IL SOLDATO MUTO di Fabio Pierotti
genere: LIRICA
Tanto tempo fa ci fu una grande guerra, ma non fu combattuta né con lame né con spade, non archi né frecce lambivano il cielo, non si udiva il frastuono della battaglia che punge e avvelena le orecchie.
Si sentiva solo il silenzio, che, come una brezza di bora, fendeva il volto di tutti i valori e lo deturpava, cosicché mentre anche il più puro degli animi si tramutava in scheggia di pietra, da quei lineamenti si facevano irte spine, che facessero da corazza per gli attacchi dei nemici.
La guerra durava e ogni spina cresceva, andando a stringere sempre più quella gabbia di paura che pian piano rendeva tutti gli individui sempre meno diversi, sempre più uguali, ma sempre più soli.
Quando intenti si guarda, al proprio tornaconto
senza che vi sia cognizione di ciò che sta intorno,
è in agguato l’errore, e vi sia di lezione,
perché se girano l’ore e gira anche il mondo,
non può che rotear anche il meno vagabondo.
E fu allora che un Re, di senso rotondo, iniziò a pensare se si potesse sfruttare
la paura che ha l’uomo del buio profondo, e farne, poi, un mezzo per mercanteggiare.
La guerra piombò sui paesi come un falco, e non vi fu neppure il tempo di fiatare.
Povertà, fame e dolore si alternavano tra flagello e piaga della popolazione, e per il Re questo era un bel grattacapo.
A lui non mancava niente fondamentalmente, ma la situazione lo rendeva comunque inquieto:
“Insomma, e se qualche affamato poi se la fosse presa con lui?”
Ragionò che, in tutto questo caos, non poteva esserci posto sia per la libertà del popolo sia per la volontà di un sovrano, ma cosa si potesse fare per esser sicuri di non prendere un abbaglio era tutt’altro che semplice da architettare.
Alla fine, la sua mente contorta ebbe un’immensa intuizione:
“Non si può fare schiavo che sia mite al padrone,
finché si forza colui che oggi libero vive
a prostrarsi a una legge per lui così ostile,
senza conferir peraltro a lui alcun onore.
Che si svolga al più presto la volontà servile,
della libertà come cima di un sommo valore,
e che assolva a suo dire una richiesta gentile,
quindi che sia libero sì, d’esser schiavo del padrone.”
Il Re capì che se avesse impaurito abbastanza i suoi servitori sarebbero stati essi stessi a chiedere d’essere resi schiavi, pur di approfittare di quel po’ di protezione che un signore potesse offrire.
Quale fosse questa protezione non era un problema, e non lo sarebbe stato nemmeno se questa non fosse realmente esistita, in fondo un albero che cade fa rumore solo se qualcuno ne narra l’avvenuto. Di paura il momento ne forniva a sufficienza, e con questa la solitudine si muoveva a braccetto, come le onde si modulano in funzione del vento, ma come questo poi vira al cospetto del mare.
Mancava pochissimo, eppure nonostante passassero i giorni, nonostante fossero tutti o quasi rintanati per il terrore, nessuno ancora chiedeva al signore protezione.
Ma perché si ostinassero a portare avanti tale resilienza, senza che trasparissero alcun furore, rimaneva un mistero per il sommo legislatore, fin quando non ebbe la seconda intuizione:
“Che può esser che renda un animo vile
tanto forte da ardire a non chiedere ammenda,
cosa costa poi infine a questa gente tremenda,
una vita stupenda da vivere in ovile?
Nulla è rimasto che valga lottare, nulla è rimasto che scaldi loro il cuore,
che siano forse delle dolci parole, che qualche furbo osi sussurrare?”
L’unica cosa rimasta ai poveri cittadini erano sillabe leggere, ma che, come una flebile fiamma in un ghiacciaio innevato, erano sufficienti per sciogliere un po’ della brina adagiata sul petto di un cuore gelato.
Che fosse nel focolaio domestico o sulle rive del fiume, il calore di un saluto in quei giorni difficili era per la gente, comunque, un modo per ricordare che non erano sempre stati delle bestie, e che anzi così non volevano diventare.
Allora il Re pensò che se questa era l’ancora di salvezza, mollare l’ormeggio sarebbe stato abbastanza per realizzare il suo vile piano ed emanò un editto:
“Che ad i lampi concreti dell’attacco nemico,
non si vada ad aggiungervi anche il fuoco amico
e, per la gloria del nostro reame,
che cali il silenzio completo in paese,
così che i nemici non possano udir locazioni
che indichino di amici e parenti le posizioni.
Che sia fatta una legge di questa mia deduzione
ed è a voi cittadini che concedo l’onore di denunziare alle guardie il trasgressore,
che nel punirlo siano certe di non badare a spese.”
Fu vietato di parlare in tutto il regno e anzi, nessuno voleva proprio che gli si rivolgesse parola temendo di essere poi individuato dal nemico. Addirittura, per esser sicuri che qualche sciagurato non si sarebbe avvicinato per sussurrargli un conforto, ad ognuno era stato distribuito un piccolo foglietto ornato dal sigillo reale con su scritto:
“Se tu parli, chiamo le guardie”.
I trasgressori venivano puntualmente puniti ed imprigionati, e così si andò avanti finché non si creò un equilibrio, tra i trasgressori, ormai catturati, e i buoni cittadini, che ormai senza più il calore delle parole a scaldarli, rimanevano rinchiusi nelle loro case, muti.
Il Re, a questo punto, aveva raggiunto il suo obiettivo: aveva fatto sì che fosse stato il popolo ad ammanettarsi da solo. Adesso poteva anche non curarsi della guerra fintanto che lui era al sicuro nel suo palazzo, mentre il popolo, ora schiavo, non avrebbe avuto modo di lamentarsi. Ma proprio in quel momento in cui tutto sembrava ormai così statico, un soldato iniziò a domandarsi se fosse realmente giusto quell’ordine che stava compiendo e davanti alle sbarre delle prigioni iniziò a filosofeggiare:
“Povera gente, che male avrà mai fatto?
Per proferir parola una tale pena?
Che se avessero fatto chissà qual misfatto,
non avrebbero nemmen dovuto far la galera.
E allora, perché prendersela con tanto furore,
se uno per sentir meno dolore
ha bisogno di un suono che da un altro proviene
e tanto è abbastanza per scaldar a lui il core?”
Il soldato era avvilito, e pieno di rimorso, si sentiva responsabile per tutta quella povera gente che lui aveva contribuito ad arrestare, sentiva un peso insopportabile nel passare ogni giorno e vedere quegli occhi tristi, di uomini, donne e bambini, costretti a patire le pene della reclusione, senza avere altra colpa se non quella di aver rifiutato il volere del padrone.
Così, un giorno, colto da un’improvvisa ondata di coraggio, prese le chiavi delle celle ed iniziò ad aprirle.
Chiaramente fu un’azione di getto, e i suoi colleghi rimasero all’inizio un po’ sbalorditi, poi corsero celeri ad informare il Re di ciò che sta avvenendo all’interno del suo castello.
Il Re spaventato si fiondò, e non appena intravide il soldato da lontano gridò impetuoso:
“Come osi tu sciocco servitore, opporti al volere del tuo signore,
riponi al suo posto la chiave che tieni,
riponi al suo posto quella feccia per cui tanto ti meni.”
Il soldato, come tutti gli altri nel regno, è costretto al silenzio dall’assurda legge che aleggiava sul reale.
Ma il silenzio, sia chiaro, non implica l’assenso e allora questo, muto e con pugno freddo, si armò di coraggio e scosse la testa.
“Che sia severa la tua lezione, e che per giusta sia presa da chi vede,
che non si muova un briciolo di compassione per la tua di far l’eroe avida sete.”
Il Re, temendo di perdere un così amaramente agognato potere, prese la spada e trafisse il soldato che cadde a terra, e gelido e muto morì.
Ma fu in quel momento che i suoi compagni, forse colti dal rimpianto o dal dubbio, o chissà magari dal tormento, si riunirono in cerchio con uno sguardo furibondo, che non si rivolgeva tanto al Re per l’orrore commesso, ma a loro stessi e alla vigliaccheria del loro consenso.
Il gesto del soldato muto aveva tolto la nebbia dai loro occhi e portato alla luce il motivo per cui indossavano la loro divisa:
Non per servire il padrone, bensì tutta la popolazione.
“Ci scusino gli avi, la gente ed il mondo,
accecati dalla paura del buio profondo,
la vista annebbiata avevamo di paure,
che adesso però non son più così sicure.
Quest’uomo malvagio ha trasformato,
noi tutti in cerbiatti affamati e impauriti,
ma adesso l’impegno è di riparar allo fatto,
e che si possa render giustizia ai compari traditi.”
Le melodie di rivolta dei nuovi ribelli echeggiavano tra le mura del castello e tornavano rombanti come un tuono ai sensi del sovrano, che colto da un improvviso timore si dannò a dar gli ordini ad ogni suo servitore, ma negli occhi di uomini di cui non si è più ormai il padrone non si trova il servizio ad un comando d’autore, bensì tanti bracieri che insieme si fondono a generare un fuoco di comune reazione.
“Fermatevi o matti! Che vi dice l’ingegno?
Io sono il signore, vostro Dio, e pretendo l’impegno
che una massa bifolca di scudi di latta,
non si pensi nemmeno di far azione coatta.
Le spade sguainate ed a calci prendete,
tutti quei roditori che son corsi fuori dal buco nel muro,
o anche voi vi giacerete.”
Ma i soldati scossero la testa e nessuno si mosse.
“Come osate voi luridi sorci di fogna
di far disordine ad un mio comando,
che possa io prendere in mano un sol dardo,
e farci degli ammutinati rassegna!”
Il Re prese una freccia e caricò l’arco puntandolo in viso al mal capitato che aveva difronte. Sperava forse che con un atto di forza sarebbe riuscito a far fronte al coraggio dei soldati, riportando la paura a regnare sulla loro volontà, ma non fu così. I soldati uniti alzarono le spade al cielo e mentre insieme fissavano decisi il volto del signore, uno di loro fece un passo avanti e iniziò a recitare:
“Non è più tempo per il tuo terrore meschino,
non udrai più dalle nostre bocche il silenzio,
ormai è giunto il tempo del sommo padrino
che rende giustizia inebriando d’assenzio
il nostro pensiero finché questi si vizia
a portar consenso ad ogni novizio
la cui scaltrezza e sottile malizia, furono fini e leggere.
Ma adesso si inizia a sconvolger regime
e mostrare il cervello, di chi ricorda un caduto come nobile gioiello.”
Il Re spaventato rimase ora muto e spossato e con lo sguardo abbattuto di chi viene sconfitto venne catturato e imprigionato.
Poi i soldati andarono per le strade di tutto il regno a cantare la notizia che era passato il fardello, e riaccesero le voci di gioia che da tanto mancavano su tutto l’anello di vie di paese.
Allora tutti insieme si riunirono, guerrieri e fornai, fabbri e contadini, e scortarono il vecchio Re ormai decaduto oltre i confini del giorno, accompagnandolo lunga tutta la via con quei canti caldi che proprio lui aveva bandito, poi questi destarono lo sguardo, accorgendosi che la guerra era finita.
Un’ultima cosa rimaneva da fare, prendere un fiore e iniziare a intonare un canto sublime e dal calore glaciale, che rendesse l’omaggio a chi pagò per loro la grande fatica, e alla fine del canto tutti rimasero in silenzio, per un minuto, a contemplare il soldato muto che aveva combattuto per la vita.
Niente vi è di migliore nel terrore,
esso non porta guadagno per nessuno,
e non aiuta nemmeno a far vincitore
chi se ne serva per dominar qualcuno.
E ricorda che se gira l’orologio e gira anche il mondo,
non puoi far che girare tu che gli ruoti attorno.
IL SOLDATO MUTO di Fabio Pierotti
genere : LIRICA