KHAR NUUR (BLACK LAKE) di Guido Fariello
L’aereo proveniente da Ulan Bator, diretto all’Ôlgij Airport ha aperto i portelloni. Le scale per la fuoriuscita dei passeggeri sono state posizionate. Un vento gelido proveniente da nord ci ha investiti appena usciti dall’aeromobile.
Sono le 10:20.
Il sole è appena spuntato.
Le informazioni meteo dicono che è sorto alle ore 09:44, e tramonterà alle ore 18:30, la sua massima elevazione in cielo sarà alle ore 14:07. La durata del giorno sarà di poco meno di 9 ore.
La temperatura esterna percepita è di -23 °C.
‹‹Ottimo!
È una situazione molto diversa rispetto a quando abbiamo messo piede sul suolo delle Andamane. Lì ci abbrustoliva il sole. Qui ci congela il vento siberiano.
Ora, però, abbiamo idea di cosa dobbiamo cercare e dove dobbiamo andare per trovarla!» dico alzando il cappuccio della giacca a vento pesante che ho indossato.
‹‹Oh, come sono contenta!» aggiunge subito Denise, sarcastica, girandosi e camminando all’indietro per contrastare l’azione del vento.
La sua faccia e appena visibile sotto l’enorme cappuccio con pelliccia e dietro enormi occhiali scuri.
‹‹Se non dovessi sopravvivere ti raccomando le ultime volontà come ho scritto nel testamento!»
‹‹Non ti preoccupare, sarà mia cura esaudire ogni tuo desiderio» affermo ridendo.
‹‹Non c’è da ridere per niente. Qui non sopravvivrà nessuno dei due. Dopo mesi di caldo tropicale il freddo pazzesco ammazzerebbe anche un orso polare.»
Esaurite le formalità dei passaporti e dei visti, ci rechiamo ad un box per il ritiro della Jeep Wrangler Unlimited. L’addetto che ce la consegna ha uno strano sorriso canzonatorio. Sembra voler dire: “ma dove credete di andare con questo attrezzo? Qui da noi? In questa stagione?”.
Denise nemmeno lo vede.
Io faccio finta di niente.
Arriviamo all’hotel e prendiamo possesso dell’alloggio.
Chiediamo un colloquio con qualcuno che decide e comanda.
Arriva il direttore.
Spieghiamo le solite cose.
Dobbiamo stare qui a lungo.
E’ una spedizione scientifica.
Abbiamo bisogno di una sala per i computer e i documenti.
Non sembra capire granché ma è attento e accondiscendente.
Soprattutto quando si rende conto che non ci sono limiti di spesa e che all’albergo ne potrà derivare un interessante ritorno pubblicitario.
Parliamo a lungo della caccia con le aquile ed è meravigliato nell’apprendere che sembriamo essere super informati.
Ci fa osservare che per le due tradizionali manifestazioni nazionali che si svolgono nella città di Ôlgij siamo fuori tempo poiché si sono svolte in ottobre.
Ribadiamo che non ci interessano le cose turistiche ma che desideriamo incontrare i cacciatori.
Sappiamo che la stagione della caccia è l’inverno, quando la coltre nevosa impedisce ai lupi e alle volpi di nascondersi e li rende visibili e vulnerabili. In questi mesi i “burkitshi”, come si chiamano con il termine in lingua kazaka, vanno verso le montagne con i loro cavalli e le aquile per la loro stagione. Ora la stagione sta per terminare e noi vogliamo conoscere queste persone.
I “burkitshi”, come buona parte dei mongoli, vivono nelle “gher”. Noi vogliamo andare in un villaggio di “gher” posto ai piedi delle montagne dell’Altaï e vivere la loro esperienza.
Il direttore ci guarda con occhi stralunati. Alla fine ci dice di aspettare due giorni. Forse potrà esaudire le richieste.
Nel frattempo impiantiamo il quartier generale e giriamo, con la jeep, per la città e per i dintorni.
Alla fine siamo di fronte al vecchio Aibek, un kazako di oltre 80 anni, con la pelle bruciata dalla neve che riesce ad esprimersi, oltre che nella sua lingua, anche in un inglese claudicante.
Parliamo a lungo nell’ufficio che ci è stato riservato.
Lui sarà la nostra guida nelle montagne del Bajan-Olgij per il tempo che sarà necessario.
Ha chiesto soltanto un giorno di tempo.
È strano. Non vuole essere pagato. Sembra che abbia capito che il nostro compito è per una causa giusta. Vuole esserne partecipe.
Tra quelle montagne, le più alte del Bajan-Olgij, c’è un lago, non tanto grande rispetto alle dimensioni usuali degli altri laghi del gruppo della “valle dei laghi”. E’ il lago Khar Nuur, cioè il Black Lake, di 576 km², lunghezza 24 km, larghezza 37 km.
Sulla sua riva orientale, a 48°36’44,48’’ di latitudine Nord e 88°58’11,52’’ di longitudine Est, a 2.778 metri sul livello del mare, c’è un accampamento di cacciatori, ai piedi del Tsengel Khairkhan Uul che si eleva fino a 3.943 metri.
È la tribù di cui fa parte Aibek composta da 10 famiglie con donne e bambini che vivono nelle “gher”.
Non capiamo come possa accadere che un cacciatore kazako sia lontano dal suo gruppo quando la stagione venatoria sta per terminare.
Il giorno dopo il nostro colloquio appuriamo, invece, che i kazaki non si separano mai dalle loro donne. E loro seguono i mariti ovunque. Aibek si è presentato con una donna anziana ma arzilla e efficiente, anche lei con il viso abbrustolito dalla neve, che sarebbe venuta con noi per raggiungere il villaggio.
Si chiama Ayaulym che significa “Amata” in kazako.
Diciamo ad Aibek del nostro fuoristrada.
La distanza in linea d’aria è di poco più di 83 chilometri. Il percorso stradale non lo abbiamo potuto calcolare per l’inesistenza di mappe attendibili. Potrebbe succedere che i chilometri si triplichino.
Eravamo pronti a ricevere una risata di contro alla proposta. Invece ci dice, serio, che il mezzo potrebbe anche farcela a condizione di essere disposti a spalare in caso di ostacoli imprevisti.
Partiamo due giorni dopo, il mattino presto.
Denise si è incaricata di approntare il mezzo. Per un giorno intero c’è stato un via vai di operai dell’hotel e delegati di vari negozi della città che hanno stipata la jeep di attrezzature e provviste per far fronte ad una situazione da “The Day After”.
La somma spesa è da capogiro.
Credo che Denise sarà proposta per un monumento nella piazza principale del paese in qualità di benemerita per l’economia della città.
Ha finanche esaurito le scorte di detergenti per la persona, carta igienica e salviettine umidificate esistenti nell’intero comprensorio, dal momento che non sembra che siano articoli molto richiesti dai locali.
Contrariamente alle aspettative, il viaggio, pur richiedendo 6 ore abbondanti, non ha presentato difficoltà eccessive. Senza Aibek, tuttavia, non ce l’avremmo fatta. Il tragitto ha comportato numerose deviazioni e faticose spalate per aprire la carreggiata dai cumuli di neve e superare lastre di ghiaccio.
È pomeriggio inoltrato quando arriviamo all’accampamento.
Il freddo è pungente.
Ci sono 11 tende, le tipiche “gher” mongole, allineate con un effetto confortante. Dalla sommità di ognuna fuoriesce del fumo.
Il villaggio è posizionato ad alcune centinaia di metri dal lago, sulle prime pendici del Tsengel Khairkhan Uul.
Lungo la riva dello specchio d’acqua la tipica steppa mongola dal colore giallo e rossiccio dei mesi estivi è ora di un colore uniforme bianco. Su di essa sono sparsi alcune decine di cavalli liberi che brucano l’erba cercandola sotto la coltre di neve. Hanno l’aspetto caratteristico di quelli mongoli discendenti dal “cavallo di Przewalski”, il famoso cavallo selvatico mongolo, dal nome del generale, esploratore e naturalista russo Nikolaj Prževal’skij che guidò, nell’anno 1881, una spedizione per trovare le sue tracce.
Poco lontano dalle “gher” ci sono delle tende a forma di cono, più piccole, ricoperte di pelli. Nei pressi di queste ci sono alcune casette, fatte con pali e tavole di legno, complete di tettoia pure di legno, a somiglianza di box per ospitare una piccola auto.
Più in basso, rispetto alla posizione del villaggio, due recinti costruiti con sottili pali posti a x longitudinalmente e tavole, dentro i quali sostano alcuni esemplari di bovidi dal pelo lungo, forse yak, e alcuni animali più piccoli, che Denise classifica come capre. I recinti sono costruiti in modo tale da far pensare più ad una protezione dal vento che alla fuoriuscita degli animali.
Il lago è ghiacciato, uno spettacolo di una bellezza unica.
Appena arrivati si è radunata una piccola folla: uomini maturi, donne, bambini di tutte le età, che ci guardano con occhi interrogativi nelle loro facce annerite dal sole e dalla neve.
Aibek parla per qualche minuto ad alta voce al gruppo. Capiamo che sta facendo qualcosa che somiglia a delle presentazioni.
Le sue parole sanno essere convincenti poiché tutti dimostrano simpatia e fanno gesti di approvazione. I piccoli ci guardano con curiosità. Un notevole successo riscuote la nostra Jeep.
Aibek si rivolge a noi e comincia a chiamare per nome, uno ad uno, i presenti sia adulti che piccoli, sia maschi che femmine.
Ognuno, al suo turno, mostra uno smagliante sorriso e fa un gesto di saluto per farsi riconoscere.
La cerimonia va avanti per qualche minuto.
E così conosciamo Erasyl che in kazako significa nobile eroe; Nurzhan che significa anima leggera; Arman che vuol dire sogno; Nurislam che indica luce; e poi Sukhrab e gli altri.
Veniamo a sapere che Aibek in kazako significa capo e maestro. In effetti è lui che comanda la tribù.
Conosciamo Aiday che vuole dire figlia della Luna; Aiman che significa bellezza della Luna; Anargul albero di melograno in fiore; Aruzhan anima bella; Inkar desiderio e passione; Sheker zucchero; Inzhu perla.
Khar nuur (black lake) un racconto di Guido Fariello
che fa parte del libro Empaticus