IL GIARDINO DEI SOLI di Silvia Giorio e Massimo Pasini

Alcuni dicono che si nasce soli.

Balle.

Non è vero.

Si nasce avvolti dalle cosce di una madre, anche se è e sarà la peggiore delle madri, anche se si girerà di là per non vederti e poi sparirà senza neanche chiedersi se ti è dato vivere o morire.

Si nasce fra due cosce umide, al caldo, e, se si vive, si vive fuggendo e annaspando. Come in un incubo in cui finisce l’aria.

Annaspando nella folla, appiccicati gli uni gli altri, respirando il reciproco alito a pochi millimetri, scambiandosi i sudori, gli sputi, gli odori, gli umori.

È come un continuo essere partoriti facendosi largo tra milioni di altre vite che vanno in tutte le direzioni, disordinate, alcune casualmente nella medesima.

Casualmente e solo per un po’, per un tratto sempre troppo breve.

Di rado, molto di rado, insieme fino alla fine della strada, probabilmente solo perché si rimane incastrati. Se guardiamo con attenzione due vite che percorrono unite il cammino, notiamo che spesso lo fanno a fatica, incespicando, zoppicando per tenere il reciproco passo, come se qualcuno avesse fatto lo scherzo bastardo di legargli insieme le stringhe delle scarpe. E solo il destino sa fare questi scherzi da prete.

Fuggendo. Si vive anche fuggendo.

Ci sono molti modi di fuggire. Le gambe sono solo uno di questi. Il più immediato e comodo, ma pure quello che cede prima.

Siamo talmente assuefatti alla fuga da non accorgercene neppure più.

Eppure, facci caso. Concentrati, o semplicemente pensaci. E ora prova a contare le volte in cui sei fuggito, per necessità o per scelta.

Forse lo stai facendo anche adesso.

E alla fine del fuggire c’è la solitudine.

*****

La solitudine non è per niente naturale. È una difficile scelta. Difficile da mettere in atto. Difficile da portare a compimento.

Non da prendere. Prenderla è facile. Basta un solo attimo. È per restarci che ci vuole la follia. La solitudine è un po’ come quei tipi che vorrebbero togliersi la vita infilando la testa in un sacchetto.

Ci vuole poco. Non servono cose complicate, armi, coltelli, corde, precipizi, veleni. Niente sangue. Forse neppure dolore. Ma le unghie, la fame d’aria e la vita hanno la meglio sull’intenzione.

Facile, molto più facile è morire soli. Succede continuamente. Succede da sempre e in ogni parte del mondo. Eppure, questo non lo desidera nessuno.

*****

Per Olga, che era sempre riuscita a correre più forte del destino bastardo che le alitava sul collo, e che ormai era fuggita talmente tanto da aver maturato la convinzione di meritarsi finalmente il riposo, la solitudine rappresentava soprattutto una valida opportunità di tenersi alla larga dalle teste di cazzo.

La gola si chiude. Con essa il respiro. Eccola di nuovo quella maledetta sensazione di soffocare, annaspare nel vuoto di un buco nero scavato nella memoria. È come se una coperta pesante, puzzolente, di lana pressata e polvere, simile a una grande mano callosa, le avvolgesse tutta la faccia, la bocca, gli occhi. Talvolta invece è un muro, un coperchio, una pesante porta. Qualcosa di ermetico che la costringe all’immobilità. E allora grida forte nella notte.

*****

Le mani annaspano liberandosi del lenzuolo e del copriletto leggero. Riprende a respirare. Male, ma riprende. Un gemito le esce dalla gola, appena sussurrato, abbastanza cupo da far vibrare forte il diaframma nel petto e svegliarla. L’orologio sul comodino è fermo alle due e venti di un mese non meglio definito. Olga cerca il cellulare fra le pieghe del letto. Le sente umide, sudate.

Infastidita, lotta con i piedi per calciarle via.

“Devo ricordarmi di comprare quelle maledette pile”, pensa. O forse lo bisbiglia.

Il silenzio profondo e tridimensionale che solo le case di campagna la notte partoriscono, le fa sempre battere forte il cuore e sentire parole anche solo dallo scricchiolio di un mobile o da un alito di vento che passa come un dito sul vetro.

Eccolo. È sotto al cuscino. La luce fredda dello schermo attraversa il buio compatto della stanza con una pennellata nebbiosa e liquida, da obitorio … l’armadio, la poltrona, lo scrittoio, il vecchio manichino da sarta comprato in un mercatino domenicale, il crocifisso appeso almeno da un secolo, se non lì da sempre, … tutto piatto, semplici forme senza profondità, senz’anima, come in un brutto acquerello in cui un mediocre pittore ha finito tutti i colori.

Le quattro e quarantadue. Quasi l’alba. Dovrebbe già esserci un po’ di luce. Invece è solo buio.

Accovacciata, scioglie il grosso grumo di capelli che per

dormire raccoglie. Respira profondamente, ancora con un po’ di difficoltà. Odia la sensazione di soffocamento che anche una ciocca sottile, persino un solo capello intorno al collo, può dare.

Dopo quel viaggio, infinito, non li ha più tenuti sciolti neppure una sola notte. E non ha più sopportato nulla che le impedisse di vedere, perché anche l’assenza di luce la fa soffocare. Non dorme mai al buio completo. Da allora.

Le quattro e quarantatré.

Le persiane sono chiuse. Com’è possibile?

*****

Ecco che però tutto è ora chiaro. L’incubo, quell’incubo che per lunghi anni le aveva dato l’illusione di essersene andato, è sgattaiolato dalle tenebre e, non riuscendo a dissolversi nella notte, si è intrufolato di nuovo là dove sonnecchia come un parassita.

“…che abbiano sbattuto nella notte fino a chiudersi? Oppure mi sono dimenticata di aprirle? Non ricordo. C’era vento. Dev’essere la primavera … il vento della primavera.”

*****

Era stato uno dei compromessi con Damiano nei loro progetti di vita futura: di giorno chiuse, di notte aperte. Finivano sempre per riderne e per scopare dopo il tira e molla in cui lei apriva e lui richiudeva e lei riapriva … e lui richiudeva …

“Chiudi, entra il caldo … Apri, si soffoca”.

Sottile, riaffiora alla bocca dello stomaco il reflusso acido di quell’aria afosa e giallastra delle estati padane, scandite da un perenne ronzio intorno alle orecchie a cui finisci per abituarti come al rumore del frigorifero; ore incredibilmente lunghe, talmente soffocanti e umide che né lei né Damiano, dopo l’amore, avevano desiderio di toccarsi, limitandosi a osservare i rispettivi corpi nudi, distanti, distesi con le gambe e le braccia allargate, sfiorandosi solo con la punta degli alluci e col sorriso stanco. Fino a che, con la scusa di contare e lenire le punture di zanzara sulla sua pelle bianchissima, lui le posava le labbra sui capezzoli, e giù, sull’ombelico sudato, per raggiungere l’umido fresco fra le cosce e le natiche. E Olga rideva. Rideva e scalciava per il solletico.

*****

Aveva ragione … il bastardo! Il rituale del fare ombra di giorno e spalancare di notte, sin dai primi aliti caldi di primavera, e l’unico brandello che le è rimasto di lui e di quel tempo insieme.

Aprire le persiane è così il primo gesto di ogni sera, assaporando dalla finestra della camera, quella più in alto, la sottile lama infuocata del mare che si fonde con un cielo che pare l’inferno, oltre le colline, impenetrabili, di un verde cupissimo che volge al velluto nero, ripetendosi la domanda senza risposta se tanta perfezione possa restituire la felicità.

Felicità! Non esageriamo.

E poi, come può essere restituito qualcosa che si è solo avuta l’illusione di poter possedere?

Restituire una presa per il culo invece si può? Forse. Ma il gusto dove sarebbe?

Le quattro e quarantacinque.

I primi tempi aveva dormito serena e profondamente in quella grande casa. L’idea di essere completamente sola, con i suoi 50 chili scarsi e 50 anni pieni, nel bel mezzo del nulla, non le provocava una vera e propria paura, ma un istinto a stringere il culo quasi piacevole, a tratti, quando si sdraiava nel letto, simile all’eccitazione epicurea che in gioventù le scatenavano certi giochetti di erotismo estremo.

E poi si era ripresentato. Dai sogni, come Pennywise, pluripartorito dal suo passato.

*****

Sola, con il cellulare fra le cosce che le illumina la faccia e la certezza che l’incubo è lì, nascosto in modo maldestro, resta inchiodata nel letto. Sola per scelta, in una stanza enorme, scricchiolante, vuota e buia con le persiane odiosamente chiuse ma scelta con cura e profondamente voluta allo scopo di fermarsi, finalmente, e ricominciare. Ripartire da zero. Sola, senza neanche la foto di un qualsiasi cazzo di essere vivente d’affezione incorniciato sul comodino … un uomo, un figlio, una madre, un cane, un amante.

Nessuno a raccogliere il suo incubo nel cuore della notte.

Nessuno né da abbracciare né da insultare.

Nessuno.

Le quattro e cinquanta.

Sola … a parte … quello lì.

Minuscolo e straziato, appeso nudo in croce. Un povero uomo di gesso e legno, martoriato, nel quale non crede e non ha mai creduto. Avrebbe potuto buttarlo con le montagne di vecchio ciarpame che un numero imprecisato di precedenti inquilini, tutti chiaramente un po’ squilibrati, avevano accumulato nell’ultimo secolo. Però no, non c’era riuscita. Forse per superstizione. Lo siamo un po’ tutti superstiziosi. E ora eccolo lì, dritto avanti ai suoi occhi che annaspano nella penombra, con quella posa a T un po’ da megalomane, come un velato ricatto …

“rimetterò a voi i vostri debiti solo però se voi li rimettete ai vostri debitori”.

“… eh, no, bello. Io non rimetto proprio un cazzo a nessuno!”

Olga gli mostra l’indice teso della mano destra.

“Aiutami ad aprire le persiane piuttosto! Non vedi che non riesco a muovermi? Scendi e fallo, per Dio, se sei Dio …O sei solo un altro cazzo di narcisista patologico?”

*****

L’aria nei polmoni di Olga è ancora troppo poca e le gambe quasi paralizzate, anche se gli occhi cominciano ad assuefarsi all’oscurità.

Le quattro e cinquantaquattro.

Immersa in un grigio senza profondità, peso e suono, le pare di galleggiare, sostenuta da un cuscinetto di pensieri talmente alto da non poter scendere senza farsi male. Levitare. Ecco. Si sente letteralmente levitare. Sola, in compagnia dell’inutile Narciso in croce, con le gambe incrociate a fachiro, come i geni delle favole orientali.

E intanto “la Mangiatrice di Mondi”[1], per la quale la paura è una vitale prelibatezza, trascina la mente di Olga nel ricordo di un lontanissimo inverno sferzante sul viso come frammenti di lamette. Le mostra una bambina sottopeso che ha solo voglia di correre più forte che può. E poi il dondolio di pneumatici che schiacciano la neve ghiacciata come fossero confetti e chicchi di riso sotto a un milione di tacchi e suole. Bianco. Tanto bianco. Una voce sconosciuta, una mano pietosa che emerge da un filo di luce opaca. Di nuovo buio e assenza. Assenza di aria, di spazio, di luce. Di tutto tranne che di sogni. Sogni che però a poco a poco scompaiono, sepolti sotto a una pioggia fitta e bianca. Neve o piccoli petali di fiori lasciati morire?

Le quattro e cinquantanove.

Come colpita da una scossa che ben conosce, che chiama energia di sopravvivenza e che le ha permesso di attraversare indenne cinquant’anni di vita, improvvisamente si scrolla dalla mente e dalla schiena tutti i mostriciattoli del suo passato e, agile, ancora agile come una purosangue, salta sul tiepido pavimento in cotto e nel presente. Scalza. Tre soli lunghi passi ed è alla finestra.

La spalanca. Affonda il viso nella notte che si sta sciogliendo.

Respira profondamente. Il cuore regolarizza i battiti.

Finalmente.

*****

L’aria della notte che si stempera nel mattino odora leggermente di evasione.

Una voglia che l’assale ogni volta che l’incubo si ripresenta e che, da quando è in quella grande casa, svanisce verso la leggerissima pennellata rosata di alba, adagiata sulla sommità compatta del bosco senza penetrarlo. Il mare, all’orizzonte, è ancora cielo liquido argentato. Fuori dall’incubo, nella realtà, c’è ormai un’altra Olga, con sogni nuovi, e il viso immerso in un’aria già intrisa di rugiada e, a breve, di rondini.

Felicità. Serenità. Oblio. Di cosa si tratta? Qual è il sentimento che prova?

Non importa. È bello.

Le cinque e un minuto. In meno di mezz’ora sarà compiuta l’alba.

Quella che ora l’assale è solo una voglia incontenibile di fare pipì.

E di caffè.

Solo un pugno di chilometri su di una stradina sterrata la dividono dall’unica bottega posta alle porte del borgo vicino. Piccola ma fornita di tutto, comprese le migliori lingue lunghe e biforcute della zona. Una specie di Circolo d’Onore dell’antica arte di farsi i cazzi altrui.

Era arrivata quattro anni prima – dall’Australia, si dice, o dall’America, boh – con un set di valigie costosissime piene di tagliandi di compagnie aeree, un grande cappello giallo che per indossarlo ci voleva una spanna di pelo sullo stomaco, tacchi a stiletto e una puzza sotto al naso talmente spessa da poterla affettare e vendere a cartocci. Una donna totalmente diversa da quella che ora attraversa il selciato, in sandali bassi, pantaloni larghi e trucco impercettibile, ma uguale in eleganza e portamento da indossatrice. Aveva acquistato nel giro di qualche ora, senza patteggiare neppure un centesimo, la grande casa in pietra nella macchia che si dice fu un monastero, abitata, fino a una ventina di anni prima, da una comunità di nostalgici hippie inglesi perennemente scalzi e con la chitarra, probabilmente carichi di soldi, sicuramente di erba, il cui unico ricordo in paese è

Chissà che succedeva in quel puttanaio!”

*****

Olga quella casa la teneva in mente da ben dieci anni e il foglio con il numero da chiamare se l’era portato in mezzo mondo. Qualcosa, in tutto quel tempo, le diceva che era ancora lì, come se stesse aspettando lei, e quando chiamò e, incredula, sentì che sì, era ancora in vendita, la saliva si azzerò e sognò di potersi finalmente fermare fino alla fine dei suoi giorni.

*****

Erano i primi di maggio, pochi giorni prima del matrimonio. Stava sfogliando una rivista di arredamento nell’attesa che Damiano uscisse dal bagno, quando si era imbattuta nell’annuncio: “VENDESI NEL CUORE DELLA MAREMMA. OCCASIONE. DA RISTRUTTURARE. VISTA MOZZAFIATO, GRANDE METRATURA, PARTICOLARI D’EPOCA. RAGGIUNTA DA STRADA STERRATA. ADATTA ANCHE COME STRUTTURA RICETTIVA”. Seguivano alcune foto degli esterni, di alcuni suggestivi particolari interni come la scala, le volte e i numerosi grandi camini. Sentì la porta della doccia aprirsi e il suo uomo canticchiare, con un improbabile falsetto, un motivo dei Kiss.

«Dami, hai finito? Puoi venire un attimo?»

«Che c’è, bambola?»

«No, devi venire qui …»

Damiano sbucò con il busto dalla porta del bagno, evidentemente nudo, strofinandosi i capelli con l’asciugamano.

«Voglio farti vedere una cosa»

«Okay, non me la puoi far vedere quando sono asciutto? È così importante?»

«No, non particolarmente», rispose cominciando a strappare con attenzione la pagina, «mi stavo solo chiedendo se ti piacerebbe andare a vivere in una vecchia casa isolata in Toscana.»

Lui era rientrato in bagno. Si sentiva il soffiare cupo del phon. Olga alzò più forte la voce, scandendo le sillabe:

«POTREI TENERCI I CAVALLI», quasi gridando.

 La voce di Damiano arrivò come se fosse stato lontano milioni di chilometri. Stava ridendo. «No, amore. Col cazzo!»

E riprese a canticchiare “I love it loud, I wanna hear it loud, right between the eyes”.

Lei, delusa, sorrise scuotendo la testa, ma quella pagina la piegò con cura e la infilò nel porta documenti, assieme alla carta d’identità e al passaporto che orgogliosamente riportavano “cittadinanza italiana”, e, ancora per poco, stato civile “nubile”.

Nel chiudere la borsa si sentì afferrare da dietro. Le braccia ancora umide di Damiano le avvolsero il petto, immobilizzandola e dondolandola.

«E così vuoi altri cavalli, mia bella puledra porcella», il suo pene le premeva sulle natiche quasi a farle male.

 Una mano scivolò sotto il vestito, «Vieni qua. Ti monto io …»

«Lasciami stare. Non ho voglia», gli sussurrò cercando di svincolarsi dalla sua lingua che le leccava la nuca, mentre la spingeva contro il tavolo.

«Cos’è? Vuoi arrivare vergine all’altare?»

Fu l’ultima scopata. Selvaggia, animalesca, ma priva di baci e di parole. Veloce. Più una scena da film porno che amore.

Esiste una proporzione fra la grandezza dei posti e l’accettazione delle novità. Nei paesini esse sono dure a digerire. Assolutamente indigeste quando si chiudono in uno scrigno impenetrabile anche dal trapano della più acuta invadenza impicciona.

Elegante e vagamente altezzosa, come le donne non più giovanissime, dalle gambe lunghe e dal seno piccolo, sanno essere quando si vestono di apparente sciatteria, con il dorso della mano scosta la tenda anti-mosche di plastica sbiadita, facendola scampanellare. Strizza un mezzo sorriso che sulla sua grande bocca sembra comunque esagerato, con l’effetto di una palata di ghiaccio sul silenzio che avvolge le tre tizie afflosciate sulle seggioline di plastica, che non le staccano gli occhi di dosso. Solo una grossa e grassa mosca nera, che evidentemente se ne strafotte della tenda e punta dritta al banco dei salumi, sbatte e ronza forte.

«Allora? Che si dice lassù, nella macchia? Pioverà? C’è un’afa quest’anno … che non si respira.»

La proprietaria ci prova sempre a iniziare un dialogo, ma Olga no, proprio non ce la fa. Non riesce a lasciarsi andare. L’idea di ogni contatto con quelle, che si discosti di una virgola dalla superficialità, la spaventa, la disgusta. È più forte di lei: si sente diversa e ne va fiera. Si sente migliore, più bella, più ricca, più colta. Più libera, più intelligente. Teme quasi che, entrando in confidenza con quei fagotti a stento contenuti da sedute troppo piccole per i loro culi, potrebbe restarne contaminata e uscirne deforme, fuori e dentro, tanto simile alle donne grigie e opache non solo di questo angolo di mondo, ma anche di quello della sua infanzia, senza tinta né smalto, nei capelli, sulle mani e nella vita. Donne solo per genere, votate a cucinare e procreare fino all’ultimo dei loro identici giorni. Sa di rendersi odiosa. Lei stessa si trova odiosa, ma in fondo le piace.

*****

«Non saprei», risponde a tono basso, distaccata e infastidita, sbirciando distrattamente fra gli scaffali e posando sul banco, con due dita, la merce scelta. Le tipe afflosciate, sventolandosi, si scambiano eloquenti espressioni di antipatia, tenendosi il meglio per dopo.

È così praticamente ogni giorno.

Infine, dopo aver gettato, nel ghiaccio e alle ortiche, un asettico “Buona giornata … a tutte”, si allontana con il naso puntato avanti, senza neanche sfiorarle con lo sguardo, trattenendo con il braccio sottile la busta di carta con i soliti due etti di pane fresco di forno e qualche frutto di stagione. Sculetta leggermente dentro ai pantaloni larghi della tuta, malgrado le scarpe rasoterra, in risposta agli sguardi acidi che si sente sul suo culo “secco”. È una sensazione a pelle sulla quale è molto allenata e non si può sbagliare, perché gli occhi addosso Olga se li è sempre sentiti, ovunque sia stata, nel bene e nel male.

*****

Ora esce da quel buco soffocante con una confezione di due dessert da frigo, tiramisù a base di aria montata per la precisione, un sacchetto di salatini e una bottiglia di prosecco. Inconfutabile motivo per commentare che “quella è una poco di buono, te lo dico io”.

*****

Olga una ‘poco di buono’ in effetti lo è stata, almeno nel senso che stuzzica le fantasie inguinali delle donne del paese. Non ora. Non più da ormai talmente tanto tempo da essersi perfino dimenticata di come si fa a essere una poco di buono. Gli unici uomini che sono entrati in quella casa nascosta nella macchia, odorosa di muschio e pietra, sono il gruppo di pakistani accampati in un camper alle porte del paese, braccianti per la potatura degli alberi e la raccolta dei pomodori, e più o meno tuttofare, o schiavi sottopagati, con i quali condivide la prerogativa di generare un palese sentimento di diffidenza.

Fatto è che in meno di due mesi, senza la minima lamentela e a un prezzo assolutamente ragionevole, le avevano ripassato il tetto, ripulito le stalle, ripristinato l’allacciamento a luce e acqua staccati dai tempi degli hippie cannati, generato una connessione internet un po’ tisica ma comunque funzionante, volendosi accontentare, ridipinto le poche stanze che Olga riteneva di voler abitare, sistemato alla bene meglio gli infissi, sostituito i vetri rotti, resa agibile la vecchia cucina in muratura, lucidato a nuovo la canna del camino, sfrondato le piante più vicine, stasato le grondaie e appeso all’ingresso una splendida insegna, marchiata a fuoco su di un grande ceppo di legno:

CASA APPALOOSA.

L’idea non finiva qui. Proseguiva con il progetto di rifare completamente il bagno, eliminando la vecchia vasca per una bella cabina doccia moderna e funzionale, ricavare dal fienile uno studio panoramico con grandi vetrate e arredamento minimal di design, piazzare un’isola attrezzata nell’enorme cucina, ma soprattutto, creare un centro di accoglienza per cavalli in difficoltà, scartati o a fine carriera. Carne da macello, appunto, a cui cancellare sia la parola macello che carne. Bellissime creature a riposo e in libertà, restituite alla vita. Come lei.

*****

Poi fu l’epidemia. Anzi, la pandemia. E tutto andò a puttane. O meglio, tutto si cristallizzò, come nella favola della Bella addormentata nel bosco. Solo che Olga non dormiva per niente in quelle stanze con le travi possenti e le volte in mattoni, fra i rovi che crescevano tra le fessure dei muri, impegnata anche lei a mettere radici per la prima volta nella sua vita. E non aspettava nessun principe. Perché aspettare è avvilente, umiliante e lei ben lo sapeva. Ancora di più se si è prossime alla menopausa. E poi, i principi non esistono. Sono solo stronzi dipinti di azzurro, col pennacchio.

*****

In quei mesi infiniti, confinata in una specie di bolla impenetrabile agli scenari apocalittici che i notiziari trasmettevano da tutto il mondo, Olga ebbe modo di accorgersi di un sacco di cose: che la vecchia vasca di lamiera smaltata manteneva caldissima l’acqua a lungo e non era per niente male lasciarvici scivolare; che forse la doccia è roba per chi va di fretta, e lei invece aveva una gran voglia di riprendersi tutto il tempo passato a correre; che in fondo non sapeva cosa farsene di uno studio panoramico con enormi vetrate da pulire, e neppure di un’isola in cucina, perché non aveva nessuna intenzione di mettersi a cucinare e non desiderava al momento compagnia. Nel caso comunque c’era un’ottima pizzeria a pochi chilometri e forse pure un ristorante cinese.

*****

Dopo aver dato un’occhiata al corposo saldo del suo conto in banca e alla lista degli studi legali e aziende che aveva accuratamente selezionato fra i migliori per proporre l’indiscutibile esperienza, e quel che rimaneva della sua ormai matura avvenenza, prese la decisione che basta, aveva abbastanza anni e soldi per dire basta.

Basta carriera, basta tacchi, basta borse firmate. Basta cene e locali. Basta avventure, giochi, sesso. Basta correre, fuggire, arrampicare, inseguire … e ancora fuggire. Basta. Aveva attraversato mezzo mondo amando e fuggendo, ed era fuggita ormai da qualsiasi cosa: dalla povertà, dalla violenza, dal tradimento, dalla vergogna, dagli sguardi. A questo punto sarebbe stato solo fuggire da sé stessa.

Accanto alla sacca dei ricordi zeppa di foto e brandelli di scontrini, biglietti e altri cimeli di felicità disillusa, ripose, con una buona dose di antitarme, gli outfit ricercati, le scarpe, le borse abbinate, in un dossier gli attestati di laurea, i master, i curriculum, le lettere di referenze dei prestigiosi studi legali in cui aveva lavorato a New York e a Sydney prima di tornare in Italia, quasi dei premi Nobel per una che sembrava destinata o a zappare nei campi o a batterci. Aveva avuto tutto dalla vita, inaspettatamente e abbondantemente. Se l’era conquistato sanguinando, rompendosi le unghie, ringhiando e mordendo come un animale selvatico. Risorgendo dalle sue stesse ceneri. Come l’Araba Fenice.

*****

Sì, aveva avuto tutto, tranne quello che aveva sempre voluto avere. Era stata a un passo dalla felicità, ma essa, con un ghigno pestilenziale che inaridisce i fiori, era arretrata davanti alla sua mano guantata, ed era corsa via facendole la linguaccia, lasciandosi dietro solo una lunga scia di sguardi increduli e sottilmente divertiti. Sì, Olga era stata presa per il culo dalla felicità e dalla vita, e in quell’istante, sola e ridicola, si era sentita un patetico pagliaccio agghindato a festa, e aveva solo pensato a fuggire. Ancora. Un’altra volta.

Ora basta.

Aveva finito.

Giovanna è nello stesso punto e nella medesima posizione di quando l’aveva vista per la prima volta. Su quella panchina dopo il grande castagno che ormai sembrava essere sua in esclusiva, con la schiena incredibilmente diritta discosta dallo schienale e il mento alto.

C’è qualcosa di animalesco nella sua attenzione. Due orecchini pendenti in oro giallo e corallo, esagerati, le allungano il lobo e il profondo taglio che un tempo fu un semplice buco destinato a sostenere una raffinata perla; i capelli, ancora folti e bianchi con ciocche giallo polenta, come pennellate, raccolti in un pericolante chignon sostenuto da poche grosse forcine marroni in finto osso e un pettine da mantiglia.

*****

Nel Giardino dei soli, come Olga lo chiama, era l’unica anima a non tenere lo sguardo fisso e il volto proteso verso l’entrata. O l’uscita. Dipende dai punti di vista. «Signorina, lei prega?», le aveva chiesto, così, a bruciapelo, appena Olga le si era seduta accanto senza altra intenzione che essere ricevuta dalla Direzione, a cui aveva inviato una domanda di collaborazione volontaria, ovvero totalmente gratuita, per la gestione e la compagnia degli anziani ospiti. Decisione forse un po’ troppo affrettata, seguita a quella, ancora più follemente frettolosa, di chiudere con anche la più piccola briciola di un passato che nel suo cuore, malgrado i successi lavorativi, si pronunciava ‘fallimento’. A far svanire ogni dubbio sulla bontà di tale drastica scelta ci avevano pensato il prolungato lockdown, l’incantevole bellezza del luogo, la consistenza del patrimonio accumulato e soprattutto la consapevolezza – un tempo amarissima ma ormai decisamente annacquata – di essere al mondo totalmente, inesorabilmente, drasticamente sola.

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«Io non credo in Dio», aveva risposto ferma e un po’ divertita dalla domanda singolare e da quella donna bizzarra, indubbiamente lucida anche se visibilmente pazza, presente a se stessa e al mondo, malgrado l’imponente carico di anni che traspariva da ogni centimetro del suo corpo, tranne che dagli occhi. La fissava con due iridi mobilissime quasi da serpente, che bucavano un pastoso kajal nero distribuito in modo eccessivo senza una precisa logica.

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«Non le ho chiesto se crede in Dio, bambina. Ma se prega», puntualizzò la Professoressa Giovanna Revelli, cardiochirurga di fama internazionale, nonché addirittura voce Wikipedia, con un sorrisetto di superiorità sprezzante. Ma i suoi occhi, nell’incrociare quelli di Olga, scorsero il medesimo color bosco dopo la pioggia, e lo stesso guizzo vitale nello strizzarli leggermente che avevano contraddistinto i suoi fra milioni di occhi. E percepì il medesimo sollevare il mento in segno di sfida, e la stretta involontaria della mandibola nel riempire i polmoni attraverso le narici. La stessa leggera alzata della spalla sinistra e il passo energico, quasi militare. E poi la bocca, esageratamente grande, come la sua, e perciò mai ferma, mai passiva. La scrutò tutta con malcelata soddisfazione, dalla testa ai piedi, assaporandone l’adrenalina, e come un animale selvatico che fiuta uno sconosciuto con diffidenza, percepì che le piaceva, e che forse poteva fidarsi. Finalmente. Era al massimo la terza volta che le capitava nel corso della sua lunghissima vita. Anzi, a ben vedere e considerando i sonori fallimenti e la lunga processione di stronzi, era la prima.

*****

Giovanna Carina Revelli, classe 1930, meglio nota come La Signora del Cuore – definizione vezzeggiativa che non solo non la rappresenta affatto, ma che non fa che ribadire il monopolio maschile in campo chirurgico che lei aveva voluto lacerare con unghie e denti – era piombata a Villa Verde circa un anno e mezzo prima come una catastrofe, praticamente dal nulla. Peggio, dalle Langhe, che per molti del posto era come dire Atlantide. Era scesa a passo sicuro, dopo ben 550 chilometri, senza neanche un minimo dolorino alla schiena o alle ginocchia, da un taxi costato un occhio della testa a lei e un principio di esaurimento nervoso al tassista, con un carico di tre valigioni enormi e diverse borse da cui spuntavano le cose più vecchie e inutili che si fossero mai viste persino nei mercatini di Natale di periferia.

Non appena la lucidissima berlina nera se ne ripartì sgommando in una nuvola di polvere e ghiaietta bianca, la professoressa in pensione, rifiutando l’ascensore, salì a piedi, senza fermarsi neppure un secondo per riprendere fiato, i tre piani verso quella che aveva scelto essere, fino all’ultimo alito di vita, la sua dimora. Una dimora nascosta nel verde e lontana; questo era stato il principale, nonché unico, criterio di scelta. Lontana, difficilmente raggiungibile al resto del mondo ma in particolare al nugolo fastidiosamente ronzante di parenti vari, più o meno lontani, più o meno sconosciuti, che da qualche anno erano saltati fuori come insetti succhiasangue in attesa che tirasse il calzino.

Il suo era uno dei quattro lussuosi alloggi privati del piano attico, quelli a pagamento, il migliore, parecchio salato, con una piccola cucina, un salottino, la camera matrimoniale, un terrazzo molto ampio e un bel bagno spazioso. Era stata un’idea della precedente Amministrazione per arrotondare gli introiti irrisori della vecchia Casa di Riposo convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale. Naturalmente, in linea a come vanno queste cose, specie in Italia, finì per diventare una speculazione e i vecchi del primo e secondo piano non solo non ne ebbero alcun vantaggio, ma si videro pure maggiormente trascurati, essendo spesso il personale impegnato a ungere i facoltosi vecchini del piano superiore, nella speranza fossero generosi nel loro testamento oppure completamente rincoglioniti.

Con la Professoressa Revelli fu chiaro dal primo momento che non era né l’una cosa né l’altra, per cui nel giro di un paio di settimane non se la filò più nessuno.

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A detta della Direttrice, una donnina anonima e sciapa, ingrigita più per contagio che per età, Giovanna era l’essere più ingestibile, pesante, diffidente, maleducato, odioso, che mai avesse ospitato e conosciuto. Avendole casualmente viste insieme dalla finestra, ne mise immediatamente al corrente Olga, cercando di dissuaderla dal lasciarsene coinvolgere emotivamente.
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«Mi creda, non passa giorno che io non maledica il momento in cui apposi la mia firma sulla sua richiesta. E dire che la conoscevamo già, perché veniva da qualche anno a soggiornare per una quindicina di giorni a fine estate. Sa, abbiamo una convenzione diretta e un servizio di trasporto per le Terme. Era chiaramente … strana, ma non così, per l’amor didDio, se no non avrei accettato, neppure per tutto l’oro del mondo. È insopportabile. Arrogante. Non si fida di nessuno. Non le piace nessuno. Non lega con nessuno. Non si è fatta un’amicizia. La guardi … venga qui, alla finestra. La vede? se ne sta su quella panchina scrutando tutti con sufficienza … e gli altri giustamente girano alla larga. Guardi!»

Si andò a sedere dietro la scrivania, schiarendosi la gola per il nervoso, e invitò Olga a fare altrettanto sulla poltroncina davanti.

«Non si lascia curare. Da nessuno. Con sta storia che è medico sembra che tutti gli altri siano dei caproni! E poi è sempre sospettosa. Le colf delle pulizie sono esasperate perché le segue ovunque come ladre, e poi si fa mostrare le tasche quando escono. Ma neppure così è contenta. Dice che si nascondono la roba pure nelle mutande! … Mangia quello che vuole. Va a dormire quando le pare. Si alza nel cuore della notte e pretende di andare in giardino. Si figuri che una volta sono venuti dei suoi parenti a trovarla, dal Piemonte. Poveretti. Lo sa cosa ha fatto lei?»

Olga scuote la testa, incuriosita e divertita. Quella vecchia incomincia a piacerle parecchio.

«Ha fatto dire che non c’era! Capisce! Per tre giorni sono rimasti, quei cristi, nel motel Marino, quello sulla statale, ma lei niente. Erano in quattro, una cugina con il marito e due bambini che avrebbe dovuto vedere quant’erano belli e educati … paffutelli come angioletti. Non-li-ha-vo-lu-ti-ri-ce-ve-re!» scandisce dirigendo la nenia con l’indice della mano destra, «niente. Alla fine, se ne sono andati, pregandomi di darle una scatola di cioccolatini, una pianta e una lettera. Beh, vuole sapere? … i cioccolatini li ha lasciati al personale della cucina dicendogli di fare attenzione perché potevano essere avvelenati … e comunque di ripulirli dalle bave … la pianta mi ha detto di portarla al cimitero, sulla prima tomba nuda che avessi visto. La lettera … me l’ha strappata davanti agli occhi senza neanche aprirla, dicendo che era troppo dura per pulircisi il … insomma, ha capito».

Olga cominciò a ridere. Era da un bel pezzo che non lo faceva così di gusto.

In questo modo era nato il loro legame, e una dipendenza reciproca a tratti quasi insana. Era quasi come se si completassero, facendo coincidere le asperità dell’una con quelle dell’altra, come due tessere di un puzzle.


[1] La Mangiatrice di Mondi è il vero nome che Stephen King attribuisce a Pennywise, IT, nell’omonimo romanzo.

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