IL GRANDE MALE HA PERSO di Emiliano Frigoli
Capitolo 1
Cani randagi
Non riuscivo proprio a credere che potesse esistere una giornata come questa: triste, senza il minimo spiraglio di sole, intrisa da una fitta pioggerellina impertinente e un freddo da ingiuria che, maledetto, riusciva a penetrare dritto nelle ossa!
Ovunque posassi lo sguardo, riuscivo solo a scorgere una cupa malinconia e un silenzio tetro.
Pensandoci bene, non cʼera scenario migliore per il tragico evento cui stavo per assistere. Non essendo molto avvezzo a certe situazioni, mi abbandonavo mesto al lento e pietoso fluttuare del corteo funebre sino al piazzale della chiesa; e poi al suo interno, dove fortunatamente la situazione si faceva più accomodante … quella climatica, almeno.
Accanto a me, comʼè solito da qualche tempo a questa parte, lʼinseparabile amico Baltimora.
Dopo qualche attimo dʼinsperato sollievo, eccomi ripiombare alla cruda realtà e fare i conti con la ferita ancora aperta per la perdita di un caro amico. Ero sconvolto: non si poteva morire così.
Non ci si può lasciare andare in questo modo, Martin! Non ti sei mai curato. Facevi finta di stare bene e invece ogni giorno perdevi un pezzetto di vita!
Masticavo e rimasticavo questi pensieri, non riuscivo a mandarli giù. Rimanevo lì, fermo, con lo sguardo fisso sul pavimento a osservare i frammenti di un mosaico, come se questi mi avessero potuto dare una risposta a qualcosa, per cui risposta non c’era.
L’amico Baltimora, invece, era molto tranquillo: osservava curioso, con il naso all’insù, tutto ciò che lo circondava, come un bambino durante una gita scolastica.
Nella minuta chiesetta intitolata a San Sebastiano, tutto era, se così si può dire, in gran fermento. Appena entrati, due piccole acquasantiere di marmo rosastro, credo di epoca etrusca, tʼinebriavano al passaggio. Poco più in là, l’odore penetrante d’incenso inondava tutta la navata centrale, creando una certa assuefazione. Sulla sinistra, il fonte battesimale restaurato di fresco gemeva una nuova vita, mentre più avanti lʼaltare dedicato alla Vergine Maria risplendeva con i suoi marmi decorati e unʼaura dorata avvolgeva la scultura esaltandone le solenni movenze divine. Dalla parte opposta, nelle vicinanze del transetto, lʼodore di cera delle candele lo si percepiva appena: qui era posto lʼaltare, dove il busto di San Sebastiano trafitto dalle frecce primeggiava sui fedeli mostrando loro gli splendori di un tempo. I colori erano talmente vivi che le ferite sembravano sanguinare per davvero!
A qualcuno dei presenti seduti lì accanto parve di sentirlo ancora soffrire.
Allo stesso modo, gli affreschi e i bassorilievi sembravano rivivere nelle scene in cui erano stati dipinti o scolpiti. Tutto questo, miscelandosi, creava una strana e azzarderei, lisergica atmosfera.
A completare l’opera c’era poi il pubblico delle grandi occasioni, chi era riuscito ad accaparrarsi i pochissimi posti a sedere: era concentrato nella preghiera più profonda e ancorato alla sua postazione dalla quale non si sarebbe mosso nemmeno se fosse crollata la volta della navata centrale.
Anche coloro che occupavano i moltissimi posti in piedi erano intensamente coinvolti nella celebrazione, scrutando però con l’occhio vigile tra i banchi nella speranza di scovare un eventuale posto lasciato incautamente libero.
Io, comodamente in piedi, cercavo conforto lasciandomi trasportare dal sermone che don Galeazzo, con voce magistralmente presa in prestito dal film Il Padrino, stava additando ai presenti raccolti in profonda penitenza.
«Dovete essere pronti, cari fratelli, perché il giorno della nostra dipartita è vicino e non siamo noi a sceglierlo!» iniziò tuonante don Galeazzo.
Poi, con voce incalzante, aggiunse «L’angelo mandato dal Signore verrà e ci chiamerà al cospetto di Dio, ma senza preavviso! Non busserà alla nostra porta. Non chiederà il permesso di entrare. Non avremo nemmeno il tempo di voltarci a salutare!»
Poi ancora più duramente, rincarando la dose «E quindi voi, anime smarrite nel peccato, da un momento all’altro potreste dire addio a tutto ciò che avrete costruito sulla Terra, sradicati dai vostri comodi divani e posti in ginocchio davanti all’Onnipotente per la resa dei conti!» E continuò ancora, con una grande riflessione a effetto «Signori miei, la vita terrena è troppo breve per rimandare sempre tutto a domani, vivendo poi di rimpianti; e oggi, con questo nuovo Grande Male che ci attanaglia, anche il più retto di noi vacilla e la fede da sola non basta!»
Qui don Galeazzo tacque, facendo una pausa da attore consumato, per preparare l’affondo finale «Oggi, quando tutto sembra perduto, è facile lasciarsi andare, smarrire la via e non vedere un futuro!» cominciò con voce pacata e carica di sconforto.
«Ma no, no! Affrontate la vita con coraggio, umiltà, passione e amore; fate vedere di che pasta siete fatti. Dimostrate che non siete degli inetti: è nelle difficoltà che tiriamo fuori il meglio di noi! Serve solo qualcuno che ogni tanto ce lo ricordi. E Dio è qui per questo!» continuò incalzante don Galeazzo, per poi concludere l’estenuante sermone con fare paterno «Vedete, fratelli, se combattiamo il male, Dio sarà al nostro fianco. Se ci arrendiamo, Dio sarà ancora lì con noi, per esortarci a non demordere e a continuare a lottare! Non sarà affatto semplice, il risultato per nulla scontato; ma la ricompensa, quella più grande, sappiate che non sarà quella terrena, ma nel Regno dei Cieli, accanto a Lui! State pronti, cari fratelli, che il giorno è vicino. Amen.»
Dopo qualche attimo di silenzioso sgomento, durante il quale i fedeli di parte maschile fecero ferrea presa delle loro parti intime, perché non si discute la parola del Signore, ma un po’ di scaramanzia a volte non guasta, quell’ultima riflessione colpì nel segno. Forse per la penosa fine del caro estinto, che dopo aver perduto lavoro e famiglia, aveva perso denaro, salute e da oggi anche il contatto con la vita terrena. Ancor di più, perché in parecchi sono stati attanagliati da questo Grande Male e non solo tra i presenti, ma un po’ in tutto il Paese. La chiamano crisi.
Finito il momento di cupa riflessione, tutto seguì nella più funebre normalità.
Anch’io, un po’ alla volta, cominciavo a sciogliermi e la mia attenzione fu subito attratta dal fatto di aver smarrito il mio compagno di sventura. Conoscendolo, però, c’era poco di cui meravigliarsi!
Eccolo lì, l’amico Baltimora, nella fila accanto, con quello sguardo perso e fluttuante come se stesse vivendo in un universo parallelo.
Rivolto verso una luce opalescente che filtrava da una delle vetrate, come se fosse in contatto con l’aldilà, o meglio, come se fosse in preda a una delle sue solite rocambolesche visioni. La cosa mi preoccupava abbastanza, perché da lui c’era da aspettarsi proprio di tutto, soprattutto in situazioni di questo tipo.
Pensai che la colpa potesse essere attribuita al troppo incenso.
Provai dunque a destarlo simulando colpi di tosse, finti starnuti e facendo cadere ripetutamente il breviario dei canti, riuscendo solo però ad attirare infide occhiatacce da parte delle persone accanto a me. Decisi quindi di lasciar stare.
La funzione malinconicamente si concluse, ma il mio intento ora era quello di fermare sul nascere qualsiasi follia potesse scaturire dalla mente contorta di chi so io!
Aveva smesso di piovere; lo trovai ad attendermi ai piedi della scalinata della chiesa, con quel sorriso da calci nei denti che mi ha sempre fatto inferocire.
Lo raggiunsi dribblando una dozzina di fedeli, sapendo che comunque sarei dovuto andarci leggero «Non mi sembravi troppo sul pezzo, eh Baltimora!» lo incalzai con un tono nervosamente sarcastico. Poi aggiunsi «Siamo venuti qui per dare lʼultimo saluto allʼamico Martin, ricordi? Dimmi un poʼ, cosa ti è frullato in quella zucca?!» conclusi minaccioso.
Il suo sguardo stralunato, però, diceva già tutto «Sai, amico Gert, guardavo lontano. Come al solito, però, sono cose che tu non puoi capire» rispose ironico.
Sapevo che mi avrebbe dato una risposta del genere, da pazzo visionario quale è sempre stato e l’idea di strozzarlo divampava dentro la mia testa.
Ripensando poi a ciò cui avevo appena assistito, mi limitai ad afferrarlo per un braccio e a portalo via di peso più velocemente possibile.
Un funerale per oggi era più che sufficiente! E così, salutati tutti più volte stringendo abbracci di consolazione e di arrivederci in momenti migliori, ci incamminammo verso il parcheggio retrostante la chiesa, dove avevamo posteggiato le nostre due fiammanti biciclette.
Eh sì, perché questo, da qualche tempo, era il nostro mezzo di locomozione più gettonato! La mia è stata una scelta dovuta al contagio, da qualche tempo ormai, del Grande Male, mentre lʼamico Baltimora la patente non sarebbe riuscito a ottenerla nemmeno al mercato nero.
Per lui, quindi, la situazione era normale; anzi, ogni qualvolta si usciva, era solito sfidarmi in interminabili volate togli fiato che, come consuetudine, perdeva vergognosamente.
E anche oggi cercò di sorprendermi un paio di volte appena fuori dal centro abitato, fallendo miseramente.
Incassata lʼennesima sconfitta, decise di optare per unʼandatura più calma, da ragionamento, la chiamavamo.
Pensai che fosse il momento giusto per ritornare sulla discussione interrotta poco prima:
«Quindi, cosa mi stavi dicendo? Cos’è che stavi facendo durante il funerale del povero Martin? Ah sì, guardavi lontano!» lo stuzzicai sarcastico.
In principio fece scena muta, non riuscendo ancora a pronunciare una parola per il fiatone. Poi dʼun tratto scoppiò in un’insana risata «Te lʼho detto Gert, guardavo lontano! Tu però, non puoi capire!»
Mentre mi pigliava in giro pensai che, essendo prossimi alla strada che costeggia il Grande Naviglio, avrei potuto cogliere lʼoccasione per scaraventarlo in acqua e non pensarci più, visto che non sapeva nemmeno nuotare.
Per qualche istante l’idea mi rimbalzò in testa. Poi, destato dal mio solito romanticismo, decisi di risolvere la questione accelerando per un’ultima e definitiva volata, così da seminarlo.
Incredibilmente però riuscì a starmi dietro, l’infame!
Arrivati in paese, prima di rientrare a casa, lʼamico Baltimora volle a tutti i costi fermarsi da Jakobʼs “per rinfreschi”, citazione che avevamo adottato dopo aver visto Arancia meccanica, film per cui Baltimora andava pazzo.
Ero esausto, per la corsa in bici, certo, ma in particolar modo per la giornata appena trascorsa che aveva messo a dura prova i miei sentimenti.
Pensai quindi che qualcosa da bere e quattro chiacchiere mi avrebbero solo fatto bene.
«Va bene, fermiamoci! Soltanto per mezz’ora però» ordinai in tono marziale.
L’amico Baltimora non stava più nella pelle «Evviva! Dai, muoviti, fai presto!» esplose, di nuovo in gran forma.
Cercai subito di farlo calmare «Datti una calmata, mezzʼora e si va!»
L’amico Baltimora, però, non mi diede ascolto.Sapevo inoltre che il vero motivo di quella sosta, era una certa Alina, che lavorava da Jakob’s come cameriera: il suo più grande amore meno corrisposto di sempre!
In questa circostanza non si poteva dar torto allʼamico Baltimora: Alina era veramente il più bell’esemplare di femmina ungherese che avessi mai visto; perdere la testa per donne del genere era un attimo.
Non so bene da che città dell’antico stato magiaro provenisse; quello che so, ovviamente dai racconti uditi nel locale, è che Jakob la raccolse dalla strada un paio d’anni fa, sporca e malnutrita.
Era probabile che fosse scappata di casa e finita di conseguenza in qualche brutto giro, per intenderci. Si diceva anche che il padre, sempre ubriaco, un giorno la picchiò con tale violenza da fratturarle un braccio e una gamba, ponendo fine alla sua promettente carriera nel salto con lʼasta. Aveva vinto già molte gare, anche se ancora una ragazzina.
Oggi, più matura, alcuni maligni assicuravano che con un altro tipo di attrezzo ci sapeva davvero fare. Le solite chiacchiere da bar.
Entrando nel locale, ce la trovammo proprio davanti, nel suo granitico metro e ottanta garantito da un buon tacco dodici. Lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo; pelle bianchissima, con un velato color madreperla che le addolciva i caratteri forti del viso tipici delle donne dell’Est e che faceva esplodere i suoi ipnotici occhi verdi. Il tutto contornato da un fisico mozzafiato.
In pratica, ovunque puntasse lo sguardo scaturiva elettricità.
L’amico Baltimora, appunto, vedendola, rimase a dir poco folgorato!
La bocca gli era diventata più secca di un deserto.
In compenso sudava in un modo così catastrofico che lo tsunami in confronto era paragonabile a una pioggerellina primaverile. La sua era una vera e propria adorazione ultraterrena.
Lei non se lo filava per niente; un classico. Lui, più duro del basalto, non mollava un colpo; un altro classico.
Pensai quindi che, in queste estreme condizioni, mi sarebbe stato molto più facile estorcergli delle notizie sulla visione di oggi.
Rimasi però assorto nei miei pensieri.
Il grande male ha perso è un romanzo di Emiliano Frigoli
Emiliano Frigoli
Grazie di cuore.
Emiliano