INCONTRI SULLA NEVE di Ida Dainese
genere: PSICOLOGICO
La neve caduta nei giorni precedenti scintillava alle prime luci dell’alba.
Aveva rivestito i tetti delle case del paese, le macerie degli edifici crollati, la piazzetta silenziosa e i campi deserti, accumulandosi negli angoli più esposti al vento.
Era scivolata giù dai rami degli alberi scossi dai corvi che spiccavano il volo.
Aveva resistito impigliata sulle cime degli abeti nel bosco che sorgeva sulla collina, si era fatta calpestare diventando insanguinata e sporca oltre il versante, dopo la battaglia del giorno prima.
Sui viottoli e sui passaggi si era indurita, schiacciata dai passi degli uomini, mostrando brevi creste di ghiaccio tra i solchi e sul contorno delle orme.
Nel sottobosco invece era ancora candida e soffice, si era adagiata sui ciuffi d’erba e sui cespugli trasformandoli in innumerevoli, piccoli rilievi lungo tutto il pendio, conservando le tracce delicate del passaggio di volpi e di lepri e quelle più decise di lupi e di cervi in fuga dai rumori degli spari e delle cannonate.
Tre giovani armati, un caporale e due soldati, marciavano senza entusiasmo verso la collina, in fila uno dietro l’altro, in obbedienza agli ordini ma senza poter cancellare una stanchezza che si trascinava da giorni, né ignorare un freddo che le braccia strette al torace e le spalle ingobbite davano l’illusione di controllare. Ogni tanto lanciavano sguardi al paese in basso, immaginando il tepore di una stanza in cui risvegliarsi e indugiare senza dover saltar giù dal letto.
A una ventina di metri dentro al bosco c’era un’ombra ai piedi degli alberi, più fitta e più grande dei cespugli; sui suoi contorni si era appoggiata appena un po’ di neve, forse scivolata durante la notte dai rami più in alto.
Se ne accorse per primo il caporale, avanzando sul sentiero. Si fermò di colpo, tirò giù il fucile dalla spalla e lo puntò verso l’ombra. Allarmati, i compagni ripeterono le sue mosse e per qualche istante anche il bosco trattenne il fiato in attesa.
Lontano, da qualche comignolo, si levava un sottile filo di fumo, intimidito dal freddo e i corvi gracchiarono, spostandosi sui rami scuri.
L’ombra non si mosse.
— Sembra un uomo seduto. — mormorò il più giovane dei tre, tenendolo sempre sotto tiro mentre gli altri scrutavano intorno col fucile puntato. Le nuvolette del loro fiato si dissolvevano nell’aria gelida.
— Forse è uno del paese che non è riuscito a rientrare.
Alla fine, il caporale abbassò il fucile: — Se è un uomo, allora è morto. E non è dei nostri.
— Un nemico in meno. — puntualizzò il secondo militare — Ma non capisco cosa ci faccia qui. Non li abbiamo ricacciati indietro ieri, oltre la collina?
Il più giovane dei tre prese l’iniziativa, lasciò piano il sentiero e si addentrò nel bosco.
— Stai attento, Piccolo.
Il ragazzo si girò verso il secondo soldato:
— Chiamami ancora così e uno di questi giorni ti rompo il naso!
L’altro ridacchiò. Anche se ora portava la divisa, non poteva fare a meno di quell’appellativo, dopotutto era suo fratello minore e si era sempre rivolto a lui in quel modo. Cinque anni fanno la differenza tra fratelli, perciò anche se il suo nome era Pietro, lui non lo chiamava mai così. Sentì lo sguardo del caporale al suo fianco e si girò verso di lui:
— Qualcosa da dire, signore?
— Ha ragione lui. Ora siamo tutti uguali. — osservò lui e seguì Pietro.
Con una smorfia in risposta il giovane avanzò dietro i due compagni avvicinandosi all’ombra. Gli scarponi affondarono nel terreno soffice, lo strato di neve scricchiolava e l’erba sottostante frusciava come paglia secca.
Si fermarono a circa un metro. Era proprio un uomo, molto giovane, raggomitolato alla base dell’albero, con la testa china, appoggiata di lato al tronco. L’elmetto gli era caduto in grembo e un po’ di neve si era fermata tra i capelli, gli era entrata nel colletto e nelle pieghe della stoffa. Indossava la divisa nemica e teneva il braccio destro infilato nel cappotto lievemente aperto. Quello sinistro, invece, era abbandonato lungo il fianco, come se gli fosse scivolato dal corpo.
Il caporale lo osservava in silenzio.
Pietro si accucciò per riuscire a vedergli meglio il viso: la pelle era liscia e strana quasi fosse stata di cera, grigia come la cenere, gli occhi non erano chiusi ma guardavano in basso, verso la neve ai piedi dell’albero.
— Ha uno sguardo triste. — mormorò.
— Riesci a vedere se ha qualche ferita? — chiese suo fratello.
Pietro allungò la mano guantata e scostò un poco il lembo del cappotto fino a scorgere la mano del soldato che il sangue rappreso e gelato teneva incollata al fianco. Tra le dita si vedevano i rivoli rossi che dovevano essere usciti caldi dalla ferita e che lui non era stato capace di bloccare, gli erano scivolati sul dorso della mano e poi verso il polso, gocciolando sulla gamba piegata.
— Siamo stati noi? — chiese Pietro, quasi a sé stesso.
Gli altri non risposero.
Magari no, non personalmente, ma certo erano stati loro a sparargli. La battaglia aveva respinto la linea nemica abbastanza lontano e tutti e tre rammentavano bene il senso di euforia per il successo raggiunto, l’adrenalina che li aveva fatti gridare per la vittoria contro le figure senza volto che li avevano attaccati. Questa figura, al contrario, aveva un volto, uno sguardo che era stato vivo, un corpo fragile, una testa simile alla loro, una volta perduto l’elmetto.
Improvvisamente sembrò non aver importanza il fatto che era un nemico. Così vicino, esposto ai loro sguardi, nonostante la divisa, era solo un ragazzo, a cui era andata male.
Forse aveva perso l’orientamento, si era trovato lontano dai compagni e aveva proseguito verso la direzione sbagliata finché non ce l’aveva più fatta ed era crollato vicino all’albero, in compagnia della paura e del suo dolore.
Qualcosa che sarebbe potuta accadere anche a loro, nella confusione del combattimento. Il fratello di Pietro si chinò e indicò il nome straniero sul taschino:
— Guardate qua. Decisamente non è dei nostri. — toccò col dito il taschino rigonfio e lo aprì tirandone fuori una scatolina di latta.
Tutti e tre si avvicinarono per guardarne il contenuto: una foto gualcita, una lettera non finita, delle sigarette. Pietro prese la foto cercando di capire chi vi fosse ritratto, nonostante le molte pieghe e scoloriture:
— Chissà quante volte l’avrà piegata e ripiegata, magari ha preso la pioggia, la neve, gli sarà caduta nel fango. Si vedono delle facce, non si capisce, potrebbe essere la sua ragazza o sua nonna.
— Non importa. — disse il fratello — tutti noi abbiamo foto come questa e ci sono molto care.
Pietro ripiegò accuratamente la foto e la rimise nella scatolina.
— Questa parola la conosco. — disse il caporale, tenendo in mano la lettera — Significa “Cara”. Il resto non lo capisco. Non conosco la sua lingua. Ma non è riuscito a finire di scrivere. E queste macchie sulla carta sono lacrime.
I tre soldati si guardarono, ciascuno pensando alla scena che la mente suggeriva. Il fiato usciva in piccoli sbuffi di vapore nell’aria fredda. L’uomo ai loro piedi scriveva una lettera a casa, tra una pausa e l’altra. Non l’aveva finita ma sperava di farlo dopo la battaglia, rassicurando i suoi cari, dicendo che stava bene, che anche quella volta ce l’aveva fatta. Lo immaginarono vergare le parole destinate a una madre, una moglie, una sorella. Forse avrebbe finito la lettera chiedendo di esser aspettato. Non erano uguali a quella anche le loro lettere, scritte a fatica, nel buio delle cuccette o alla luce dell’alba, in un’altra lingua ma con le stesse parole, macchie comprese?
Con delicatezza anche la lettera incompiuta fu ripiegata e messa accanto alla foto. Prima di morire doveva avere senz’altro pensato a quelle parole che ancora voleva dire e non poteva più scrivere, a quell’ultimo saluto che si sarebbe perso con lui.
I tre ragazzi rimasero un po’ in silenzio a fissare la testa china, il lato del collo esposto al freddo dove non si scorgeva più nessun battito sotto la pelle. Ognuno gli dedicò un pensiero, un saluto per proprio conto perché avevano la strana sensazione che non se ne fosse andato del tutto, che qualcosa di lui fosse rimasto ancora lì ad ascoltare.
Il caporale prese un’unica sigaretta, poi chiuse la scatola e la infilò al suo posto, nel taschino dell’uomo morto. Si schiarì la gola e con voce bassa e lenta disse:
— Come soldato nemico, noi ti onoriamo. Come te anche noi abbiamo fatto il proprio dovere e per questo sei morto. — accese la sigaretta e la posò tra le dita della mano gelata del soldato nemico, poi si frugò nel taschino e tirò fuori una delle sue sigarette, l’accese, tirò una boccata e la passò agli altri — Ora però non sei che un ragazzo come noi, precipitato in questi giorni tremendi. Ti auguro buon viaggio, amico, vattene in pace.
— Buon viaggio, amico! — disse Pietro, portando la sigaretta alle labbra e passandola poi al fratello.
— Buon viaggio! Forse, prima o poi ci incontreremo di nuovo.
Lo spirito del soldato morto osservava la scena in piedi, accanto al suo cadavere.
Aveva camminato a lungo artigliandosi il fianco per fermare il sangue e resistere al dolore, senza sapere dove stava andando, poi era crollato. Era rimasto a respirare con fatica, a tremare per il freddo, sognando di essere tornato a casa, accolto con calore e poi, verso mezzanotte, aveva chinato la testa contro l’albero e tutto era finito. Nel buio e nel silenzio aveva provato a inalare l’aria e non ne aveva più sentito il gelo. Con lieve meraviglia era rimasto a osservare l’uomo che era stato, un grumo di ghiaccio senza più dolore, senza più rimpianti, e l’aveva compatito.
Si sentiva libero ma ancora non sapeva dove andare, così aveva aspettato il sorgere dell’alba e poi erano arrivati i tre soldati.
Aveva guardato le loro divise, le armi puntate, ma non aveva provato nessun interesse per quelle cose. La guerra era ormai un’ombra dimenticata, un vago odore di fumo lontano. Aveva seguito i loro gesti, ascoltato le loro parole espresse in una lingua diversa dalla sua e si era sorpreso di riuscire a capirle. Aveva sentito la loro pietà e aveva considerato il pensiero che, incontrandoli giorni prima, anche lui avrebbe alzato l’arma verso di loro. Quello che gli aveva scostato il cappotto aveva proprio un viso da bambino e comprese l’ansia che il fratello doveva provare per lui.
Avrebbe voluto dire loro che non era più triste, che lui non c’era più dietro quello sguardo fisso, che era lontano da quel corpo congelato e ferito, ma era lieto che fossero stati lì con lui, tre ragazzi vivi che lo salutavano come un amico.
Li guardò a uno a uno per cercare di ricordarsi i loro volti mentre si passavano la sigaretta accesa in piedi vicino a lui e guardò il filo di fumo che saliva da quella posata nella sua mano.
Si spense piano, lasciando un po’ di cenere sulla neve. Il tempo si fermò per un po’ sotto un cielo sereno. Poi sentì il rumore dei loro passi che ritornavano sul sentiero e capì che anche per lui era ora di andare.
Il sole cominciava a farsi strada tra gli alberi facendo splendere la neve come una distesa di diamanti.
Qualche uccellino cinguettò tra i rami spogli e le fronde verdi degli abeti; in basso tra i tronchi una volpe passò, guardinga e bellissima.
“Che bella giornata!” pensò il soldato morto, scelse un raggio di sole e vi si aggrappò leggero, dissolvendosi in esso.
INCONTRI SULLA NEVE di Ida Dainese
genere: PSICOLOGICO