memoria da elefante: non dimenticava mai un volto né la maggioranza delle parole che, ascoltate e metabolizzate, giudicava meritevoli di essere conservate.
Attese ancora qualche minuto dietro la scocca; poi, constatando che l’andatura era ancora spedita e lo sguardo impazziva tra i presenti che chiacchieravano al sole, uscì allo scoperto.
La curiosità gli crebbe dentro.
Si avvicinò al ragazzo, ora a riposo con un piede sulla base di una delle panchine.
La pelle era ambrata, glabra, perfetta, così come perfetti erano i capelli sfumati, con la loro scriminatura laterale perpendicolare alla fronte e il loro taglio chirurgico.
Studiandone le fattezze, Daniele opinò che fosse un suo coetaneo. La sua curiosità ebbe un’impennata.
«Scusi!» esordì con un’impulsività per lui rara. «Ma lei è un prete?»
Avvampò subito per l’effetto stonato che la domanda, così strutturata, aveva prodotto: i fatti oggettivi rivelavano una realtà incontrovertibile.
Si attivò per ammortizzare la gaffe.
«Volevo dire se lei è già un sacerdote?» precisò.
«Sì!» rispose il ragazzo.
Un alone di imbarazzo gli sorprese la voce, che però recuperò presto il timbro argentino. Chinò lo sguardo verso il colletto bianco, alla romana, che gli strozzava la giugulare.
«Sono un seminarista» specificò quegli.
«Non l’avevo mai vista qui» fece Daniele, sempre più ipnotizzato dal clergyman, secondo solo alla tonaca nella graduatoria degli abiti ecclesiastici convenzionali, specie in un’epoca in cui persino i chierici conservatori optavano di buon grado per jeans, pullover e, al massimo, una croce di metallo appuntata sul petto. Alcune volte, nemmeno quella. Un look anonimo dentro e fuori le mura della canonica.
«Sono un seminarista in erba. Comunque, nemmeno io ti avevo mai visto» fece il seminarista, scorrendo la palma della mano destra su un ciuffo che non necessitava di alcun aggiustamento.
«Sì, in effetti, è da un bel po’ che non venivo…»
«In chiesa?»
Daniele fece un gesto di dissenso.
«Non siamo in chiesa» disse con tono monocorde. «Era un pezzo che non superavo quel cancello.»
Accennò con il mento al confine che, quantomeno per un pomeriggio, aveva cessato di essere invalicabile.
«E perché oggi lo hai fatto?»
Daniele abbassò la testa e il seminarista ne approfittò per scandagliare nuovamente i capannelli e il viavai di ragazzi e ragazze di ogni età che avevano acuito la vitalità di quella domenica. Il bilancio parziale della sua missione era fallimentare.
Daniele pensò di scegliere l’onestà per replicare. Non avrebbe ottenuto nessun vantaggio nell’adulterare la sua verità.
«Perché ho seguito una strada e la strada mi ha portato qui. Anche lei,» soggiunse «che mi ha detto di non essere di queste parti, si è ritrovato qui. A quanto pare in questo cortile si uniscono il sacro e il profano.»
Il seminarista si rilassò in un sorriso sbieco. Scacciò la riflessione che gli era balenata in testa e diede voce a un’obiezione sorgiva, che aveva bruciato le tappe per affiorare alle labbra:
«Oppure due diverse concezioni del sacro. Il sacro e il profano» spiegò «sono due concetti da accettare ma anche da arricchire. Le definizioni non ci dicono come qualcosa è, ma come è stato o potrebbe essere. I concetti creano le forme, a noi tocca riempirle di colori, con la nostra mente e le nostre emozioni.»
Daniele rimase interdetto. Non aveva ponderato il peso specifico della teoria, ma l’efficacia che ne traspariva lo calamitò.
Il seminarista, per evitare di rimanere invischiato nel pantano delle sue stesse parole, tese un braccio per porgere la mano:
«Piacere. Mi chiamo Alessio. Dammi pure del tu!»
Daniele ricambiò la stretta, si presentò a sua volta.
Ed entrambi, con involontaria sincronia, si accomodarono sulla panchina, mentre il cortile si affollava e di lei non si ravvisava traccia.
*****
«Non sono venuto qui per confessarmi» disse Daniele, dopo aver sottoposto il seminarista a un bombardamento di interrogativi. «Non mi appartengono gli inginocchiatoi, le penitenze e gli atti di dolore; sono qui solo perché ho seguito la strada.»
Daniele si pentì di ciò che aveva detto: spiccava come una excusatio non petita. Nessuno gli aveva domandato se fosse lì per confessarsi.
Alessio, che aveva subìto il terzo grado con nonchalance, si sistemò i capelli, ravvivando il ciuffo sopra la fronte. Sbirciò in direzione del portico allungando il collo per ampliare la panoramica. Poi, frustrato, si riaccomodò.
Alessio, senza guardare negli occhi Daniele, cercò di ricapitolare:
«Come se non fossi credente!»
«In effetti, non sono credente. Sono un convertito all’agnosticismo!»
«Che passa un pomeriggio così in un cortile parrocchiale invece che tampinare due belle chiappe.»
Daniele si voltò allibito.
Il seminarista corse subito ai ripari:
«Scusa la schiettezza, non volevo scandalizzarti.»
Si allentò il colletto e proseguì:
«Sei un agnostico che conosce inginocchiatoi, penitenze e atti di dolore. Da quanto tempo hai abiurato la tua fede?»
«Da un tempo più che sufficiente.»
Questo è relativismo puro. Quantifica.»
«Sarà un anno, all’incirca.»
«Perché sei qui?»
Alessio spiò l’andirivieni di adulti e bambini, che replicavano le movenze ormai consuete: i piccoli turbinavano tra i salici; gli adulti si baciavano sulle guance, stendevano abbracci, traspiravano quella stessa presunta pace sulla cui origine si sarebbero potute sprecare molteplici ipotesi.
Non registrò niente di interessante. Tornò su Daniele, i cui sospiri pazienti erano stati sostituiti da un respiro aritmico.
«Sono qui perché voglio ristabilire il contatto con quello che è successo proprio in questo posto.»
«Con il tuo passato, insomma.»
L’impatto con quel termine contrariò Daniele.
«No, non con il passato» si oppose, senza mediare la conclusione che aveva tratto Alessio. «Con una condizione sospesa, che deve solo sbloccarsi.»
Alessio non ebbe modo di accettare l’invito che il suo intelletto stava formalizzando poiché Daniele si affrettò ad argomentare:
«Ho sentito di dover tornare in questo posto, e un motivo ci sarà. Il pensiero di poter tornare qui mi ha fatto star bene. Ho valicato il confine.»
Rimase per qualche secondo con le labbra dischiuse, alla ricerca della sponda retorica migliore per raddrizzare quella confessione in via di sbandamento.
Non ci fu prosecuzione.
«E ora come stai?» chiese Alessio, cosciente che urgesse spezzare quel silenzio penoso.
Daniele fece un cenno impercettibile della testa, un compromesso tra un frettoloso diniego e un arrendevole glissare sulla questione. Livellò le narici con due polpastrelli e inspirò quasi dovesse prepararsi a un’apnea. Dopodiché riprese a parlare con voce trasognata, quasi dialogasse con una platea invisibile:
«So che il tema non piace affatto ai religiosi, ma non esistono analoghi concetti teologici, almeno credo.»
Fece una pausa, prima di rivolgersi al seminarista:
«Che cosa pensi del trauma?»
Alessio lo fissò con aria concentrata e, insieme, perplessa. Attese un’esplicitazione che gli giunse poco più tardi.
«Non parlarmi da quasi prete. Non voglio che mi si propini Dio a tutti i costi. Un giorno, in televisione, vidi un parroco che incoraggiava una donna che aveva perso un figlio con frasi del tipo ‘Dio ti ama’, ‘questa è la volontà divina’, ‘abbi fede e sii forte’. Dimmi tu come si possono risolvere i problemi con queste frasi fatte!» esclamò Daniele allargando le braccia, impotente.
«Frasi fatte. Io, almeno, le classifico così. Magari per chi è abituato a pregare sono effettivamente di incoraggiamento e servono a qualcosa. Mi dispiace, ma io sono di altro avviso!» manifestò Alessio.
Il seminarista incontrò una marcata difficoltà nel collegare il concetto di trauma, da dovunque lo si osservasse, alla tesi di Daniele, una sintesi che coniugava praticismo e razionalismo in percentuali variabili. Non penò per ricercarla. La perplessità critica di Daniele si accoppiava con la sua e questo bastava per consentirgli di mettere in risalto le eventuali discrepanze logiche.
«Infatti, i problemi non si risolvono così» rispose Alessio, meno combattuto di quanto avrebbe mai immaginato. «Ma posso garantirti che ogni cambiamento parte dalla parola. È una terapia. Non si tratta di formule magiche, ma di una base fondamentale per l’approccio con quelle situazioni traumatizzanti.»
L’aveva detto. Quell’aggettivo insidioso era sgusciato a tradimento, oleoso, dalla sua bocca autonoma.
«Non mi aspettavo una reazione del genere da un quasi prete» disse Daniele.
Alessio rivolse lo sguardo al suo clergyman.
«Ci sono filosofi, psicologi, psichiatri, letterati con questo vestito addosso» esclamò stazzonando la giacca che portava. «Concentrati sul disotto!»
«Non posso sapere a quale categoria appartieni!» osservò Daniele, con calma olimpica.
«Ottimo. Non giudicare. Vai avanti e non mi inventare storie sul fatto che non ti va di parlarne, perché non sono stato io ad avvicinarti. Punto secondo, hai attaccato tu bottone. Punto terzo, non volevi confessarti e invece lo stai facendo da un pezzo. Punto quarto, sei tornato dove sei rimasto traumatizzato. Mi sbaglio? Fai un po’ tu…»
Daniele, d’acchito, si irrigidì.
Non aveva mai associato il termine “trauma” alla sua esperienza intima. Soltanto le congetture scabre del seminarista avevano avuto l’ardire di farlo.
Quel dibattimento tra sconosciuti era a una svolta. La rottura sembrava inevitabile. Ormai prossima a debordare con brusca veemenza dalle loro labbra, provvisoriamente mute.
Ma la svolta, anziché la rottura, segnò una comunione.
«Va bene. Lo hai voluto tu» concesse Daniele. «Tutto è iniziato con gli odori!»
Si fermò per assistere all’effetto che l’incipit scaturiva. Il rimando all’olfatto, fino ad allora, aveva sempre destabilizzato l’interlocutore di turno.
Benché fosse un unico e compatto fremito, Alessio tacque. La sola reazione fu un innalzamento quasi impercettibile del livello di concentrazione.
«Quando sono entrato in questo cortile con convinzione, a differenza delle occasioni che sarebbero seguite, quando ancora per me questo posto significava qualcosa di concreto, gli odori quasi mi facevano male, mi ferivano le narici» continuò Daniele. «Ricordo che ce n’erano di ogni tipo. Li sentivo intensi come nell’infanzia, promettenti come nell’adolescenza. E li sentii anche quel giorno. Vuoi sapere perché ti dico queste cose sugli odori?»
Alessio annuì.
«Perché ora non li sento più con quella stessa forza. Ciò che mi passa sotto il naso ora è una scia in dissolvenza.»
«Un’anomalia delle vie respiratorie, una lesione del nervo olfattivo?»
«Non ho mai interpellato nessuno, ma per me non è niente di organico.»
«Un disturbo funzionale, dici.»
Daniele scrollò le spalle:
«Magari è solo allergia. Ne ho sempre sofferto. È chiaro che questo posto non mi aiuta.»
Alessio, gli occhi accesi, cercò di indagare:
«Che vuol dire?»
«Non ne sono sicuro, ma l’ultima volta che ho sentito gli odori nella loro intensità ero proprio qui.»
«Quanto tempo fa hai iniziato ad avere difficoltà nel percepirli?»
«Non ho mai contato i mesi.»
«Prova a farlo.»
«Un anno, all’incirca.»
Alessio annuì, lo sguardo lontano, ben oltre i salici del cortile, ben oltre il portico, ben oltre i capannelli che ora non distingueva più, se non come una massa sfuocata sul fondo del campo visivo.
Bisbigliò assorto una parola e subito se ne pentì.
Daniele inarcò la schiena.
«Che cosa hai detto?»
«Niente.»
«No, hai detto qualcosa e mi suona familiare.»
Alessio fu costretto ad accondiscendere alla sua insistenza. Non ebbe la prontezza di inventarsi un termine assonante.
«Iposmia» mormorò. «Potrebbe essere questo il nome del disturbo. Esistono anche l’anosmia e la disosmia» completò, cedendo alle lusinghe sotterranee dell’intelletto. «Anosmia, disosmia, iposmia: tre sfumature di un disturbo; o, forse, tre disturbi e una matrice in comune.»
Daniele, turbato, rilevò il passo falso che aveva commesso il seminarista.
«Come fai a essere così informato al riguardo?»
«Ho avuto a che fare con una donna che ne è stata colpita. Ecco tutto.»
«E da quale dei tre?»
«Dalla disosmia.»
«Ed è guarita?»
«Non lo so: ho perso i contatti. Mi dici che cosa è successo circa un anno fa?»
Daniele ragionava sul da farsi. Era preda di una riluttanza prossima alla contrarietà, ora che Alessio aveva sfoderato una conoscenza medica settoriale senza fornire motivazioni plausibili.
Ma la storia che gli si chiedeva di raccontare era la sua, l’unica che amasse raccontare, quella che era stata assorbita dalla pelle e si era mescolata con il sangue.
Avevo preparato il vestito, avevo strutturato la gestualità, aveva costruito le frasi, avevo selezionato il profumo…
Si schiarì la voce.
«Costumi, mimica, parole, odori. Era stato preparato tutto. Sono un attore di teatro, ho sfruttato anni di recitazione, l’esperienza del palco» dichiarò.
«E a quale scopo?»
«Ma per la cosa più ovvia, più naturale» rise nervoso. «Perché l’amore facesse il suo corso. Dovevo soltanto aiutare il destino a compiersi. Era già scritto – io pensavo questo, allora – e toccava a me impegnarmi per onorare quel disegno buono che aveva eletto un uomo e una donna. Tu tireresti in ballo Dio, ma io parlo di destino.»
«Quindi, fammi capire, hai curato il look, hai ideato la battute, senza tralasciare il luogo…»
«No, del luogo non mi sono occupato» obiettò Daniele. «Il luogo era nell’ordine prestabilito delle cose. Era inevitabile che l’azione accadesse lì.»
«Ok!» Alessio tentò di organizzare con un minimo di criterio le tessere sparse di quel mosaico. «Hai allestito uno spettacolo. C’è un luogo, cioè un’ambientazione; c’è almeno un costume; c’è un abbozzo di dialoghi; c’è un protagonista. Mancano il canovaccio, l’intreccio delle azioni, oltreché gli altri personaggi.»
«Non credere che i personaggi fossero molti. Escluse le comparse, direi tre.»
«Cosa recitava il copione?»
«Che i due protagonisti, l’uomo e la donna, rispettassero le premesse, cioè gli antefatti, che ci fosse un nesso di situazione tra il prima e il poi. Insomma, lui avrebbe dovuto dire a lei: ‘Mi piaci e non ho mai avuto il coraggio di dirtelo’.»
«E lei come si sarebbe dovuta comportare?» chiese Alessio, che aveva deciso di stare al gioco, assecondando la disinvolta propensione di Daniele di esporre una vicenda evidentemente vissuta in maniera diretta attraverso il filtro protettivo della terza persona. Non gli era sfuggita neppure la volontà di tacere, almeno fino a quel momento, la singolarità degli antefatti e, inoltre, il nome di quella misteriosa ‘lei’.
«Si scattano una foto, qui, tra i salici, con il portico che fa da sfondo. Ci sono un sole che abbaglia e un’infinità di fragranze. Ogni dettaglio contribuisce a determinare una festa. È un assaggio dolce della commedia. E invece la commedia si rivela un dramma. La vita è un dramma, e l’ho capito tardi, inventata da chi poi non coinvolge nessuno nella lettura degli eventi. Non è un’improvvisazione a discrezione degli attori, una recitazione a soggetto. Non c’è niente di vero. Il regista è un burattinaio e la pièce sbalordisce gli attori più che il pubblico. Il protagonista maschile, scattata la foto, ha la gola secca. Si catapulta nel bar dell’oratorio, dicendo ‘torno subito’ e corre verso il frigobar per prendere una lattina di aranciata. Di corsa, ripeto, perché il pathos non svanisca. Ma qualcosa va storto.»
«Un colpo di scena?»
«Direi di no. Il colpo di scena, se c’è, consiste nella mancata comprensione della natura della protagonista femminile da parte del protagonista maschile.»
Alessio sfilò dal taschino della giacca un pacchetto di sigarette e ne accese una.
Daniele ebbe un lampo di sconcerto. Ma era così addentro alla narrazione che sorvolò sull’incidenza dei tabagisti all’interno del mondo clericale.
«Un porta spiccioli che cade sulle mattonelle, una moneta da un euro che rotola sotto il bancone. Lui si china per recuperarla; quindi, la linguetta strappata, il sorso timoroso per l’effervescenza esplosiva e la temperatura ghiacciata. Insomma, una serrata sequenza di imprevisti che, sommati, causano l’irrimediabile. Lui torna nel cortile ma non trova più lei. L’azione continua con una ricerca disperata, forsennata, con i profumi primaverili che offendono l’olfatto, entrano a fiotti nelle narici, bruciano, ustionano. Sono la misura dell’avvio dello scioglimento. Lui perlustra la zona: dal campo da calcio al parcheggio delle auto e dei motorini, dai garage alla legnaia, alle stanze immense e sgombre dell’oratorio, fino al tabernacolo incastrato in un angolo ombroso.»
La voce di Alessio era appesa a un filo:
«Cosa hai visto laggiù?»
La terza persona era tramutata in seconda; ma Daniele non se ne accorse: badò al sodo. All’epoca dei fatti, quando era capitato nelle vicinanze di quell’angolo ombroso, lo stupore aveva gelato il suo corpo.
Non è vero.
Sto immaginando.
Non è vero.
E invece era la realtà. E Daniele non poteva opporsi.
Aveva inveito contro il cielo di febbraio, ribattezzandolo seduta stante “destino”.
Quel cielo che lo aveva eletto si stava facendo beffe di lui.
Le aspettative si sgretolano.
Il futuro probabile si disintegra.
L’incantesimo si spezza.
Poi aveva rinnegato l’accettazione di quella fine e del suo corollario distruttivo.
Daniele deglutì combattendo contro l’arsura della gola; continuava a non realizzare che Alessio lo avesse deviato dalla terza persona in cui, minuti addietro, lo aveva invece involontariamente instradato.
«Si stava baciando. Lei, la catechista perbenista, mai un briciolo di trucco nei feriali, mai una gonna troppo corta o una scollatura. La catechista si stava dando daffare con…»
«Con chi?»
Nello sguardo di Daniele baluginava una luce fredda e ambigua.
Alessio era un fascio di nervi: mentre attendeva che la sua domanda fosse soddisfatta, spiò al di sotto delle volte del portico e tra gli ombrelli dei salici. Focalizzò una delle stanze che prospettavano sul cortile: stipiti di marmo, porte di massello, volti beati incastonati nelle lunette.
Terminata la deludente e furtiva ricognizione visiva, gli occhi di Alessio si incontrarono con quelli di Daniele, ridotti a due fessure, incandescenti di un lapidario brillio.
Anch’essi erano inchiodati alla soglia di quella stanza.
«Volevo arrivare proprio là» disse, la voce sommessa in una pronuncia compitata.
Prima che Alessio potesse capire il senso dell’allusione, Daniele scattò in piedi.
«Torno subito» fece. Poi, sopraffatto da un ripensamento, frenò la marcia e si girò verso il seminarista. «Sempre che non sia cambiato niente da allora.»
Fece una pausa, e, per la prima volta in quel pomeriggio, le sue labbra si distesero morbide tra le guance.
Alessio giurò a sé stesso che non avrebbe mai dimenticato quel sorriso. Ne aveva visti di più armoniosi: giovani donne, pelle di giada, incanto nello sguardo. Ma forse fu proprio per la bizzarria della situazione che non riuscì a ignorarlo. Ne rimase colpito perché quel sorriso maschile era inaspettato.
Era un dono per il suo spirito. Era un messaggio da decifrare.
Il gorgo della memoria lo risucchiò insieme al suo “qui e ora”, insieme al motivo per cui si trovava a ridosso di una chiesa.
«Se non è cambiato niente da allora» fece Daniele. «E io tra poco lo verificherò, significa che tutto potrà ancora cambiare.»
Le sue labbra continuavano a distendersi, mentre nello sguardo il brillio era stato sostituito da un riverbero accecante. Limpido. Crudo. Pericoloso.
Daniele ricomparve dopo alcuni minuti, l’aria ora trionfante ora assente. In mano teneva qualcosa di leggero e sottile, di dimensioni ridotte. Con gravità malsicura allungò ad Alessio ciò che aveva l’aspetto di un cartoncino.
«C’era» disse. «Come vedi.»
Il seminarista accettò l’oggetto, lo tastò appena, con evidente disagio. Era una foto.
«Ecco l’ultimo memento insieme» fece Daniele. Rettificò il sostantivo per invalidare il lapsus verbale. Ma ormai era tardi. «Volevo dire momento.»
«E se invece avessi voluto dire proprio ‘memento’?» Le mani erano ali di cera sui bordi della stampa, anonima perché ancora capovolta. La voce raschiava la gola arida.
«Ci può stare» acconsentì Daniele. Quindi, insinuante e mellifluo:
«Perché non la guardi?»
Perché non la guardi?
Perché non la guardi?
Perché non la guardi?
«Un attimo» disse Alessio, determinato, mentre quella sollecitazione ossessiva gli rimbalzava tra le pareti della testa. Lo stomaco ballava sull’esofago ed era il biglietto da visita di un’intuizione fulminea.
È fulminante.
Disse:
«Prima dimmi con chi si stava baciando quella ragazza. Io do a te e tu a me…»
«Do ut des. Un seminarista dovrebbe dirlo alla latina.»
Daniele sorrise solo con lo sguardo e proseguì con uno sforzo di volontà:
«Non l’ho visto in faccia. Quando ho notato lei, in atteggiamento indiscutibile, tra le fronde di un platano e il tabernacolo con i ceri accesi, mi sono fermato. Perché farmi del male?»
Se adesso, a distanza di più di undici mesi, era riuscito a valicare quel confine, era arduo non arguire la sua propensione a procurarsi del male gratuito: benché blanda, una forma di autolesionismo tanto psichico quanto fisico.
«Ora rivolta la foto!»
Alessio obbedì: guardò quindi il viso angelico, la pelle di porcellana, i capelli biondo cenere, le pupille smeraldine, la bocca carnosa. Un angelo terrestre che custodiva un’anima selvaggia. Al suo fianco, gli altri personaggi descritti da Daniele, a cominciare da lui stesso. Che, appeso alle labbra, aveva un sorriso identico a quello mostrato ad Alessio poco prima.
«Bella fregatura, vero?» fece Daniele, di fronte allo sconcerto che aveva paralizzato le fattezze del seminarista.
«A quando risale la foto?»
«Non mi ricordo.»
«A giudicare dall’abbigliamento, doveva essere primavera, ma non avanzata.»
Alessio era sicuro che nella memoria del suo interlocutore non si fosse mai cancellato neppure l’orario. Era impossibile che non rammentasse il giorno. Pretese l’informazione. «Quando, Daniele?»
«Era la domenica delle Palme.»
«Le Palme!» il seminarista increspò la fronte. «Non dovrebbe mancare molto.»
Daniele si accigliò, preda di un disorientamento transitorio.
Dopo aver fatto un frettoloso calcolo mentale, Alessio provò a smorzare il precedente difetto di approssimazione:
«Mancano trenta giorni!»
Una pausa interminabile per poi aggiungere, volitivo:
«C’è una cosa che devi fare.»
Daniele taceva, intento, impassibile.
Mentre, Alessio, scomparsa la lucida padronanza di sé, fu sommerso dalle schegge che la memoria aveva sparpagliato senza preavviso: le voci baritonali amplificate dai microfoni gracchianti; i muri giallo canarino; il sudore della concentrazione; lo sbadiglio della noia; le penne a sfera che segnalano i paragrafi nodali; l’aroma fruttato dei capelli lunghi, sciolti sui banchi.
Dopo il caos delle reminiscenze, l’intelletto vagliò le informazioni fino a poterle secernere:
«Torna qui, ma non in un giorno qualsiasi. Ti dovrai confrontare con il tuo passato accettando il presente. Dovrai capirne le differenze. Il vero passato e il vero presente, l’uno davanti all’altro e davanti entrambi a un giudice imparziale.»
Daniele era in fibrillazione. Se qualcuno avesse accostato un orecchio alla sua cassa toracica, avrebbe avvertito le percosse di un cuore in tumulto.
«Devi capire cosa è rimasto, cosa c’è ancora e cosa se n’è andato per sempre. Deduco che sia cambiato molto da questa foto in poi, ma è come se tu lo avessi rifiutato perché non ti soddisfaceva.»
Il seminarista si arrestò davanti al respiro affannoso di Daniele, alle sue dita a uncino sui jeans, alle sue spente narici dilatate. Non avrebbe potuto, né voluto, infierire, sostenendo che Daniele, deluso e amareggiato dal corso degli eventi, fosse tornato non nel luogo ma alla foto; che fosse tornato a quel momento cristallizzato: un memento non tanto della sua sconfitta personale veicolata dal destino quanto del presupposto della sua vittoria ancora in embrione. Non si trattava neppure di una rivincita. Daniele non aveva coscienza della sconfitta subìta. Intorno a una speranza gracile aveva costruito la storia del suo presente in stand-by.
Alessio comprese di essere stato ragionevole nel soffocare le sue teorizzazioni. Il clergyman che indossava non gli conferiva nessun diritto di pungolare l’animo fragile di Daniele che, in una mescolanza di ripudio e attrazione, lo attendeva con occhi remoti e smarriti. Le sue mani, ora a pugno, torturavano le gambe con una spola meccanica dalle ginocchia al bacino.
Il seminarista ebbe un moto di compassione: pietà umana e tenerezza. Non dedicava più attenzioni al suo ciuffo inappuntabile, né al flusso e riflusso della folla presso il portico. Il perché della sua presenza in quel cortile era ormai impercettibile.
«Devi tornare per la domenica delle Palme» ribadì. «Semplicemente per… per…»
Rimase in bilico sui puntini di sospensione. Gli stessi puntini ai quali era agganciato pure Daniele, prigioniero di un limbo sempre più opprimente.
«Per?»
«Per dimostrare a te stesso che da quella foto un anno è andato. La foto non è l’inizio di un nuovo futuro ma la fine di un passato.»
«Un passato che ha ancora qualcosa da dire» controbatté Daniele. Nella sua reazione, però, traluceva una segreta arrendevolezza.
«Certo!»
La convalida di Alessio sposava la compassione con la convinzione cristallina di aver parlato troppo. Gli sorrise. E mentre i bambini vorticavano con i volti travisati e i corpi avvolti in colori eccentrici, si lisciò i capelli.
Si era fatto tardi. Il sole di febbraio era pronto a eclissarsi e la natura dimostrava che l’inverno imperava ancora.
«È stato un piacere conoscerti» fece Alessio alzandosi dalla panchina.
Il guizzo atletico con cui aveva staccato le natiche dalla seduta denunciava un’agilità inusitata in un ragazzo che aveva scorto in rosari e lodi mattutine la sua missione.
Si congedò con un grigio, asettico:
«Devo andare!»
Anche Daniele si alzò, lento e svigorito. Accusava già la distanza da quel coetaneo: il suo saluto equivaleva a un abbandono prematuro e ingrato.
«La rimetto a posto, questa» soggiunse Alessio, agitando la foto. «E i miei migliori auguri per il tuo domani.» Non andò oltre. La consapevolezza di aver ecceduto nel pizzicare le corde dell’emotività di quel ragazzo e di aver miseramente fallito nell’impresa che, alla vigilia, aveva impiantato, lo indusse a defilarsi.
Mentre le giovani catechiste, stanche di sorvegliare i bambini, tra le ombre tiepide di sole, si godevano gli scampoli del pomeriggio, Daniele era presso la panchina, fermo, in piedi, assediato da uno sciame di stelle filanti. Incapace di vedere e di sentire.
Imboccò infine la via di casa.
I pensieri che turbinavano nella sua mente non erano più a fuoco fisso, bensì sfalsati e pluricentrici. Il consiglio ricevuto si riaffacciò alla ragione, prima che questa deviasse verso la periferia, per scansare conclusioni scomode. Dove avrebbe fatto ritorno il seminarista? Quel ragazzo che snocciolava termini medici anziché parafrasare parabole evangeliche o annunciare l’avvento del nuovo regno; oppure, come sarebbe stato umanamente condivisibile, mostrare le paure di chi abbia scelto di accettare con fede i progetti imperscrutabili di Dio.
Quel ragazzo che adesso, mentre Daniele si dirigeva al suo attico borghese, ricomparve sulla soglia della sala sul cui muro sfogliato non aveva appeso la foto.
Fece l’ultimo giro d’orizzonte tra i salici e il portico, ma l’orizzonte restituì allo sguardo soltanto una magra e grama conferma.
Pure lui se ne andò, alle spalle uno strepitio omogeneo e generalizzato, le catechiste sempre depotenziate di un’unità e il sospetto incombente di essere rimasto impantanato, suo malgrado, dove la realtà aveva superato la fantasia.
*****
Trascorsi trenta giorni esatti, Daniele giunse puntuale all’appuntamento con il suo presente.
Si era imposto di credere alle parole del seminarista. Le logoranti riflessioni se accettare o declinare l’invito che Alessio gli aveva proposto erano approdate, non senza ostacoli, a un esito utile.
Daniele aveva dovuto esercitare un’eccezionale violenza su sé stesso per minare il suo incancrenito modus pensandi, consentendo a quell’apparentemente scialbo consiglio esortativo di accedere alla sua dimensione privata.
Le buone intenzioni, teoricamente oneste, si inceppavano tuttavia nel passaggio dalla potenza all’atto.
Ma per Daniele il presente continuava a nutrirsi della linfa inesauribile di un sorriso immortalato dall’obiettivo di una fotocamera compatta. Un sorriso che quel seminarista impudente e indelicato aveva ricondotto a una “speranza gracile”.
Era quasi mezzogiorno e la primavera continuava a regalare assaggi di sé tra le gemme sui rami e le persiane dischiuse.
Le mimose, a ondate sporadiche nell’aria leggera, erano appassite in anticipo.
La chiesa stava vuotandosi. La folla fedele – dallo zoccolo duro dei praticanti che santificano tutte le feste a chi osserva solo il Natale, la Pasqua fiorita e il triduo ultima cena-morte-resurrezione – affluì nella piazza. Un tappeto di rametti dalle sfumature argentee si adagiava nei pressi della fontana. La Domenica delle Palme con il suo simbolo di pace e di unità stava aprendo ufficialmente i sette giorni che sostanziano il kérygma cristiano. La speranza, mai gracile per Daniele, era adesso prossima a una verifica che non aveva precedenti e che non avrebbe avuto repliche.
Il ragazzo si accorse in un attimo che ognuno dei tentativi operati nell’ultimo anno di sfidare il confine invalicabile si era concluso con un niente di fatto: non avrebbe potuto essere altrimenti. Essi, singolarmente, erano privi di validità. Soltanto se integrati in una visione d’insieme, organica, che però Daniele non contemplava, acquistavano un senso, un crisma, una finalità.
Con la sua prospettiva ad angolo acuto, Daniele non era stato in grado di captare la funzione di quei deludenti giri a vuoto. Essi costituivano una tappa intermedia e a lui questo era sfuggito.
Come gli sfuggiva che cosa lo avesse indotto a raggiungere quel luogo sacro in quella data ricorrenza.
Formalmente, un consiglio formulato da un coetaneo con un taglio di capelli perfetto e un clergyman sul fisico modellato dall’allenamento anaerobico; un consiglio che aveva avuto la capacità di instillargli una fiducia oscura nell’avvento di un evento ai limiti del miracoloso.
In realtà si trovava là in nome di una foto vecchia di un anno, incagliato in un sorriso femminile di carta lucida, monodimensionale, scevro di impulsi nervosi, che il tempo aveva forse degenerato in una risata sguaiata oppure annacquato in una caricatura di allegria convenzionale.
Nell’arco di un’ora la piazza si spopolò.
Svanirono così le famiglie da pubblicità progresso: un esercito di miti pacifisti part-time, i rametti di ulivo esibiti come un trofeo, spronato da una sparuta rappresentanza di soldati di ventura con la spada a forma di palma.
Il silenzio che cuciva la mattina al meriggio rallentava le lancette e abbatteva i margini della piazza.
Daniele si scostò dalla fontana per dirigersi verso il cortile della canonica.
Mentre camminava, il messaggio del seminarista assediava la sua mente. Tutto ciò rasentava il ridicolo e il beffardo: se poche ore prima aveva bruciato quaranta minuti davanti allo specchio e altrettanti davanti all’armadio spalancato in funzione del programma in fieri, significava che la suasiva di quelle parole era lampante.
Eppure, solo quando aveva focalizzato la porta della sala, quelle stesse parole erano emerse fino alla memoria. E alla coscienza.
Daniele costeggiò i salici e le panchine, in una nuvola trasparente di esalazioni primaverili: il candore dei ciliegi che avevano gemmato, il glicine che lussureggiava nel parco vicino, la maestà della magnolia nei giardini, le margherite che trapuntavano i prati. Oltrepassò la soglia e penetrò nei settanta metri quadrati spogli e sempre umidi di quel cubo destinato alle attività ludiche.
Localizzò la porzione di muro dove a fine febbraio aveva staccato la fotografia. Ripeté il gesto, come in trance.
Uscì: nella quiete allibita di mezzogiorno, il sole lo visitò, abbagliandolo.
Guardò la foto e vide.
Vide ciò che non si aspettava. Vide ciò che non conosceva, almeno in parte. Vide ciò che, dopo un’imprescindibile estraneazione, gli rese tutto chiaro.
E il cuore riprese a percuotere la cassa toracica.
*****
Alessio non avrebbe mai saputo che cosa fosse successo nella sala, o meglio, come avesse reagito Daniele.
Semmai le cose fossero andate secondo quel piano estemporaneo, su cui aveva meditato soltanto a posteriori. Quando aveva iniziato a farsi largo il sospetto di essere coinvolto nella storia che quel ragazzo appena conosciuto stava partecipandogli, Alessio non aveva potuto trattenersi dall’indagare con domande stringenti. E le risposte che aveva ottenuto corroboravano quel sospetto, inarrestabile verso la certezza. Arretrare, eliminare gli equivoci da una situazione cui Daniele dimostrava di credere e nella quale stava convogliando una fiducia cieca e ingenua, non sarebbe stata una strada praticabile.
Mentre sarebbe stato crudele rivelare due verità in un colpo solo, ora che Daniele cominciava, seppur a fatica, a risalire la china, dopo essere sprofondato nel baratro dell’anima.
Alessio era stato scrupoloso, delicato.
Se, all’inizio, la scelta di tacere era ascrivibile al cinismo, in un secondo momento essa era andata a configurarsi in un quadro di immedesimazione emotiva: empatia.
Neppure lungo il percorso universitario Alessio aveva supposto che avrebbe potuto sperimentarla.
Davanti alla complessa fragilità di Daniele, e a mano a mano che l’esperienza di quest’ultimo si dipanava, l’impostazione nozionistica dei suoi studi, al pari del suo programma originario per il pomeriggio, si era sbriciolata.
*****
Durante quella domenica di febbraio, Alessio aveva maledetto ripetutamente l’idea peregrina di shockare la sua ex – virtuosa madrina del volontariato cristiano – alla cui attitudine pedagogica si contrapponeva, tirannico, un congenito lassismo nel soffocare gli ansiti della carne.
La ventenne che, ogni martedì e giovedì, dalle diciassette alle diciotto, profondeva energie in ferventi catechesi, mentre la sera, con eterea civetteria, sottostava candida ai corteggiamenti petulanti di baldi giovani, lo aveva intrigato.
L’obiettivo di Alessio era uno: farle perdere la testa.
Con astuzia calcolatrice, aveva sbaragliato la concorrenza, stracciando a uno a uno tutti i rivali, e aveva ordito la trama per irretirla.
I destini di Ludovica e Alessio si erano incrociati in un anonimo pub di provincia, tra vacua spavalderia e dolcezza presa in prestito, per separarsi dopo quattordici mesi di progetti sul domani, smisurati e invadenti in linea con l’ottimismo sfrenato della loro età.
In Alessio, la conclusione della relazione aveva scatenato un torbido sentimento di rivalsa: era nata così, sotto strati impenetrabili di inconscio, la volontà di imbastire una messinscena per alimentare incredulità, per sollevare scandalo e stupore.
Per centrare il bersaglio, il ragazzo avrebbe dovuto approntare una formula vincente che coinvolgesse l’indole di Ludovica, quindi delle sue occupazioni, della sua socialità, della sua particolare normalità. Ogni essere umano è a suo modo convenzionale ed è questo aspetto, di regola, il suo tallone d’Achille. Noleggiare un abito ecclesiastico ed esibirlo nel suo habitat d’elezione e in un contesto dove la “vittima” era stimata, sarebbe stato il culmine.
Si erano detti addio tre mesi addietro, dopo un fine settimana in cui i litigi per futili motivi avevano doppiato sia in qualità sia in quantità gli episodi di un’intimità comunque già desensibilizzata. Quel naufragio, in apparenza, non aveva prodotto conseguenze durature: nessun ristagno di rimpianto né di sofferenza retrospettiva; soltanto un sedimento di amarezza.
Partendo dall’imbarazzo e sconfinando presto nell’attigua vergogna, Alessio aveva così pianificato di sconvolgere Ludovica, e non allo scopo di riconquistarla. Soltanto nei giorni subito precedenti all’attuazione del programma, aveva pensato a che cosa dirle, se l’avesse incrociata mentre lucidava la sua vernice di perbenismo al cospetto delle amiche e dei genitori dei bambini. Per non urtare la sensibilità religiosa di ignari fedeli – benché questa non fosse la sua preoccupazione prioritaria – aveva scorto nell’ultima domenica di carnevale la contingenza favorevole per la farsa.
I manifesti applicati alle ringhiere perimetrali della parrocchia promuovevano da settimane una festa in maschera rivolta alle classi del catechismo.
Occasione perfetta.
Il suo travestimento sarebbe scivolato fluido tra gli sconosciuti, mandando però al tappeto la sua ex.
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Ma all’appuntamento virtuale di quel pomeriggio, anziché Ludovica, si era presentato un ragazzo con non trascurabili manifestazioni somatoformi.
Un coetaneo di cui, in altre circostanze, non avrebbe tollerato la petulanza auto conservativa, né l’attorcigliarsi su se stesso, coccolato dall’illusorio conforto di un passato morente.
Alessio si era invece trovato ad ascoltarlo fino ad appassionarsi genuinamente alla sua storia, fino ad azzardare una “cura”.
Per quanto tormentati, i suoi sforzi accademici, improntati alla psicologia, avevano favorito un approccio terapeutico: ma la diagnosi che aveva imbastito, corretta o no che fosse, per un soffio non aveva svelato il suo bluff.
I docenti che, di concerto, gli avevano alienato il percorso della specialistica lo avrebbero promosso oppure bocciato per la linea d’intervento che aveva adottato?
Il suo essere sempre sopra le righe e fuori degli schemi, già ai tempi in cui sedeva sui banchi di scuola, lo avrebbe premiato o, di nuovo, punito?
Chissà se Alessio aveva giustapposto in maniera corretta sintomi e anamnesi.
Non avrebbe mai saputo se Daniele avesse tesorizzato il suo consiglio, né se questo avesse scaturito l’effetto desiderato. Ma l’intuizione che gli aveva suggerito di sostituire la foto del passato remoto con quella del passato prossimo adesso gli restituiva una strana pace di cui non aveva mai goduto. La immaginò simile a quella dipinta sul volto della gente che, per le feste, sempre o ogni tanto, gremiva la piazza.
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Non si sentì beffato, né si incollerì a causa di quel ragazzo che, ormai era palese, si era mascherato da religioso.
Ci era cascato come un bambino e sorrise amaramente per un attimo, quando ripensò a quanto fosse non solo improbabile ma addirittura impossibile che un seminarista “in erba”, quindi, con ogni probabilità, non ancora alle promesse, indossasse il clergyman.
Quello stesso ragazzo che con i suoi capelli folti – non irreggimentati da una scriminatura laterale, ma modellati da tonnellate di cera in una combinazione di ciuffi, creste e mezze frange – saturava la metà destra della foto che Daniele teneva in mano.
Mentre sulla metà sinistra campeggiava Ludovica.
Era certamente lei, nonostante la posa casuale intrappolata da uno sfuggente trequarti.
I capelli di grano maturo erano dispiegati in onde sul collo esile; il profilo del naso digradava verso le labbra pronunciate.
Sullo sfondo, il tabernacolo, simbolo fortuito di una sacralità integra che, almeno per Daniele, schierava la sua strenua resistenza a quel debutto di bacio che, a pochi metri, si enfatizzava.
Un bacio con spettatore nella Domenica delle Palme dell’anno precedente.
Non è vero.
Sto sognando.
Non è vero.
E invece lo era.
Specchiandosi, per contrasto, nell’idillio – di cui nel tempo sarebbe stata appurata l’inconsistenza – di Ludovica e del suo compagno, Daniele aveva ingoiato un germe portatore di infelicità.
Anziché espellerlo, lo aveva fecondato affinché un dolore totalmente suo lo mantenesse vivo tra gli strascichi di un memento.
Si era domandato spesso negli ultimi mesi, ogniqualvolta si affacciava nella piazza, garantendosi una distanza di sicurezza dal confine invalicabile, se la ragazza dall’aspetto angelico sarebbe tornata in quel cortile. La ragazza che lo aveva incatenato a un passato illusorio perché si rinnovava di giorno in giorno sul piano fallace di un presente immoto.
Ma Daniele non procedeva al di là di quella semplice domanda.
Tornerà?
Uno slancio interiore lo allontanò dalla tentazione di darsi una risposta.
Preponderava la convinzione di avere a portata di mano il senso del consiglio di Alessio, anzi, del seminarista, e della sostituzione della foto. Considerò di dover scavalcare la superficie del gesto. Ludovica aveva ripagato tanto lui quanto Alessio con la stessa moneta, e quel germe portatore di infelicità – che, se sviscerato e anatomizzato, non si sarebbe rivelato più del distillato di una delusione reversibile – aveva infettato entrambi, anche se in circostanze distinte e con diversi effetti collaterali.
Ludovica ci ha uniti nello stesso luogo dove abbiamo perso la felicità.
Così pensò Daniele, sbagliandosi.
*****
Oltre la linea di demarcazione che separava il pubblico dal privato, tra le panchine di pietra serena, il portico e il tabernacolo, non si era annidata l’infelicità, né una sua sottospecie, ma la sua antagonista naturale, fissata in ognuna delle fotografie che avevano occupato la stessa porzione di muro. E lì erano tornati, sia Daniele sia Alessio, legati da una ragazza che, in realtà, era stata, ed era ancora, un mezzo.
Daniele infilò con cura la foto sotto la camicia sbottonata sul petto, così da poterla ricontrollare quando la sua mente inaffidabile lo avesse preteso.
Nella sua breve esistenza, aveva ottenuto spesso la riprova che l’autore del canovaccio non offre mai anticipazioni di facile interpretazione. Le metonimie sono seminate con perizia e si raccolgono, mature, quando l’azione è già ostaggio della pagina precedente. Le premesse tradiscono le promesse e la commedia, talvolta, cela un dramma.
Daniele lo aveva compreso a sue spese, benché, per timidezza patologica, non avesse mai calcato un palcoscenico, blindato nel recinto mortificante del dietro le quinte, quale attrezzista con velleità di attore.
Traversò la piazza per dissociarsi da quel luogo, con piglio risoluto. Inalò ossigeno, dopo che aveva trattenuto il fiato per elaborare lo scatto di Ludovica con Alessio accanto.
Si sentì in pace: uno stato di grazia che non seppe né volle scomporre.
Le folate della primavera intanto lo sopraffecero.
E gli parve di percepire il ciliegio, il glicine, la magnolia, le margherite e una fusione ubriacante di altre copiose fragranze, scoppiate all’unisono come per versare un tributo al suo olfatto.
IL CLERGYMAN è un racconto di Stefano Giraldi Ceneda