IL NOME DELL’OMBRA di Vito Davoli
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Il medico uscì dalla vecchia stanza da letto con lo sguardo esterrefatto, cambiando ripetutamente espressione, ora incredula ora nauseata.
Sancì e registrò la morte di Leo: per infarto, verbalizzò.
Per asfissia, invece, quella di sua madre.
E questo era sufficiente a comprendere alcune delle sue reazioni ed espressioni.
Altre, invece, apparivano piuttosto inusuali per un medico legale, un patologo abituato a dichiarare morti e a mettergli le mani addosso per mestiere. Tuttavia, di fronte a un poco più che quarantenne che tira le cuoia per soffocamento con un’erezione in corso mentre dorme accanto a sua madre quasi ottantenne, gli sembrò davvero difficile da mandar giù così, en passant.
Fu questa immagine a rimanere stampata nella memoria del dottore mentre si affrettava a lasciare quella casa sebbene entrambi, mamma e figlio, fossero perfettamente stesi, composti e immobili, quasi fossero già pronti ad essere impacchettati in una bara, senza alcun dettaglio sconcio che potesse far pensare a una situazione torbida se non fosse per quella evidente erezione.
Andò via quasi correndo senza dare troppi dettagli e soddisfazioni a nessuno; quasi volesse evitare chiunque cercando di guadagnare l’uscita il prima possibile, a passo sostenuto e lasciando il documento ufficiale al volo su un vecchio mobile in legno, finto rococò, lì all’ingresso da oltre mezzo secolo.
Scomparì nel pianerottolo e da lì giù per le scale senza neppure congedarsi dalla figlia della defunta, Alice, la sorella di Leo, circondata da parenti, figli, zii e cugini lì in attesa di una qualche approfondita spiegazione.
Leo, all’anagrafe Pantaleo, la notte prima aveva deciso di coricarsi accanto a sua madre fermamente persuaso a trascorrere la notte sveglio per poter vedere coi suoi occhi ciò che sua madre andava ripetendo senza sosta ormai da mesi o per lo meno poter dimostrare l’assoluta infondatezza di quelle storie alle quali lui stesso dopo tutto aveva finito per cedere se non proprio crederci, da quando Kaska – questo il nome di sua madre – aveva vuotato il sacco rivelando uno dei segreti che si era portata dietro coccolandolo e coltivandolo nel silenzio di tutta una vita.
Da anni di tanto in tanto tirava fuori una strana storia: raccontava di una signora vestita di nero che quasi ogni notte le faceva visita.
Leo non aveva mai dato troppo peso a questa immaginazione: dopotutto, raccontata da sua madre, da sua nonna e dalla vecchia che tagliava i palloni quando da bambini passavano le controre a giocare per strada. Non gli sembrava molto diversa dalla storiella tradizionale che da secoli apparteneva alla sua città e che chiunque dei suoi concittadini avrebbe saputo ripetere a menadito.
Gente che avesse avuto, in un modo o nell’altro, una qualche esperienza diretta o indiretta, un qualche “incontro ravvicinato” con la mêlòmbrə non era affatto difficile da rintracciare. Erano stati scritti interi libri sulla veridicità più o meno probabile di questa storia, sul suo primato nella classifica del folklore locale, sui dettagli della vicenda tradizionale più ortodossa o sulle ipotesi di identità dello spirito. Da qualche anno, aveva notato che si cercava pure di recuperarla e riproporla come utile attrattiva turistica.
L’ultima volta che ne aveva sentito parlare prima di allora, fu in occasione della costruzione di un nuovo stabile, alla fine della lunga via Roma. Un condominio di colore rosa e grigio sorto sulle macerie di un’ala del convento delle suore del Santissimo Sangue di Cristo che aveva faticato non poco ad essere abitato: non senza remore, gli acquirenti di quegli appartamenti erano arrivati alla stipula del contratto, sommersi come furono, in quel periodo, di storie che questa volta si coloravano di nuovi inediti particolari.
Dovettero cedere all’ottima offerta che il costruttore dell’edificio andò progressivamente limando, egli stesso costretto a fare passi indietro di fronte al fatto che una voce di popolo stava quasi per compromettere completamente il suo lavoro e il suo investimento milionario.
Se la storia della malombra fosse talmente potente in città da influire sui prezzi delle abitazioni o se, di fronte a una buona occasione di acquisto immobiliare, neppure la malombra avesse abbastanza potere dissuasivo, non è possibile stabilirlo con certezza scientifica.
Piuttosto, alcuni di questi condomini, chissà per quale ragione, continuarono ad alimentare quelle storie. Perseverarono nel confermare che durante la notte si udivano melodie suonate al pianoforte miste a sospiri e aliti sonori che gli impedivano la tranquillità del sonno.
Kaska e i suoi figli non riuscirono a prendere casa in quello stabile.
Ci avevano provato. Avevano sperato, con i pochi risparmi e qualche sostegno economico venuto fuori dopo la recente morte del padre, di interrompere la lunga tradizione di case in affitto e di riuscire ad avere finalmente una casa propria.
Suo padre Vittorio, però, se n’era andato proprio nel momento peggiore. Mentre valutavano questa opzione, la ventata d’aria proveniente dagli accantonamenti del suo lavoro di ferroviere arrivò troppo tardi per consentire loro di dare concretezza a quel sogno.
«Non ha mai fatto niente di buono in vita sua» sentenziava crudelmente Kaska «dopo il nostro matrimonio! Perfino il lavoro ho dovuto trovargli! L’uomo che avevo conosciuto durante la guerra è scomparso appena messo l’anello al dito! Si è letteralmente dissolto! E pure adesso che se n’è andato, l’ha fatto da perfetto egoista: salutando e… chi s’è visto s’è visto!».
Faceva molta attenzione a non parlare in quel modo di suo marito in presenza dei suoi figli ma quella volta non riuscì a trattenersi di fronte a Leo.
Rimase stupita che il figlio non avesse avuto alcun tipo di reazione.
In realtà Leo conosceva bene quella parte della storia da quando aveva origliato una curiosa conversazione fra sua madre e una sua amica particolarmente ferrata a imbellettare fatti, persone e circostanze pur di ottenere un valido ‘ndrattìənə per le fredde serate invernali sul pianerottolo.
Una vera cultrice di scheletri nell’armadio; una sincera creativa dei “cazzi degli altri”.
Peccato che fosse pure la proprietaria dell’ultimo appartamento in affitto in cui vivevano da qualche tempo.
Fu in quella circostanza che conobbe i dettagli di una storia che, dopotutto, gli sembrò affascinante. Sapeva che non era vero che suo padre non avesse mai fatto niente di buono così come era rassegnato all’idea che in preda alla rabbia sua madre era capace di spararle grosse, salvo poi pentirsi e tornare sui suoi passi. Non riusciva a condannare né l’uno né l’altra: suo padre e sua madre si erano amati ma il matrimonio a un certo punto doveva essere finito.
Succede, pensò.
Conosceva la capacità di amare dei suoi genitori: ne aveva avuto prove frequenti, tanto direttamente che indirettamente. Sapeva che sua madre era sempre stata una donna pragmatica, instancabile ai limiti dell’iperattività, sua, e della capacità di sopportazione degli altri. Quando, però, si metteva in testa un obiettivo, doveva raggiungerlo a qualunque costo.
Sapeva anche che se, nella vita, nonostante tutto, a lui e a sua sorella non fosse mancato mai nulla, lo avrebbe dovuto ad entrambi. Gli era sempre parso che si completassero perfettamente anche nelle circostanze più improbabili. Era convinto che il miglior controcanto alla “furia buona” di sua madre fossero proprio i silenzi accondiscendenti di suo padre il quale, tuttavia, non sembrava mai perdere di vista quelle che lui, nelle sue rare parole, chiamava “le cose importanti”, “i valori veri”.
Probabilmente, ad una di queste cose importanti doveva essersi aggrappato quando seppe che Alice non era sua figlia.
Leo si stupì di sé stesso rendendosi conto che la cosa non gli creava alcuno sconvolgimento: non riusciva a considerarla se non in quel modo e non credeva che quel dettaglio fosse un elemento di una qualche importanza all’interno dei rapporti e degli affetti di una famiglia. Poco importava e probabilmente questi dovettero essere anche i pensieri di suo padre. Fu, piuttosto, subito portato a pensare a quella storia origliata e provò quasi involontariamente a ripercorrerla fin dall’inizio, da quando sua madre, poco più che adolescente, fu costretta a sdraiarsi precipitandosi fra i residui e i liquami cacciati dai corpi appena fucilati in mezzo ai quali lei finse di essere morta imbrattandosi qua e là con tutto ciò che in quei pochi secondi trovava disperatamente a disposizione delle sue mani cieche.
Fu questo il modo con il quale la giovane Kaska pensò rapidamente di salvarsi la vita mentre le truppe italiane nel ’43 si accanivano contro i civili dei villaggi della ex-jugoslavia nella zona fra Montenegro e Sangiaccato.
Da almeno due anni si avevano notizie di rastrellamenti ed eccidi nel territorio: si mormorava, fra gli abitanti dei villaggi, di quanto era successo a Pljevlia o nei villaggi di Causevici e Jabuka, bombardati, dati alle fiamme e i civili rimasti, spietatamente trucidati dai soldati del bel paese sotto gli ordini perentori e sfrontati del generale Biroli.
Qualche tempo prima a Pjesivci, Milka e Djuka, coetanee di Kaska, erano state brutalmente violentate prima di essere ammazzate con un colpo al seno e una vecchia signora bruciata viva nella sua casa.
All’esercito italiano rispondevano i partigiani slavi, comunisti, civili e disperati di ogni genere in un continuo ping-pong di rappresaglie, agguati, sparatorie e morti che andò avanti per tre anni fino a che non si cominciò a catturarli per deportarli nei campi di concentramento organizzati sul territorio italiano.
A Kaska quegli anni e quelle notizie sembrarono sufficienti a non andare tanto per il sottile quando si trovò nel bel mezzo di un fuoco incrociato fra non sapeva neppure lei chi esattamente. L’unica reazione che istintivamente riuscì a concepire fu quella di fingersi morta:
«La morte» disse a sé stessa «era l’unica via per mantenersi in vita!»
Stesa fra cadaveri che si ammassavano “a pozzanghere” qua e là sulle parti di sterrato più incavo rispetto al livello utilizzato come strada dai passanti, voltò il viso dalla parte opposta a quella in cui pensò si sarebbe scatenato l’inferno fra i fucili avversari e così fu.
Girando violentemente la testa e chiudendo gli occhi, sentì sbattere il labbro contro qualcosa di indefinito: non osò riaprirli per rendersi conto di cosa avesse urtato. Era facile immaginarlo ma dovette resistere alla tentazione di guardare quando percepì di avere il labbro bagnato da qualcosa. La goccia lenta percorse la guancia fino a scivolare sul lato del labbro e da lì fu facile accennare una lieve apertura della bocca per lasciar entrare quella goccia e rendersi conto che era sangue.
Fu il fragore furioso degli spari e quel fumo confuso misto alle nuvole sollevate dallo sterrato che le suggerirono di approfittare del momento per scivolare in una posizione più comoda, magari più indecorosa ma più credibile, approfittando anche per bagnarsi le mani nel sangue vicino e imbrattarsi il retro della nuca da mostrare in bella vista per poter sembrare un cadavere a tutti gli effetti.
Quel movimento, sebbene rapido e furtivo, fu notato da un giovane soldato mentre chiudeva un occhio per mirare col fucile. Con la coda di quello aperto non poté non notare braccia candide e due bellissime gambe che gli sembrarono agitarsi istericamente per poi ripiombare di colpo in una cadaverica immobilità. Non distolse mai l’attenzione da quel corpo pensando perfino che ciò a cui aveva assistito fosse, probabilmente, l’ultimo rantolo di vita di un giovane corpo prima di esalare l’ultimo respiro.
Vittorio non combatteva contro i partigiani slavi. Faceva parte di quel gruppo di militari italiani che, stanchi di ordini folli e umanamente insostenibili nello scaricare una feroce crudeltà contro civili inermi e disarmati, senza distinzioni fra donne e bambini, decisero di puntare i fucili contro le milizie tedesche, alleate degli italiani e quindi prendere contatti e stringere nuove alleanze con gli slavi.
Chissà se fu quel cambio di rotta, se fu la notizia dell’arresto del generale Roncaglia nel settembre del ’43 o forse il semplice interesse verso quel corpo che aveva notato muoversi fra i cadaveri a consentirgli, fra mille difficoltà, di avvicinarglisi, salvarlo e scoprire una donna di una bellezza tale da sospendergli il respiro nel petto, come una diva hollywoodiana, tanto da decidere, in un solo fulmineo momento, di portarla via con sé immaginando già la vita intera accanto a quella creatura.
La povertà italiana arrivava deleteria fin nelle ossa come l’umidità, nociva fin nei polmoni come un gas venefico, letale fin nelle vene come un veleno serpentino. Solo nello stomaco non arrivava, anzi, lì non arrivava nulla.
Kaska e Vittorio una volta in Italia, si erano sposati frettolosamente ma sufficientemente innamorati per decidere di mettere su famiglia. Il loro primogenito, nato a breve, prese il nome del padre di Vittorio: Pantaleo, come da tradizione. Né lei osò contraddirlo. Dopotutto abbracciava usanze, semisconosciute, che l’avevano ospitata dopo averle salvato la vita e offerto un futuro. Non le costava nulla accettarle e farle proprie.
Quel futuro le aveva riservato anche grandi sorprese.
Nel nuovo ambiente si era adattata perfettamente fino a comprenderne i segreti che consentivano alla macchina di rimanere perfettamente oliata e funzionante.
Affrontò quindi la nuova realtà com’era tipico del suo temperamento: a pugni chiusi, denti stretti e ben piantata sulle sue gambe perfette!
Le sue gambe: armi di lotta straordinariamente efficaci.
E la povertà fu sconfitta grazie al nuovo lavoro di ferroviere con cui Vittorio fu ricompensato per il suo silenzio e il suo discreto “disinteresse”.
«So io cos’ho dovuto fare per portare un piatto in tavola! Perché lui avesse un lavoro degno!», affermava con voce decisa e sostenuta per poi rimodularla e continuare:
«Ma l’ho fatto convinta di dover in qualche modo ringraziare l’uomo che mi ha salvato la vita».
Il loro matrimonio proseguì senza alti né bassi, in un apatico stato di calma apparente che, sopito l’amore, consentiva di andare avanti senza troppi scossoni e sconvolgimenti.
Almeno finché, tra le altre sorprese riservatele dal futuro, non comparve Felipe, un migrante spagnolo trasferitosi in città, di ottima famiglia, rispettabile e facoltosa, con cui Kaska riscoprì gli ardori e le passioni che la guerra aveva rubato ai suoi anni migliori.
Non seppe né volle evitare di gettarsi a capo fitto in quella relazione: era inebriante l’idea che la vita in qualche modo le stesse restituendo ciò che le aveva sottratto pur senza colpe.
Per quanto superstiziosa, non seppe né volle fermarsi a pensare, come avrebbe fatto in circostanze normali, che non ci sono regali gratuiti che la vita conceda senza chiederne conto prima o poi.
Quando, con gli anni, sentì che il tempo la poneva di fronte al momento dei resoconti, il suo modo di tradurre l’amore e la devozione verso la famiglia e il senso di protezione nei confronti dei figli diventava un tentativo di evitare che chi amava corresse anche il minimo rischio di ricalcare le sue orme e di ripetere le esperienze che lei stessa aveva vissuto. «Nessuno doveva rivivere il suo stesso destino!» ripeteva fra sé.
E per questo si sacrificava con convinzione e qualche sorriso.
Nessuno dei suoi figli aveva un nome slavo né loro avrebbero dovuto mai chiamare i propri figli con il suo nome; nessuno della sua famiglia avrebbe dovuto rimanere senza lavoro, uomini o donne che fossero: i primi perché la dignità (e la rispettabilità, quella che passa per il silenzio della gente, come avrebbe sostenuto anche l’amica padrona di casa) si misura con il lavoro stesso e le seconde perché non avrebbero dovuto dipendere da nessun maschio né sottostare ad alcun ricatto o senso di debito nei confronti di questi.
A nessuno aveva insegnato alcuna parola della sua lingua madre, quella in cui pensava, e finché si evitava di spargere sale a tavola o di frantumare bottiglie d’olio piene, tutto avrebbe compiuto il suo corso tranquillamente.
Questo il catechismo di Kaska negli anni della maturità ma, adesso, ancora giovane, bella e desiderosa di mettere alla prova la generosità dell’esistenza, aveva identificato in Felipe il suo lasciapassare per la felicità e la realizzazione di donna: quel che sarebbe stato domani, domani si sarebbe visto e affrontato.
Sentiva l’euforia e il fremito nevrotico che l’amore provoca quando diviene totalizzante, l’identificazione della propria vita con quella di Felipe. Riusciva a tenere ben separate l’esperienza di moglie e madre da quella di amante passionale senza che mai una delle due subisse colpi tali da pregiudicare i delicati equilibri che aveva abilmente inanellato nello scorrere della quotidianità.
Tutto a suo modo sembrava perfetto. Perfino la città, nonostante i fugaci e furtivi incontri con il rampollo spagnolo, sembrava una sorta di paese delle meraviglie, prima e dopo l’amore.
Alice fu il nome che volle dare alla figlia nata da quella relazione.
Un castello celeste di beatitudine e infernale di passioni, miseramente sgretolatosi quando Felipe decise di non riconoscere Alice.
«È la Gəvénnə! È la Gəvénnə! Ha dìttə cà sə chiémə Gəvénnə»[1] continuava a dire da qualche anno a quella parte in quel suo strano dialetto che non aveva mai rinunciato alla melodia e alle flessioni della sua lingua originaria.
Kaska ripeteva quel nome, Giovanna, nel sonno e nella veglia, durante la notte. Pure nelle ore del giorno, di tanto in tanto, sembrava non riuscisse a trattenere quella riflessione ad alta voce nei momenti in cui sembrava completamente estraniarsi da tutto ciò che le capitasse attorno per poi tornare, qualche istante dopo, alla normalità, come fosse stato nulla.
«Mamma, chi è Giovanna? Chi si chiama Giovanna?» aveva cominciato a domandare Leo circa un decennio prima della loro morte.
Era preoccupato per le condizioni di salute di Kaska e tentava di farla parlare, di sollecitarla a dare un senso compiuto alle cose che diceva e che apparivano senza senso ai suoi occhi.
A quella domanda lei non rispondeva. Sembrava piuttosto che quella frase fosse la chiave di sblocco di una sorta di ipnosi nella quale ricadeva ogni volta che nominava Giovanna. Quando lui cercava appoggio incrociando lo sguardo di sua sorella Alice, trovava quello sguardo sempre basso e quasi respingente, lei muta e senza alcuna capacità di suggerire alcunché di utile salvo un improvviso entusiastico sostegno la volta in cui Leo pensò di sottoporre sua madre a una serie di visite specialistiche per verificare che non si trattasse di Alzheimer, di Parkinson o chissà cos’altro.
In realtà lei ci sperava. Una diagnosi di quel tipo avrebbe potuto consentirle di mantenere il segreto che sua madre aveva confidato solo all’amica pettegola e a lei qualche anno prima, quando fu il momento di rivelarle la verità.
Kaska aveva descritto minuziosamente le sue notti insonni. Aveva anche fatto coprire gli specchi di fronte al letto nuziale con delle vecchie lenzuola ingiallite e inservibili ma perfettamente utili per quello strano scopo la cui finalità rimaneva oscura a Leo. Ma, dopotutto, era la sua camera da letto e poteva farne ciò che voleva.
Parlava ormai di frequente della signora vestita di nero che girava attorno al letto mentre lei, stesa, non riusciva ad accennare alcun minimo movimento, preda di una paura che riconosceva, che quasi le sembrava di rivivere ricordando le fosse di cadaveri nelle quali si era tuffata da ragazza obbligandosi a rimanere immobile.
Diceva che la signora nera non camminava. Non volava neppure ma non aveva quel dondolio tipico di chi, camminando, sposta il peso da un passo all’altro. Non deambulava. Scorreva lenta e liscia contro una sottile brezza che lei non percepiva se non addosso agli scialli e alle tuniche nere dell’ombra che sembravano dondolare leggermente e serpeggiare con delicatezza.
Passando da una parte all’altra del letto non mostrava mai il viso, sempre coperto per tre quarti da un sottile velo nero lasciato libero di ondeggiare come tutte le altre stoffe semitrasparenti che portava addosso.
Due o tre volte attorno al letto, poi di colpo spariva e se la ritrovava addosso, accovacciata sul petto e pure in quella posizione non riusciva a vederle il viso, immerso nell’oscurità dell’ombra che sembrava abbracciarla in modo innaturale a dispetto di una qualunque fonte di luce casuale provenisse dall’esterno.
Non ne percepiva il peso addosso ma il respiro le mancava e sembrava abbandonarla pian piano fino a un punto limite che aveva imparato essere la fine dell’apparizione, il momento in cui, mentre lei rimaneva con l’ultimo residuo di fiato che le avrebbe consentito di recuperare la vita tornando a respirare, l’ombra della signora nera scompariva, si dileguava semplicemente, restituendo all’intera stanza la sua luce naturale che sembrava abbagliante sebbene si trattasse solo di qualche timido barlume proveniente da chissà dove, lì fuori, per strada.
L’ombra non parlava mai. Kaska poteva solo udirne i sospiri: respiri nello stesso tempo profondi, discreti e prolungati come i soffi di vento che passano attraverso una feritoia o una finestra semichiusa.
Questo racconto andò avanti per anni, sempre uguale a sé stesso con qualche piccola variante che di tanto in tanto interveniva a spezzarne la monotonia.
Una volta aveva come percepito le mani dell’ombra attorno al collo; un’altra le parve che l’ombra avesse indugiato più tempo del solito a passare da una parte all’altra del letto; un’altra ancora le si era fermata al capezzale dandole le spalle, quasi volesse specchiarsi sulle ante dell’armadio di fronte al letto che però erano coperte dalle lenzuola ormai da anni.
Fino al giorno in cui l’ombra non cominciò a bisbigliare. E le parve di cogliere in quel sospiro la parola Giovanna, quel nome sussurrato ripetutamente a cadenza regolare fino al momento in cui non scompariva definitivamente.
«Ci sono particolari della storia che non conosci» le disse sua sorella Alice col tono serio di chi sa di stare per rivelare un segreto scottante.
«Per favore, raccontami tutto» fece Leo tenendole le mani. Aveva percepito una punta di dolore nelle sue parole e forse, immaginando per grandi linee quale sarebbe stato il tema di quella confessione, voleva farsi trovare pronto a qualunque evenienza, compresa quella di doverla consolare.
«Ricordi quel distinto signore, lo spagnolo che abitava sul corso Umberto con la sua ricca famiglia di immigrati?» domandò Alice.
«Certo che me lo ricordo. Era una persona per bene o almeno così dicevano tutti. E anche con noi è sempre stato particolarmente gentile quando frequentavamo il quartiere di casa sua da giovani» confermò lui.
Leo ricordava sia la persona in questione sia il fatto che, in un modo o nell’altro, aveva cercato di mantenere un minimo di rapporto civile con loro, sebbene da estraneo. Poi aggiunse:
«Non ho mai capito se fosse un amico di papà, della famiglia o cosa. Non l’ho mai visto venire in casa di qualcuno di noi; eppure, sembrava conoscerci tutti!»
«Quello era mio padre!» lanciò la bomba, Alice.
Non ci fu alcuna esplosione. Leo rimase in silenzio. Poi, alzando un po’ la voce, redarguì i bambini che giocavano nell’altra stanza, i suoi due figli insieme ai figli di Alice, Carla e Paolo.
«Loro non dovranno mai sapere nulla» sentenziò Alice strappando una promessa a suo fratello.
Non immaginava che di lì a qualche giorno sarebbe successo l’irreparabile.
Felipe non aveva mai voluto riconoscere Alice: i motivi per non farlo erano agli occhi di lui decisamente maggiori dell’unica ragione per cui avrebbe dovuto.
Non bastarono l’amore e la passione né furono sufficientemente solide le convinzioni per le quali mettere in discussione tutto per una che, alla fine dei conti, stava tradendo il marito e forse i figli per qualche ora d’amore nascosti chissà dove, proveniente da un paese e da una cultura sconosciuti che chissà quale sorpresa avrebbe potuto riservargli domani. Lui che era spagnolo! La famiglia in vista, benestante e rispettabile non poteva permettersi uno scandalo di quel tipo.
Felipe era sposato.
Non aveva figli ma aveva una moglie devota, lei stessa appartenente a una delle migliori famiglie della città con una disponibilità patrimoniale che si mormorava avesse consentito a Felipe di avere un matrimonio perfetto, un lavoro straordinariamente retribuito, una casa essa stessa status symbol e un assoluto soddisfacimento di ogni necessità possibile. Eccetto una.
La scienza, ai tempi, non consentiva ancora di poter rispondere anche al bisogno di un figlio semplicemente pagando. Non ne erano arrivati, né voluti da Dio né dovuti alle prestazioni che frequentemente animavano il talamo nuziale non senza sforzi da parte di un uomo nel fiore degli anni e dei migliori impulsi costretto a cercare di rispondere alle sue pulsioni così come alle pressioni della necessità di una “discendenza” di fronte a una donna che temeva la luce del comodino o perfino di lasciar cadere la camicia da notte di fronte al suo legittimo marito.
Sua moglie era sterile, era il verdetto delle innumerevoli visite ginecologiche, andrologiche e di qualsiasi altra natura fossero state quelle infinite che avevano collezionato durante tutto il tempo del loro matrimonio.
Kaska dal canto suo, alla fine della relazione reagì come suo solito con una soluzione che sembrava già quasi a portata di mano, soffocando qualsiasi tipo di dolore e semplicemente cancellando la presenza di quell’uomo dalla sua vita dirottando tutte le sue forze, le sue capacità e le sue abilità all’unico indirizzo al quale, da quel momento in poi, avrebbe dedicato la vita intera: la sua famiglia.
Senza più incappare nello stesso errore se non per la necessità, come aveva fatto con Vittorio, di evitare anche a figli e nipoti eccessivi sforzi e sacrifici per raggiungere quella dignità necessaria a poter camminare per strada a testa alta. Ma non ci avrebbe più messo il cuore! In nessun caso, per nessuna ragione e in nessuna circostanza: lo aveva giurato a sé stessa.
Con nessuno. Mai più!
Felipe l’aveva cercata più e più volte senza avere mai il coraggio di lasciar perdere e di rassegnarsi a una storia finita ma senza neppure mai aver avuto il coraggio di prendere il toro per le corna e mettere in atto le uniche decisioni che avrebbe dovuto prendere da tempo.
Non lo fece mai.
Sua moglie, dal canto suo, non resse l’andazzo di un matrimonio che si consumava ammalandosi e incancrenendosi ogni giorno che passava.
Finì per cedere e si arrese prima di lui.
Morì ancora piuttosto giovane dopo un lungo periodo in cui sembrò essere uscita di senno. Si scoprì, dopo anni, che Felipe aveva davvero pensato a tutto. Perfino ai loculi per quando sarebbero passati a miglior vita.
In realtà furono le superstizioni di Kaska, il suo rapporto con il concetto di dolore e di morte che avevano portato lei a mettere da parte un po’ di denaro da spendere, non appena fosse stato possibile, nell’acquisto di un loculo per poter godere di un riposo tranquillo senza dover gravare sui propri figli.
Era importante, per lei, lasciare un buon ricordo di sé continuando ad agevolare, fin dove possibile, la vita dei suoi cari.
Appena Felipe venne a saperlo – nel paese piccolo le notizie corrono veloci e, seppure rallentassero, arriverebbero comunque a destinazione con la stessa precisione di un ago da ricamo – si affrettò ad acquistare i loculi adiacenti: uno per lui, accanto a quello di Kaska, e uno per sua moglie, dall’altra parte.
Una sola altra volta Kaska concesse a Felipe di rivolgerle la parola. Decise di ascoltarlo immediatamente dopo la morte di sua moglie.
Esordì con «Giovanna se n’è andata» e lì Kaska capì che non c’era più nulla da aggiungere.
Avrebbe potuto dire mille altre cose ma quello fu il primo pensiero che smise di nascondere tutta la codardia di quell’uomo.
Di colpo non riusciva più a capire come fosse stato possibile innamorarsene e a questo senso di ripulsa si aggiunse quella fastidiosa sensazione di aver conosciuto, in qualche strano modo, anche sua moglie attraverso la semplice pronuncia del suo nome: Giovanna!
Gliel’aveva avvicinata troppo. Gliel’aveva quasi presentata dopo avergliela tenuta nascosta per anni! E questo le maturò una reazione di rifiuto nei confronti di tutto ciò che avrebbe potuto essere la vita di quell’uomo al di là di lei stessa.
Non volle più vederlo. Non lo rivide mai più.
Ma non impedì mai che il destino facesse il suo corso nel rapporto con Alice, nei tempi e nei modi che chi dei due avesse voluto avrebbe potuto scegliere liberamente.
Si dice che i morti non abbandonino la terra finché mantengano legami con persone, cose o circostanze rimaste irrisolte. E il dolore è un legame profondissimo con le cose terrene al punto che morire di dolore è ritenuta una garanzia di sopravvivenza in una forma di non vita, di interferenza con la vita reale che consente ai defunti di continuare ad interagire con i vivi. O per lo meno così si era sempre creduto tanto nelle tradizioni meridionali italiane quanto in quelle balcaniche. Insomma, talvolta la morte era una delle poche possibilità di salvaguardare una qualche forma di vita più a lungo.
Kaska lo sapeva bene: ricordava di aver già fatto questa riflessione quando, stesa fra i cadaveri, riuscì a conservare la vita proprio grazie alla morte o a una rappresentazione di essa. E le sarebbe stato nuovamente ricordato quando l’ombra le sussurrò:
«La morte è l’unica via per mantenersi in vita!»
Era quello lo stato dell’ombra: una non vita che, da defunta le consentiva di mettere a posto le situazioni lasciate in sospeso, senza troppi dettagli a cui badare se non quelli che le consentissero di restituire ciò che in vita aveva ricevuto e chiudere così i conti ancora aperti.
«Ti ricordi di me?»
L’ombra aveva cominciato a parlare. Con quel sibilo delicato e quasi beffardo che biso»gnava distinguere dal soffio del venticello gelido a cui si accompagnava.
Da qualche notte spargeva qua e là parole apparentemente senza senso.
Kaska, inizialmente, con quel poco di ragione a cui riusciva ad aggrapparsi per poter lasciare che il tempo consentisse il trascorrere della notte, pensava a frasi dette così, per impaurire, per tormentare. Finché non cominciò a mettere insieme i pezzi, a dare un senso a quelle informazioni sibilate:
«Non ho figli. Tu sì!»
«La morte mi è compagna!»
Un altro balzo dall’altra parte del letto ed ecco tornare lo spirito ad accovacciarglisi addosso. Adesso riusciva stranamente a percepire qualche dettaglio in più del suo viso ma era quasi liquido, sfuocato, mobile, come se un velo d’acqua lo avvolgesse e appena provava ad assottigliare gli occhi per scavare oltre quella coltre di motilità deforme che avvolgeva l’ombra, questa, come se si accorgesse di qualcosa, tornava a girare attorno al letto in quella macabra, lenta processione che non attendeva che le prime luci del giorno per sfumare via.
«Giovanna sono» ricominciava quando improvvisamente se la ritrovava alla destra del letto, con la testa vicina all’omero e quell’alito gelido, secco, inodore che le agghiacciava la guancia.
Non poteva muoversi.
Tentava con la coda dell’occhio di percepire qualche dettaglio. Del resto della Giovanna che le veniva violentemente alla memoria in quel momento, quasi con la forza del rigurgito di un peccato che la coscienza conosceva ma che aveva trattenuto e soffocato per troppo tempo, lei non ne conosceva il viso.
Negli ultimi tempi la situazione andava peggiorando: cominciarono pizzichi e graffi, talmente veloci da percepirne solo il dolore, senza mai riuscire a vedere l’ombra in azione.
L’insistenza dello spirito si faceva feroce e persecutoria, sembrava inquieta, quasi che tentasse di raggiungere un qualche misterioso obiettivo.
I giorni e le notti si erano fatti impossibili e la condanna peggiore stava nel fatto che Kaska era pienamente consapevole tanto di quanto accadesse durante la notte quanto di come venisse percepita dai suoi cari quando provava ad esprimere fatti, sensazioni e sentimenti legati a quelle circostanze.
Ma il livello di sopportazione era giunto al limite: non poteva non parlare, sfogarsi in qualche modo, condividere quelle ormai insostenibili vicissitudini prima di impazzire definitivamente.
Vistala in quelle condizioni, Leo decise di mettere un punto a quella storia. Voleva in qualche modo riportare le cose nella normalità di una vita quotidiana quanto più tranquilla possibile, tanto per sua madre quanto per lui e la sua famiglia e non riuscì a pensare a nulla di meglio che presenziare a una di quelle nottate per dimostrare a sua madre che poteva rasserenarsi, che tutto accadeva nella sua testa e che bastava aprire gli occhi perché l’incubo svanisse.
Almeno lui cercava di esserne convinto.
E per questo quella notte si coricò accanto a sua madre nonostante i ripetuti divieti di Kaska che ormai non aveva più le forze per insistere o intraprendere una qualunque altra battaglia, com’era abituata a fare.
Quella notte Kaska si accostò più preoccupata che mai: l’incognita di suo figlio accanto a lei nel letto non la tranquillizzava affatto. Non riusciva né voleva immaginare quali sviluppi avrebbe potuto prendere la situazione: era estenuata e si aggrappava illusoriamente alle ultime speranze che potessero indurla a credere che magari Leo avesse ragione.
Non era così e lo capì non appena si ripresentò, puntuale come la morte, l’ombra che quella notte sembrava non riuscire a star ferma.
Eccola lì di nuovo immobile, senza possibilità di alcun movimento nella posizione in cui era abituata a dormire, faccia al soffitto. Era il segno che l’ombra era lì e, quasi impazzita, volava freneticamente da un angolo all’altro del cubo di stanza nella quale aveva la sensazione di sentirsi imprigionata insieme a suo figlio.
Improvvisamente, realizzò di aver appena compiuto l’errore peggiore di tutta la sua vita.
Percepiva chiaramente che la frenesia dell’ombra non era che soddisfazione, euforia, quasi stesse festeggiando il raggiungimento di un risultato al quale aveva lavorato per tutto quel tempo.
E l’unica variante in quella stanza, quella notte, era suo figlio.
La conferma arrivò quando l’ombra cominciò nuovamente a parlare. E a svelarsi:
«Mi rubi l’affetto!» bisbigliò questa volta comparendo nuovamente sul suo omero destro.
«Il modo è lo stesso!» bisbigliò gelida accovacciandosi com’era solita fare quando le si sedeva sul petto soffocandole il respiro.
Poi via, rapida, sparì e ricomparve:
«Gli doni l’amore» disse, stesa supina fra lei e suo figlio sul letto nella sua stessa posizione «che per me è dolore!».
Ed eccola improvvisamente al suo capezzale
Poi stesa lunga con il viso sul viso di Kaska ripeté la macabra filastrocca questa volta tutta d’un fiato.
Ma qualcosa era cambiato:
«Ti rubo l’affetto!»
«Il modo è lo stesso!»
«Gli dono l’amore!»
«Che per te è dolore!»
La voce non era più la stessa, non più un sibilo sussurrato ma una voce di donna vera, delicata, tattile sebbene pur sempre fredda. Sempre più fredda mentre il naso dell’ombra si avvicinava minacciosamente al suo naso fino a mostrare chiaramente gli occhi. Vitrei, gelidi.
Doveva essere quella la faccia di Giovanna, pensò Kaska mentre sentiva quasi venir meno le forze.
Si oppose a quella debolezza quasi aggrappandosi con lo sguardo agli occhi dell’ombra nel tentativo di trasmetterle la disperazione e la voglia di reagire che riuscì a concretizzare, con un estremo inconsulto recupero di forze, in un gesto scoordinato che le fece sussultare scompostamente il braccio sinistro. Un movimento tuttavia sufficiente affinché il braccio cadendo colpisse Leo che si svegliò di soprassalto.
L’ombra balzò via con un urlo sinistro, acuto e stridulo come quello di una bambina terrorizzata e nello stesso tempo profondo e basso come quello di un terremoto percepito nelle stanze di una casa vuota.
Raggiunse il soffitto e rimase in quella stessa posizione, come stesa sulla parete superiore, galleggiando spalle al muro, a guardare i due corpi sul letto mentre cominciava ad emettere una strana risata che sembrava provenire direttamente dagli inferi.
Leo era rimasto del tutto immobile, sin da quando aveva aperto gli occhi, nella posizione fetale in cui era abituato a dormire, anche lui incapace di qualunque movimento.
Quella risata inumana gli entrò nello stomaco e invase tutti i nervi del suo corpo.
Seguì ogni movimento con gli occhi e la voce strozzata nella gola incapace di emettere qualsiasi suono. Non senza qualche sforzo, dato il buio pesto che governava la stanza nella quale l’unica “luce”, nera, scura, priva di chiarore, era proprio l’ombra.
La seguì con lo sguardo anche in quel momento che, lentamente, scendeva verso il capezzale del letto riguadagnando la posizione eretta e dando ai due le spalle. Con un ampio gesto del braccio, delicato, solenne, spazzo via le lenzuola dagli specchi senza toccarle. Poi di colpò girò la testa di 360 gradi e puntando gli occhi vitrei su Kaska, tornò a bisbigliare:
«C’è da guardare!»
Nel buio della stanza gli specchi sembravano riflettere solo i contorni scuri dei veli, come se non ci fosse nulla a tenerli in piedi ma madre e figlio non fecero in tempo a realizzare quest’ultima osservazione che l’ombra era di nuovo volata a metà altezza e con lo stesso gesto del braccio, questa volta perentorio e secco, aveva girato il corpo di Leo che avvertì chiaramente il movimento senza che alcunché lo toccasse.
Si ritrovò nella stessa posizione di sua madre, supino con lo sguardo rivolto al soffitto e si accorse di avere i pantaloni calati e il pene ben turgido e ritto sebbene non ne avesse alcun controllo.
Percepì nitidamente che qualcosa glielo avvolgeva, glielo foderava avviluppandolo in un contenitore morbido e secco, freddo e rasposo nello stesso momento e prima che si rendesse conto del dondolio a cui il suo membro era sottoposto, si ritrovò l’ombra accovacciata sul pene mentre premeva con le mani contro il petto sempre più forte.
Più premeva, più il “su e giù” su quell’erezione accelerava.
Kaska non riuscì a trattenere lacrime feroci di disperazione, soggiogata da un sentimento di rimorso lancinante per non essere stata capace di opporsi alla decisione di suo figlio di coricarsi accanto a lei.
Alla vista di quelle lacrime, l’ombra, che non smetteva un attimo di dondolare sul pene di Leo, girò improvvisamente lo sguardo verso Kaska fissandola insistentemente.
Questa volta, Kaska poté guardarla chiaramente in viso. Restò terrorizzata da quella espressione improbabile. Non era immaginabile. Era impossibile che un essere umano potesse produrre un’espressione di quel tipo. L’ombra aveva gli occhi stremati dal pianto, quasi sanguinanti. Le ricordava la Madonna Addolorata delle processioni della Settimana Santa del paese. La bocca, però, si incurvava contemporaneamente in un sorriso innaturale, delicato e beffardo, un ghigno discreto, completamente dissonante dall’espressione della parte superiore del volto.
«Ti rubo l’affetto! Il modo è lo stesso!» ripeté mentre continuava a cavalcare furiosamente il membro del figlio. Sempre più rapida. Sempre più veloce fino a che gli occhi non riuscivano che a osservare una figura indistinta, così come l’obiettivo di una macchina fotografica non perfettamente esposta non riesce a fermare l’immagine di un velocista o di un’auto su una pista.
«Gli dono l’amore!» pronunciò decisa per l’ultima volta prima di arrestarsi repentinamente sul corpo ormai esanime di Leo che rimase con gli occhi puntati al soffitto mentre esalava l’ultimo respiro con la bocca spalancata.
Kaska sentiva che la filastrocca non era ancora completa.
Il senso di impotenza, la disperazione, il terrore non furono sufficienti a consentirle una qualunque reazione mentre l’ombra passò rapidamente dal corpo di suo figlio sul suo, nella stessa posizione assunta prima di essere interrotta dal risveglio di Leo, con il viso contro il viso della vecchia Kaska, quasi volesse portare a termine quello che aveva cominciato.
«Eee!» prolungò il sibilo fino auna piccola pausa e la filastrocca cambiò esito. «Saremo compagne di viaggio per sempre!» sospirò scandendo chiaramente e concludendo la filastrocca con il solito alito gelido che entrò fin nelle viscere della donna a risucchiarle l’ultimo soffio di vita rimastole.
Kaska riuscì a dare un ultimo gesto inconsulto con le gambe prima di lasciarle ricadere immobili, ormai cadavere.
Nessuno seppe mai che l’ombra si era solo ripresa ciò che in vita le era stato tolto. Aveva usato la morte per dare una qualche forma di compimento alla vita che non aveva vissuto. Kaska le aveva sottratto l’unico vero affetto che la vita le aveva concesso di godere come donna: suo marito. Ma le era stata negata la gioia di un figlio.
Decise che sarebbe stata Kaska a pagare quel prezzo condannandola a provare il dolore di perdere il più grande affetto della vita: si prese suo figlio! Nel modo in cui una donna, una femmina, e non una madre, si prende un uomo, coniugando così i due amori che, in un modo o nell’altro, non poterono mai essere suoi.
Alice entrò nella stanza non appena il medico uscì rapidamente dall’appartamento.
Restò immobile, paralizzata, senza neppure riuscire a capire quale fosse la reazione che sgomitava fra le altre per poter venir fuori per prima.
Di fronte ai corpi bianchissimi di Kaska e Leo, al loro capo riverso all’indietro con la bocca spalancata, a quella imbarazzante erezione, agli specchi dell’armadio letteralmente sciolti come plastica colata a temperature elevatissime, Alice non riuscì a fare di meglio che chiudere immediatamente la porta della stanza.
Forse per evitare che quella scena fosse di dominio pubblico, forse per lasciarsi il tempo oltre che di capire gli avvenimenti anche di comprendere sé stessa e le emozioni che in quel momento mulinavano vorticosamente nello stomaco fino a darle la tachicardia. E forse anche per poter decidere come sistemare una possibile versione ufficiale dei fatti che fosse serenamente accettabile tanto alla famiglia quanto agli estranei.
Tuttavia, non fu abbastanza rapida nel chiudere quella porta tanto da evitare che la “confidente” di Kaska, l’aedo dei fattacci altrui che si aggirava regolarmente per casa quasi a voler ricordare chi ne fosse la proprietaria, vedesse chiaramente la medesima scena in ogni suo dettaglio.
Le era alle spalle. Era accorsa in casa dell’amica e vicina non appena appresa la notizia della tragedia. E probabilmente era stata proprio la prima a saperlo.
Certa gente – si sa – nel torbido ci sguazza in preda alla stessa frenesia delle mosche sul letame. E se il tutto non è abbastanza pruriginoso da realizzare la propria compiaciuta soddisfazione, ognuno che senta la vocazione a quel particolare talento, aggiunge quel qualcosa che crede necessario al perfetto compimento di un racconto che il pettegolezzo renderà pure più incredibile di una storia surreale e così lo consegnerà alla storia e alla tradizione.
I tempi cambiano e le mode si aggiornano.
Così anche la mêlòmbrə, da quel momento in poi, conquistò la sua versione aggiornata, pronta ad essere salvaguardata e perpetrata nella tradizione con un racconto destinato ad avere lunga vita ancora per secoli.
Paolo guardava sua madre Alice seduta sulla sdraio da esterni mentre nel buio della cucina guardava la sua immancabile puntata de Il Segreto.
Lei adorava trattenersi lì, nella cucina della vecchia casa della madre, sempre in affitto dai figli della vecchia proprietaria. Paolo e Carla, i suoi figli, non condividevano lo stesso padre e nessuno dei due era riuscito a mettere l’anello al dito ad Alice che non aveva mai lasciato la casa, condividendola con la vecchia Kaska dalla nascita alla morte di lei.
Le piaceva ricamare a mano al tombolino e spesso metteva la sua abilità a disposizione di chi dovesse preparare i corredi nuziali per le figlie prossime al matrimonio. La pagavano bene per tovaglie, lenzuola, federe, cuscini a motivi floreali e barocchi. Per un lavoro fatto a mano erano disposti a scucire bei soldi.
E lei era pure brava.
In cucina lavorava e vedeva la TV al buio e con una luce che si era fatta agganciare con un filo improvvisato al soffitto facendola cadere proprio in direzione del tombolino avvolta in una specie di coppa di latta ricavata modificando un vecchio imbuto da lattaio. Gliel’aveva sistemata Paolo così come lei aveva chiesto, in una delle frequenti serate nelle quali andava a farle visita. Lui la guardava con tenerezza e affetto infinito: aveva ormai quasi la stessa età in cui la madre di sua madre, la nonna Kaska, era morta accanto al fratello, lo zio Leo.
Era una storia che, per quanto possibile, si evitava di raccontare in famiglia.
Accanto a lei a guardare la telenovela c’era Carla che di tanto in tanto si accendeva una sigaretta elettronica: anche sua sorella era rimasta a vivere con sua madre. Aveva avuto molte storie, spesso spregiudicate, e continuava ad averne, con qualunque genere di uomini, sposati, ricchi, poveri, bellissimi, sgorbi, impegnatissimi o sfaticati. Sembrava non avere preferenze particolari. Neppure lei dava segni di alcuna intenzione di convolare a nozze. Vivevano insieme, madre e figlia, in quella casa e così stavano bene.
Andando a farle visita, in una delle rare serate in cui la luce era accesa e Alice non lavorava al tombolino al buio, notò che Carla aveva dei lividi sulle braccia. Ogni volta che tornava a farle visita si facevano più evidenti, più scuri, blu, prima di cominciare ad affievolirsi per lasciare spazio a quelli nuovi e a inedite cicatrici.
Non poté fare a meno di guardare sua sorella Carla.
Erano così diversi lui e Carla.
Dicevano che fosse la traduzione italiana di Kaska ma aveva qualche dubbio.
Ciò di cui era certo, invece, è che non avrebbe mai dormito accanto a sua madre di notte. Né a sua sorella.
[1] «È Giovanna! È Giovanna! Ha detto di chiamarsi Giovanna» nel dialetto della città di Molfetta (BA)
IL NOME DELL’OMBRA è un racconto di Vito Davoli
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