IL LUOGO DELLA MENTE di Manfredo Occhionero
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“Forma e spazio influenzano il nostro pensiero, la nostra coscienza, la nostra anima.
Tanto più l’Architettura, disciplina che manipola forme e spazio, costruisce luoghi della mente.
Gli edifici che abitiamo modellano gli stati di coscienza degli uomini tanto da indirizzare e determinarne pensieri, umori, persino alterandone il carattere.
Da questa consapevolezza ho sviluppato un nuovo linguaggio dell’architettura capace di ispirare emozionare, curare, mutando la nostra percezione fino ad uno slancio verso una nuova spiritualità.”
“Così asseriva il mio antenato Conte Tolomeo Arcady in uno dei suoi rari scritti sopravvissuti alla censura che seguì la sua scomparsa.
Arcady era un architetto che concepiva l’architettura come spazio dell’anima.
Già nelle sue prime opere agli inizi del XX secolo egli cercò di catturare e riprodurre nelle forme dei suoi edifici il ritratto, l’essenza delle persone che li avrebbero abitati: i suoi committenti.
Questi studi l’avrebbero portato ad avvolgere il suo lavoro in un misticismo scientifico; alla ricerca di un linguaggio sempre più espressione delle emozioni e della psiche.
In tal senso esemplare è il Teatro comico di Ansural e il Cimitero desolato di Edhen.
Raccontano che, qualunque fosse l’umore dei visitatori in questi luoghi, le emozioni venissero convogliate e influenzata dall’architettura degli edifici.
Alterne vicende fecero sì che Arcady all’apice della sua carriera abbandonasse ogni opera per committenti privati e si dedicasse ad un progetto a suo uso esclusivo investendo tutte le sue ricchezze.
Molti affermano che alla base della sua scelta ci fu il fallito tentativo di curare la pazzia della moglie costruendo il Sanatorium nel quale la donna venne rinchiusa inutilmente.
Di tutte queste opere rimangono solo poche testimonianze, le guerre successive ma soprattutto l’accanimento di molti dei suoi discepoli nel cancellare ogni traccia dei suoi segreti insegnamenti ha portato alla distruzione quasi totale delle sue architetture.
In realtà per il Movimento Arcady non si può parlare di veri e propri discepoli.
Il mio antenato non volle mai allievi ma venne comunque preso come esempio da un nugolo di giovani architetti che negli anni costituirono il Movimento.
Con il suo ritiro dalla scena pubblica questi seguaci interpretarono la scelta come il segnale che l’architettura del maestro fosse divenuta una dottrina segreta solo per iniziati.
Ma torniamo al Conte; non molto si sa della sua l’ultima ed esclusiva opera, alcuni ritengo non sia mai stata realizzata; altri pur dubitando che esista ancora concordano che essa venne costruita tra il 1912 e il 1913 in una località segreta del ***.
Pochi disegni, rinvenuti da me nella villa di Ansural e sopravvissuti miracolosamente al saccheggio dei discepoli insieme a qualche inquietante dagherrotipo dell’epoca, testimoniano che l’opera fu perlomeno iniziata.
Dalle poche documentazioni sembra che si trattasse di un immenso Tempio in parte sotterraneo immerso in un intricato labirinto.
Non ci sono ad oggi testimonianze di operai e tecnici impegnati nella sua realizzazione; tutto è scomparso insieme al Conte Tolomeo Arcady.
Alcuni hanno ipotizzato che stesse costruendo per se un Mausoleo in cui porre fine ai suoi giorni e con lui, in esso, siano stati rinchiusi tutti coloro che vennero impiegati nell’opera; quasi come per Faraoni dell’Antico Egitto.
Altri hanno azzardato che il Conte con la sua ultima opera sia giunto al passo supremo di creare un’architettura che fosse porta verso il divino.
Ma questa è solo una delle tante stravaganti supposizioni e leggende che aleggiano ancora sulla figura di questo mio misterioso antenato.
Eppure, anche oggi è possibile…”
«Professor Arcady questo suo testo sulla vita del suo antenato mi ha profondamente colpito.»
«Mi chiami pure Clemens, signorina Ginevra; pensavo che nessuno si ricordasse più di questo mio vecchio e noioso libro sulle vicende di famiglia.»
Nel suo modesto e spartano ufficio dell’Università, il professore, un uomo burbero e corpulento di mezza età, osservava divertito una giovane, timida ed emozionata, seduta davanti a lui.
La ragazza, evidentemente intimorita, intrecciava le mani nervosamente.
«Al contrario Professore, ho trovato i suoi scritti molto acuti e suggestivi, tanto da dedicare la mia tesi di laurea in Architettura all’Opera di Tolomeo Arcady.»
L’uomo sorrise compiaciuto; di natura solitaria non era avvezzo ai complimenti, tanto meno di una giovane ammiratrice.
«Tolomeo era il fratello del mio Bisnonno e la fama di questo mio, diciamo prozio, è sempre stata fonte di imbarazzo in famiglia.
Quando ero giovane la sua figura sinistra mi affascinava ma sono anni che non mi occupo più di quelle vecchie storie; il mio lavoro qui all’Università mi impegna troppo!»
La ragazza sembrava delusa, per cui il professore proseguì:
«Però devo dirle che la sua e-mail con la richiesta di questo appuntamento mi incuriosisce molto. Una giovane e promettente architetto interessata a queste vicende… “cosa vorrà mai esattamente da me?” mi sono chiesto.»
Ginevra abbassando lo sguardo cominciò incerta:
«Vede Professore Arcady…»
«Clemens…» la corresse.
«Clemens, lei nel suo libro afferma che nessun edificio del Conte è sopravvissuto integro fino ad oggi…»
Il professore si affrettò a confermare.:
«Tolomeo non ebbe discendenti e non lasciò nessuna proprietà immobiliare in eredità. Degli altri edifici privati da lui realizzati mi risulta rimangano solo macerie. Anche la Villa di Ansural è poco più di un rudere… Ma queste cose le conosce già visto che ha letto il mio libro!»
Lei alzò lo sguardo bruscamente fissandolo negli occhi.
«Clemens, … avrei bisogno del tuo aiuto … dei clienti che mi hanno commissionato il restauro di una vecchia casa acquistata da poco.»
«Una casa?» domandò sorpreso il professore.
«Sì, una casa abbandonata da decenni che dicono… infestata.»
«Architetto, non mi dica che crede ai fantasmi?» disse sarcastico il professore.
«No, ovviamente no… quella casa è molto luminosa e bella, anche se in pessime condizioni, e non sembra affatto un luogo inquietante.»
«E allora?»
«Sono convinta che si tratti di una Casa-ritratto del Maestro.»
«Una Casa-ritratto… e di chi?»
Questa volta fu Ginevra a sorridere.
«Si trova a trenta chilometri sulle colline ad est della città circondata da un grande parco… venga con me a visitarla e me lo dirà lei stesso!»
«Margaret Arcady!» esclamo Clemens sbalordito.
«La moglie del Conte, ne ero certa!» intervenne Ginevra soddisfatta della conferma.
Al centro del Salone troneggiava un ritratto del Signore e della Signora Arcady.
Ginevra ed il Professore osservano il quadro che risaltava nello sfacelo di quella vecchia casa.
«L’ho trovato durante il sopralluogo scostando dei vecchia armadi ed ho subito riconosciuto il Conte che avevo visto in un fotografia pubblicata sul suo libro.»
Il dipinto mostrava la coppia immersa in un paesaggio di campagna, forse il giardino della villa, con sullo sfondo un Ninfeo.
Tolomeo Arcady, ben riconoscibile nel quadro, era stato ritratto vestito in modo impeccabile con marsina, tuba e guanti.
Era in piedi, se pur appoggiato ad bastone dal pomello dorato, malgrado, o forse proprio per questo, la sua nota menomazione ad una gamba che gli rendeva difficoltoso camminare.
Seduta davanti a lui la moglie Margaret sorrideva elegante indossando un capello decorato da piume con una ampia falda che le ombreggiava il viso dolce.
«…e questa sarebbe stata la casa di campagna di Margaret?» disse Clemens guardandosi intorno.
Ginevra annui.
«La sua Casa-ritratto! Non trova che le somigli molto? … Certo ora è malmessa ma un tempo doveva essere splendente come era lei nel dipinto.»
La dimora era una sorta di anello vagamente ovale con tutti gli ambienti collegati in circolo che si affacciavano sull’esterno verso il parco.
Questa disposizione permetteva di visitare la villa percorrendo in circolo tutte le stanze fino a ritornare al punto di partenza.
Grandi vetrate, adesso in frantumi, permettevano alla luce di illuminare con violenza gli spazi interni senza lasciare agli occupanti alcun spazio d’ombra.
Mentre i muri perimetrali verso l’esterno erano curvi, le pareti interne erano linee oblique frammentate, anche i divisori degli ambienti seguivano questa regola intersecandosi sempre con angoli accentuati.
Come molte della case di Tolomeo Arcady, la villa ruotava su se stessa intorno ad un fulcro centrale permettendo una vista sempre diversa ed una illuminazione perfetta del salotto seguendo il movimento del sole.
L’edificio in pessime condizioni era stato immobile per quasi un secolo ma ora girava lentamente.
«Sembra una casa molto elegante e solare come era la signora Arcady» disse Clemens.
Ginevra estraendo un tablet dalla sua borsa precisò:
«Sì, bella ma l’immagine di insieme sfugge quando la si visita mentre è molto evidente se la si osserva in pianta.»
Mostrando al professore il video con il rilievo della villa aggiunse:
«Cosa le sembra?»
L’uomo guardò brevemente il disegno.
«Un specchio in frantumi, … i pezzi sono sfalsati ma lasciano intuire la forma ovale originale.»
«Giusto! E cosa altro?» esclamò Ginevra entusiasta.
«Le schegge delimitano al centro uno spazio scuro frammentato e intercluso: una stanza segreta.»
«Un luogo scuro circondato da luce abbagliante; la casa apparentemente è uno spazio solare ma il suo cuore è nero… Di Margaret si sa poco ma è noto che il marito tentò di curare la sua malattia nervosa… Forse tanta serena eleganza nascondeva un animo fragile.»
«Dobbiamo entrare in quella stanza! … Forse abbattendo le pareti?» suggerì Clemens.
«Nulla di così devastante … La scorsa settimana con gli operai dell’impresa siamo riusciti a sbloccare il meccanismo e a far girare nuovamente la casa e, con il crepuscolo, è apparsa una porta.»
Clemens la guardò sorpreso.
«Un passaggio?»
«Non sono voluta entrarci … Ho fermato i lavori di restauro ed ho deciso di contattarti… Ho pensato che dovevi vederla.»
«Allora, cosa aspettiamo! … Andiamo!»
«Ancora un po’ di pazienza Clemens, la casa sta girando e tra qualche minuto sarà in posizione.»
Dall’allontanarsi di due pareti, che prima si intersecavano, si formò un passaggio.
L’ingresso conduceva ad un stretto e tortuoso corridoio con angoli spezzati che non permetteva di vedere subito la stanza segreta in fondo al percorso.
Poi, il corridoio si apriva mostrando un locale buio dalle pareti sghembe in cui troneggiava un letto a baldacchino.
Pochi altri vecchi e polverosi mobili completavano l’arredo di quella lugubre stanza; tra questi un tavolino per il trucco con uno specchio ovale in frantumi appeso sulla parete.
L’unica luce giungeva lontana da un lucernaio celato in copertura.
Era questo il cuore segreto della Casa-ritratto e rappresentava l’animo nascosto di Margaret Arcady.
Il luogo scuro risultava opprimente ed i sensi offuscati di Clemens e Ginevra ci misero un po’ prima di notare la scritta nella cornice ovale dello specchio vuoto; l’ultimo messaggio della Signora Arcady:
“Margaret non abiterà più qui… la sua guarigione l’attende sotto il ninfeo.”
Ginevra guardando lo specchio disse:
«Si riferisce al Sanatorium che Tolomeo fece costruire per curarla.»
Lentamente i due uscirono dalla stanza segreta sentendo la necessità di prendere aria e riaversi dalla inquietante scoperta.
Clemens, disorientato si mise a fissare il ritratto in salotto guardandolo sotto una nuova luce.
«Il Sanatorium! … Si racconta che la rinchiuse lì dentro per guarirla. Il luogo stesso doveva essere una cura capace di riprodurre effetti simili all’elettroshock, una terapia ancora sconosciuta all’epoca. L’idea del Conte era quella di cancellare le idee fisse della moglie annichilendo parte della memoria e ripristinare il funzionamento corretto della mente di Margaret.»
Ginevra era impressionata.
«Non vedi l’analogia? … Oggi forse è più facile, abbiamo l’esempio dei computer e dell’intelligenza artificiale ma per il Conte fu una vera grande intuizione derivata dalle sue letture sulla Psicanalisi del tempo. La mente funziona in stati di coscienza differenziati ed in diverse modalità provvisorie, come un sistema operativo è possibile resettarla e farla ripartite modificandone le impostazioni.»
Clemens sembrava come stordito da quelle rivelazioni.
«Personalmente mi sono sempre sembrati vaneggiamenti… come questa sua idea di riprodurre gli uomini nelle case ed influenzarne la mente …»
Ginevra insistette:
«Oggi molti studi affermano che esiste un rapporto diretto tra la qualità delle forme della realtà esterna ed i processi organici corporei della persona, si tratta di fenomeni indotti da meccanismi neurosensoriali, in particolare sarebbero i cosiddetti neuroni specchio …»
Clemens infastidito:
«Sono solamente ipotesi pseudoscientifiche … Per capirne di più dovremmo trovare il Sanatorium, ma come?
Ginevra sorridente:
«Un indizio c’è… ma ormai è quasi buio. Propongo di rincontrarci qui domani mattina.»
Fu, per Clemens, una notte insonne.
La scoperta della Casa-ritratto costruita dal suo antenato l’aveva sconvolto e l’attesa per l’appuntamento del giorno dopo gli risultò interminabile e snervante.
Troppi pensieri occupavano la sua mente, dopo l’infatuazione giovanile per quelle strane vicende di famiglia aveva deciso di rifuggire dalla figura ingombrante del suo Prozio e ritrovarsi dopo tanti anni sulle sue tracce lo riempiva di un misto di eccitazione e repulsione.
Inutile dire che il giorno seguente si alzò all’alba e giunse davanti al cancello della villa con molto anticipo.
Fortunatamente non era il solo impaziente di proseguire l’indagine e appena dentro il parco vide la giovane architetto che l’attendeva.
«Buongiorno Professore, immagino che nessuno di noi ha dormito molto questa notte!»
Clemens rispose con un sorriso imbarazzato.
«Da dove iniziamo?»
Ginevra sorrise complice.
«Penso di sapere dove cercare!»
Camminarono per qualche tempo nel parco finché la ragazza gli mostro il rudere di un tempietto.
«Lo riconosce?»
«Sì, è il ninfeo rappresentato sullo sfondo del quadro nel salotto.»
«Incredibilmente l’acqua scorre ancora ma soprattutto guarda al centro della vasca … Lo scorgi il pozzo?»
Senza indugiare oltre, entrarono nel Ninfeo bagnandosi fino al ginocchio e, attraversata la vasca, scorsero nel pozzo, dove si riversava l’acqua, i gradini di una scala a chiocciola che scendeva sottoterra.
Preso dall’entusiasmo Clemens percorse di corsa la stretta scaletta seguito da Ginevra.
Arrivato in fondo, attraversò quindi un portale giungendo in uno spazio sotterraneo.
Poi, accadde tutto molto in fretta.
Subito dopo che il professore ebbe messo piede nell’ambiente sentì un tonfo ed il portale alle sue spalle si chiuse.
Ginevra rimasta fuori batteva inutilmente i pugni sul pesante portone.
Il professore si ritrovò solo rinchiuso in quello che doveva essere il Sanatorium costruito dal Conte.
L’edificio sotterraneo era costituito da una unica volta a botte chiusa in circolo al cui centro, in una sorta di pozzo-colonna, risultava inserita la scalinata a chiocciola di accesso.
La luce penetrava attraverso strette fessure ricavate tra i conci della volta.
Sulla continua parete curva perimetrale erano appesi grandi dischi con raggiere colorate che iniziarono a ruotare sempre più velocemente.
Clemens confuso cominciò a correre in circolo provando una fuga impossibile. Ovunque guardasse le spirali prodotte dai dischi che vorticano avevano su di lui un effetto ipnotico e la sua mente cominciò a vacillare.
Strinse forte gli occhi per non guardare, ma il suono ritmico che accompagnava il ruotare dei dischi gli riempì la testa.
Si portò le mani alle orecchie sperando di attenuare l’effetto acustico; tutto inutile la vibrazione gli penetrava nelle ossa e la sua mente incapace di opporsi al comando si modificava portandosi ad un diverso stato.
Poi, colmo di tale sofferenza, Clemens perse conoscenza.
«Dottore, si è svegliato!»
«Signor Arcady mi sente?»
Clemens era steso su un letto circondato da medici ed infermiere.
«Dove sono?»
«Lei è in ospedale… Ha perso i sensi improvvisamente… Stiamo facendo accertamenti.»
«Non ricordo niente, come sono arrivato qui?» rispose confuso il professore.
Un’infermiera dal volto rassicurante intervenne:
«Una ragazza, qualche ora fa, l’ha lasciata al pronto soccorso per poi andarsene via.»
«Ora come si sente?» gli chiese il medico controllando le pulsazioni.
«Bene, mi sembra! … Sono solo molto confuso!»
«Le abbiamo fatto un elettroencefalogramma; ha subito un forte shock ma non ci sono danni. Resterà qui in osservazione, per sicurezza, fino a domani.»
Clemens stordito salutò il medico che si congedava:
«Grazie, dottore!»
L’infermiera premurosa gli indicò il comodino al fianco del letto.
«I suoi effetti personali sono nel cassetto; c’è anche il suo cellulare, se vuole chiamare qualcuno …»
«Sono molto stanco. …Forse dopo…» rispose sfinito Clemens.
Dormì tutta la notte un sonno agitato costellato da sogni e visioni.
Vide il suo antenato, il Conte Tolomeo Arcady, piangere la morte della moglie Margaret nel Sanatorium che avrebbe dovuto guarirla.
Lo vide portare il corpo esamine della sua amata sposa, attraversando un fitto labirinto di alte siepi, nel suo Mausoleo; stenderla su un altare e sdraiarsi in fianco a lei ed attendere …
Poi, alla mattina il suono di un bip lo sottrasse ai suoi incubi.
Ancora stordito, Clemens afferrò il cellulare che la notte prima l’infermiera aveva riposto nel cassetto del comodino in fianco al letto.
Era un messaggino di Ginevra
«Ho trovato il Mausoleo del Conte, ho bisogno di te, ti prego raggiungimi appena puoi al vecchio Cimitero di Edhen.»
Il professore provò subito a richiamarla ma il telefono di lei risultava spento.
Clemens preoccupato si rivestì in fretta, firmò il foglio di dimissioni dall’Ospedale e con un taxi si diresse subito al luogo dell’appuntamento.
Due ore dopo l’auto lo lasciò davanti all’ingresso del vecchio cimitero, opera del suo antenato.
Il tassista, ricevuto il compenso, si allontanò rapidamente. Come sempre, quel posto emanava un’aurea oscura che induceva tutti a fuggire il più in fretta possibile.
Troppo inquietante e desolato, era stato Cimitero di Edhen solo per pochi anni agli inizi del secolo scorso.
Il macabro luogo si articolava in una serie ordinata di tozze e squadrate torri cinerarie disposte a semicerchio intorno ad una collina verdeggiante ma sempre coperta da una fitta nebbia.
Ora che era completamente in rovina, con i ruderi aggrediti da nodosi rampicanti ed avvolto da una caligine biancastra, il cimitero era, se possibile, ancora più opprimente.
Superato il reticolo di torri diroccate, il professore si inerpicò su per la collina seguendo l’intricata e fitta vegetazione che un tempo, si intuiva, doveva formare le siepi di un maestoso labirinto.
Fu lì che la vide.
Ginevra correva lontano nella boscaglia, evanescente quasi come uno spettro, appena distinguibile nel biancore della nebbia.
Lui la chiamo più volte ma lei non sembrava sentirlo.
Il professore si mise all’inseguimento deciso a raggiungerla.
Arrivò quasi in sommità della collina verde dove la vide sparire dietro un’intricata parete verde.
Senza pensarci entrò anche lui…
Una grande cupola come quella del Pantheon sovrastava un ambiente maestoso e oscuro al cui centro si intravvedeva un altare luminescente dietro al quale Ginevra lo stava aspettando.
Sull’altare gli scheletri consunti di un uomo ed una donna con vestiti laceri. Una mano scheletrica stringeva ancora un bastone dal pomello dorato.
«Ginevra, cosa sta succedendo?» chiese Clemens allarmato avvicinandosi a lei.
La donna aveva negli occhi un’espressione determinata e spietata che contrastava con l’immagine della timida e solare Ginevra che aveva conosciuto solo pochi giorni prima.
«Non comprendi? Questo è il Mausoleo che accoglie le spoglie del Maestro e della sua sposa!»
Il professore guardò la mirabile struttura nascosta e inglobata nelle sommità della collina stessa.
L’immensa volta ricoperta da un giardino pensile era costellata da migliaia di ciechi fori ovali.
«Allora, esiste davvero! Ma perché tanta segretezza?»
«Perché così doveva essere! … Così hanno tramandato i discepoli del Maestro a noi iniziati del Movimento Arcady.»
«Il Movimento? Allora tu sei una di quei fanatici!»
«L’ultima! … Colei che porterà a compimento la Sua più grande opera. Sei stato preparato come me nel Sanatorium e ora per noi è giunto il tempo di rinascere!»
Ginevra azionò un meccanismo sul bordo dell’altare ed improvvisamente l’ambiente buio si rischiarò.
Dai mille occhi della cupola, con un sistema di specchi, la luce cominciò ad entrare fluendo in fasci che proiettavano mille ombre di Clemens e Ginevra.
I fori in successione si aprivano e chiudevano sbattendo palpebre meccaniche.
Luci intermittenti, in una precisa sequenza, li investirono assordandoli, annientandoli.
Le loro menti cominciarono a mutare, quel luogo delle anime rovesciava su di loro una diversa essenza ed in una completa riprogrammazione fluivano in loro ricordi, idee e pensieri.
Entrambi caddero a terra trafitti da tanto cambiamento. Poi, giunse il silenzio e con esso una nuova consapevolezza.
Dall’intricata boscaglia emersero due figure familiari; un uomo ed una donna procedevano affiancati a braccetto.
Lei elegante incedeva fiera ed altera mentre l’uomo, zoppicando, si sosteneva con un vecchio bastone dal pomello dorato.
Si guardarono intorno compiaciuti.
Infine, erano tornati.
IL LUOGO DELLA MENTE è un racconto di Manfredo Occhionero
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