LA CADUTA DI SUMRAT di Michele Uberti

Genere: FANTASY

Dalle profondità della terra sgusciavano silenziosamente i Bui, annunciati da sciami di topi impauriti, pipistrelli neri e altri orrori che solitamente dimorano nelle scure caverne del mondo.

E dietro di loro l’Ekkar, l’innominabile fiamma ardente che tutto divora.

I nostri, in principio, avevano abbastanza lame per far fronte ai primi, ma le armi degli uomini poco poterono quando comparve la bestia senza nome. Presto, una ad una, le trincee sotterranee del terzo e poi del secondo livello caddero sotto l’urto dei demoni.

Nuovi manipoli, freschi di leva, furono inviati nelle aule di sotto a rinforzare i cancelli, a rintuzzare le ridotte, a sostituire i caduti e dare tregua alle logore truppe. Reclute imberbi, ancora ignare degli incubi che le attendevano nelle catacombe, mandate al massacro con l’orgoglio negli occhi.

In alto, molto più in alto, sotto cupole adamantine in aule decorate da mosaici multicolori, i governatori della Città farneticavano e si accapigliavano sul da farsi.

Gli ierofanti, chiusi nella Casa del loro Ordine, litigavano sulle origini arcane della minaccia, avendo però cura di scaricare ogni colpa sulle opere del Genio cittadino che, a loro dire, aveva scavato troppo in profondità tra le antiche rovine ipogee.

L’Ordine venne presto sciolto per volere dell’imperatore, i suoi membri posti agli arresti e interrogati giorno e notte dagli inquisitori di sua Maestà, ma il Sovrintendente VonHor, riverito capo dei genieri, era scomparso nottetempo.

Fin da ragazzo VonHor si era convinto che la terra, oltre che sferica, fosse anche cava.

Un po’ come quei frutti tondi e marroni che talvolta le onde portavano sulla riva della sua amata spiaggia presso la casa d’infanzia. Scuri, ruvidi e fibrosi sulla superficie e bianchi, concavi e succulenti all’interno.

Così, quando si imbatté nelle teorie del Magistro Herenicus, ne fu al contempo scosso e terribilmente incuriosito.

Herenicus difatti sosteneva pubblicamente che esistesse un mondo celato e misterioso al di sotto dei loro piedi. Una landa concava immensa, speculare a quella convessa su cui dimoravano gli uomini, avente come pavimento il sottoterra e come cielo un oceano di buio vuoto.

Ancor più sorprendente, il Magistro riteneva che questa terra non fosse deserta, bensì affollata di bestie ignote e entità senzienti. Non umanoidi, come i leggendari Draenay della lontana Lanka, a cui alludevano le favole dei pirati Samoani, bensì vere e proprie creature aliene e mostruose.

In apparenza, questa bizzarra ipotesi di Herenicus sembrava non aver alcun fondamento ed era tanto sbeffeggiata dai suoi allievi geosofi, quanto ignorata dai più esimi saggi dell’Accademia.

Solo VonHor sembrava attratto da queste speculazioni, al punto che, una volta completato il ginnasio e iscrittosi all’Accademia imperiale, sviluppò fin da subito un rapporto particolare con lo strano cattedratico.

Terminate le lunghe ore di studio, accorreva negli appartamenti di Herenicus per discutere con fervore d’ogni nuova nozione appresa durante le lezioni meridiane. Dall’alchimia all’ingegneria, dalla religione alla storia, alla geosofia.

Spesso accadeva che il discorso giungesse alla Teoria del Sottoterra, come l’aveva soprannominata affettuosamente VonHor.

Una sera d’autunno, i due fecero più tardi del previsto con le loro conversazioni dotte e il vento del Belarg portó seco un gran temporale. Herenicus propose dunque al giovane Vonhor di fermarsi a dormire nel suo appartamento.

Quest’ultimo accettò di buon grado.

La notte, quando un fulmine più roboante di altri colpì il vicino Obelisco della Meridiana, i due unirono i baldacchini e condivisero il giaciglio. Ne nacque una passione carnale che li legò clandestinamente per molti anni.

VonHor, tra le braccia del Magistro, apprese man mano ciò che Herenicus aveva scoperto decenni prima e che fino ad allora aveva tenuto nascosto a chiunque altro. Venne a conoscenza degli incubi ricorrenti che il suo Mentore aveva avuto sugli Antichi fin dalla prima fanciullezza, sogni folli sugli immensi Portali sigillati al di sotto di Samarat l’Eterna, degli scavi clandestini da lui svolti nei sotterranei di Sumrat e di ciò che avevano portato alla luce. Proprio questi ultimi ritrovamenti l’avevano definitivamente convinto della sua bizzarra teoria. Da quel momento in poi per VonHor le verità sugli Antichi divennero una tale ossessione che trascorse giorni interi nella Papiroteca dell’Accademia, leggendo avidamente ogni testo riguardante la storia e le leggende di quella stirpe perduta.

Ebbe così conferma che la gran parte delle vestigie degli Antichi si trovavano ancora nei sotterranei più profondi di Sumrat, là dove pochi archeostorici osavano avventurarsi. Apprese dai papiri teogonici di Baar e della sua Prole Abissale, della Veglia di Luor e Numsa e di alcuni strani riti svolti in segreto dai temuti preti di Khu.

Tuttavia, come gli aveva riferito Herenicus, nelle carte dell’istituto non si faceva cenno a riti esoterici o a particolari manufatti per accedere a quel mondo ipogeo.

Eppure, il giovane non si dava pace ed Herenicus rivide nelle pupille dell’amante la brama di conoscenza che un tempo aveva animato lui stesso. Allora gli mostrò l’Amuleto di Samarat, trovato decenni prima in una stanza sepolta nelle profondità di Sumrat, e gli parlò del misterioso potere che gli pareva potesse custodire.

Appreso questo, VonHor pregò il maestro di cederglielo affinché potesse anche lui studiarlo con devozione, ma Herenicus, pentitosi subito dell’incauta confessione, vi si oppose strenuamente. Vonhor se ne risentì e arrivò fino a minacciare di abbandonarlo se non gli avesse consegnato l’Elsa.

Il fuoco della verità bruciava negli occhi del giovane ancor più di quello della passione e il ragazzo sapeva bene come ottenere ciò che desiderava. Il Vecchio, infine, cedette a malincuore e gli donò la sua scoperta più preziosa.

Da quel momento, VonHor, si chiuse nelle sue stanze concentrando tutte le proprie energie nel carpirne il segreto senza più curarsi d’altro. Al termine di settimane di studi teosofici arcani e lunghe meditazioni, una notte di luna nuova, come per incanto, VonHor ebbe le risposte cercate.

Tra le braccia della Dea Numsa, fece un lungo sogno oscuro e intricato. Appena si destò, ancora madido di sudore, intuì ciò che avrebbe dovuto fare. Afferrò il Talismano e corse dal suo maestro per raccontargli tutto.

Ascoltate le parole eccitate di Vonhor, Herenicus ne fu profondamente turbato. Non aveva mai pensato ad uno scopo tanto ardito e periglioso per quel prezioso cimelio. Voleva un bene immenso al giovane amante e provò fino all’ultimo a dissuaderlo dal perseguire un proposito tanto folle, ancorché fosse possibile, ma ogni tentativo fu vano: il suo ascendente su di lui era ormai sfumato.

Così, VonHor, terminati gli studi ingegneristici, si congedò dal suo mentore e lasciò la Capitale per intraprendere un lungo viaggio tra i principali templi del Dahismo.

Dopo molto peregrinare, si stabilì a Sumrat candidandosi alla professione di geniere civile presso il governatorato della città.

In questo modo, con il pretesto di collaborare al restauro delle fondamenta cittadine, avrebbe potuto accedere liberamente all’immenso labirinto che si snodava nell’oscuro sottosuolo e portare così a compimento la sua ricerca. Tramite le grandi abilità oratorie ed il suo irresistibile carisma, venne subito accolto dall’Ordine e nel volgere di tre anni fu insignito dagli Arconti del ruolo di sovrintendente cittadino del genio civile. In questa nuova prestigiosa veste poteva esplorare i livelli più profondi delle catacombe in santa pace.

E qui, dopo accurate esplorazioni e lunghi scavi svolti in segreto, trovò ciò che da anni bramava in cuor suo. Sotto millenni di polveri e sedimenti, i Portali di Atvata’baar esistevano davvero. Con l’Elsa in suo possesso ora a VonHor non restava che compiere l’ultimo passo.

Erano trascorse due settimane da quando gli schiavi del Genio, mandati a cercare il Sovrintendente del Genio e i suoi accoliti, avevano fatto la tremenda scoperta: orribili creature umanoidi vagavano nei labirinti del terzo livello.

Alcuni dei servi erano stati sbranati dai mostri, altri, invece, erano riusciti a fuggire e a dare l’allarme, mentre questi banchettavano coi cadaveri dei loro compagni. Li chiamarono subito Bui, poiché la membrana che ricopriva il loro corpo squamoso sembrava quasi inghiottire la luce delle fiaccole, tanto era nero.

Un corpo ossidiana dalle fattezze spigolose e dalle zampe artigliate sorreggeva un capo deforme dalle sembianze più ittiche che umane. Grandi bocche da pesce nascondevano fauci e denti aguzzi, nessun pelo, ciglia o capello in testa. Gli occhi però erano la cosa più terrificante: enormi pupille vitree e nerissime sporgevano ai lati di una testa senza orbite o palpebre atterrendo chi ne incrociava lo sguardo.

Il primo Ekkar comparve soltanto la terza settimana di scontri.

Fino a quel momento le guardie cittadine, richiamate in forze all’interno delle catacombe, avevano faticosamente tenuto a bada le frotte dei Bui che di tanto in tanto sbucavano dai pertugi più profondi del terzo livello per assalirli con zanne e artigli. Vi erano già stati alcuni caduti, ma nulla a confronto di ciò che accadde dopo.

Quella sera, tra le aule del terzo livello parve calare un silenzio innaturale.

I grigi ruderi, le sale e le umide gallerie scolpite dagli Antichi in tempi remoti sembravano innaturalmente quiete. Da oltre ventiquattro ore i mostri non erano più comparsi e le numerose guardie munite di torce che presidiavano il piano iniziavano a domandarsi se quella fosse una tregua più lunga del solito o la fine effettiva della misteriosa minaccia sotterranea.
Sfruttando la fase di calma, i manipoli di presidio si erano rapidamente riorganizzati: innumerevoli pozzi e crateri, da cui fino a poco prima sbucavano branchi di Bui, vennero ostruite da massi pesanti o sbarrati da spesse grate di acciaio al fine di bloccare sul nascere ogni futuro assalto.

Di certo era impossibile scoprire e sigillare ogni anfratto di quel vasto e oscuro labirinto millenario, ma Horus, il capo della guardia cittadina, dopo una ispezione accurata, parve molto soddisfatto del lavoro eseguito dai suoi uomini.

In fondo nella mente del comandante era capitato tutto così in fretta: l’imboscata alle guardie, le ondate di neri assalitori che si riversavano nelle catacombe, la mobilitazione dei soldati, gli ordini di battaglia, le schermaglie, la controffensiva. Finalmente poteva tirare un po’ il fiato e ragionare sull’accaduto.

Stava risalendo al secondo livello, assieme a un ufficiale di collegamento, quando sentì un rombo sordo echeggiare dalle profondità della terra. Seguì un istante di silenzio, dopodiché la rampa sotto i suoi piedi si frantumò in mille fessure travolto da un’improvvisa esplosione, le orecchie parvero scoppiargli per il boato e tutto attorno a lui parve incrinarsi e crollare sotto i colpi di una scossa sismica di innaturale potenza.

Istintivamente, si coprì gli occhi e le orecchie, le sue gambe vacillarono e precipitò assieme al suo compagno tra una pioggia di pietrisco e calcinacci al livello inferiore.
 Tossendo, aprì gli occhi e, tra le dense volute di fumo e polveri irritanti che permeavano la grande e calda sala, scorse in fondo ad essa una mostruosa entità lucertoloide, che faceva a pezzi ogni cosa gli si parasse d’innanzi col suo alito rovente. Era una bestia di proporzioni colossali e maligne, lunga oltre uno stadio, circondata da fuoco rosso e nero, scaglie laviche e oscurità.

La mente di Horus fu travolta dal terrore, il cuore gli esplose nel petto, ma le sue gambe erano paralizzate.

Il compagno giaceva riverso accanto a lui col cranio fratturato da un mattone. Guardando l’Ekkar davanti a sé seppe che la sua fine era vicina.

Oltre cento piedi sopra, sul selciato che lastricava le strade di Sumrat, i passanti percepirono soltanto una lieve scossa di terremoto e un lontano rumore di crolli provenire dalle cripte sottostanti.
Eppure, l’angoscia s’insinuò nell’animo dei governatori: qualcosa di orribile era certamente successo nel ventre oscuro della città. Così inviarono subito un manipolo di trenta guardie per fare rapporto sull’accaduto, mentre, Kayl Yamar, il capo degli Ierofanti, fu convocato d’urgenza nella Piramide per un confronto con i Dodici Arconti. 

Il loro lungo colloquio non era ancora terminato quando la grande porta di bronzo si spalancò con fragore ed una giovane staffetta entrò trafelata nella Sala dei Governatori. Portava terribili nuove dalle catacombe. Il terzo livello era caduto: le aule più profonde erano state devastate da un’improvvisa esplosione, dal cui cratere era uscita un’oscura creatura fatta di fumo e fuoco.

Questa, da sola, aveva attaccato e ucciso quasi cento uomini della Guardia, sterminando l’intero presidio presente nel terzo livello. Anche il capitano Horus era morto nell’assalto.

I rinforzi sopraggiunti dal secondo piano e quelli appena inviati dalla superficie non erano stati in grado di tenerle testa. Il loro numero era insufficiente, specialmente ora che erano ricomparsi anche i Bui. Al sentire queste parole, il terrore serpeggiò tra gli astanti e nella Sala calò un grave silenzio.

Fu allora che Kayl Yamar, colmo di rabbia, ruppe la stasi tuonando:
“Idioti! Ciechi e sordi noi tutti siamo stati! Perché non abbiamo preso sul serio quel pazzo di Herenicus? Avremmo dovuto ascoltarlo, sigillare gli accessi ai ruderi degli Antichi e poi rinchiuderlo nelle prigioni imperiali affinché il segreto perisse con lui.”

I governatori ascoltavano increduli il vecchio Ierofante infuriato, così Kayl proseguì:
“Ma voi no! Avete accolto in città anche il suo folle seguace. Non contenti, lo avete persino nominato capo dei genieri, lasciandogli mano libera nelle catacombe. Ignoravate forse i suoi veri intenti? Vi ha raggirato quella sua lingua melliflua? O peggio; debbo sospettare che tra voi ci sia un traditore? Qualche vile complice della sua impresa suicida?”

Al sentire quelle parole infiammate, uno dei governatori si riprese dallo choc e replicò con sdegno:
“Taci Kayl!  Come osi insinuare che vi sia un traditore?”

“Probabilmente avremo peccato di superficialità, noi Arconti, financo di stoltezza, come tu dici, ma certo nessuno di noi immaginava che una siffatta sciagura si sarebbe abbattuta sulla città. Il tutto per qualche banale scavo nelle vecchie cripte. Immaginando le sue reali intenzioni, mai avremmo aiutato quel bastardo a compiere una simile catastrofe!”

Poi, sull’onda dell’emozione aggiunse:

“E Voi invece? Cos’avete fatto come Ierofanti di Raab per impedire tutto ciò? Mai ci avete edotto sulle scoperte degli Antichi men che meno sulle minacce della perduta Samarat. Eppure, chissà cosa scoverebbe ora un lettore attento avendo accesso ai segreti manoscritti custoditi nel vostro Tempio? Anzi ricordo bene che siete stati i primi a burlarvi delle teorie di Herenicus sul Sottoterra quando il nostro concittadino fu fatto Magistro ad Hasay. Le liquidaste come farneticazioni. Ricordo bene che proprio queste furono le tue parole: ‘semplici farneticazioni’!”

Kayl strinse i pugni e si trattenne appena dall’aggredire l’Arconte, quando dal fondo dello stanzone, sbatté la porta e comparve Herenicus in persona, pallido in viso.

Scese gli scalini con passo malfermo, diretto verso il palco centrale. Il volto cupo e la barba trasandata. Tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di lui e il luogo calò in un silenzio meravigliato.

“Ciò che è successo qui non è soltanto opera sua, né una vostra mancanza. Anche io, Herenicus di Azimanthea, ho molte colpe. Lo riconosco. Senza di me tutto questo orrore sarebbe stato impossibile. Non l’ho fermato come avrei dovuto fare. Io ho introdotto Vonhor ai segreti arcani di Samarat. Io ne ho stuzzicato la curiosità, informandolo di cosa si celasse qui sotto. Ebbene, lo feci pure con voi, senza però che mi prestaste alcuna attenzione. Vi ricordate?”

Il magistro prese fiato e proseguì:

“Dissi infine al ragazzo che cosa avevo trovato qui a Sumrat. Al terzo livello, nelle polverose camere degli Antichi. Non avrei mai dovuto mostrarglielo! Eppure, a lungo ho resistito ai ricatti e alle insidiose lusinghe. Ma lo amavo, e alla fine, per amore, ho ceduto. Che sciocco, vero? Ho confidato nella sua moderazione e ho fallito. Eppure, in cuor mio auspicavo non arrivasse a tanto. Speravo in un suo ripensamento o almeno al fallimento della sua impresa. Come sapete, decenni fa, la sua stessa brama di conoscenza mi portò a cercare gli accessi al mondo di sotto nel ventre della vostra città, ma senza successo. Trovai solo quell’oggetto. Confidavo che la stessa sorte capitasse a lui e invece, apparentemente, quel mascalzone, ce l’ha fatta.”

Tacque per un istante per asciugarsi una lacrima che correva sulla guancia destra, poi concluse con voce rotta.

“Mi rivolgo a voi sapendo che, in un modo o nell’altro, la mia fine è vicina. Che domani mi tolga la vita uno dei vostri boia per le mie colpe. Ebbene, non oserò opporre resistenza. Sono vecchio e stanco e non temo la morte da un pezzo. Prima, però, farei qualsiasi cosa per evitare che i Bui giungano nel mondo di sopra e portino la rovina su questa terra. Non potrei mai perdonarmelo. Sono giunto qui da voi tra mille difficoltà con il solo intento di aiutarvi e rimediare ai miei errori. Vi prego, ascoltatemi.”

Un Arconte prese parola indignato:

“E come intenderesti aiutarci ora, Magistro Herenicus? VonHor si è dato alla macchia da settimane, i Bui avanzano nei tuoi amati sotterranei. E… stando alle guardie, qualcosa di molto peggio si aggira adesso nel terzo livello delle catacombe. È inutile chiudere il recinto quando i bufalodonti son fuggiti, non credi?”

Il Magistro rispose:

“Ciò che è passato è passato e non ci possiamo più far nulla, ma non è troppo tardi per salvare Sumrat. In primis dobbiamo proprio trovare colui che ha scatenato tutto questo. E prima che lo scovino gli altri. Cosicché, se gli dèi lo vorranno, potremo rimediare a questa follia.”

“La fai un po’ troppo semplice, Magistro. Non hai sentito cosa ha appena detto il governatore? VonHor è svanito. Svanito. E tu, adesso, dovrai rispondere a molti quesiti. Anzitutto sai dove si potrebbe essere rifugiato il tuo allievo? Di quale oggetto vaneggi nei tuoi discorsi, cos’hai trovato nelle catacombe? E poi chi sono gli altri? E cosa c’entra con quanto avvenuto qui sotto?” lo pungolò Kayl.

Herenicus stava per rispondere a quella raffica di domande, quando una scintilla rossa proveniente da un braciere in cima alla scalinata lo colpì in viso. La sua barba prese fuoco come un prato secco. Fiamme improvvise divamparono attorno alla sua figura, ne attraversarono le vesti ed il corpo.

Cadde in ginocchio gemendo, tra le urla sgomente dei presenti. In pochi attimi, del magistro non restavano che ceneri ed ossa abbrustolite sul pavimento annerito della Sala dei Governatori. Un eco di morte rimbombava tra gli spalti.

Poco tempo dopo, dal diriscalo di Sumrat un Viman si levò in cielo per portare all’Imperatore Qargon la notizia della caduta del terzo livello e della terribile morte di Herenicus nel bel mezzo dell’assemblea.

Il pilota del Viman, sorvolò rapido il grande fiume Rel, i rigogliosi Boschi di Tamrel, veleggiando sui tetti scarlatti di Amorn la Rossa, fino a giungere, all’ora del vespro, in vista delle alte mura di Hasay.

La festa in onore dell’Imperatore di Assaria, Qargon II, era giunta al culmine. I servi distribuivano deliziose libagioni sopra al banchetto opulento. Uno stuolo ininterrotto di camerieri entrava nella Sala Grande della Piramide d’Oro per offrire ogni sorta di pietanze agli esimi convitati.

Sopra un grande palco dorato, tappezzato di fiori, nove splendide danzatrici dogoniane roteavano i fianchi in un gioco sensuale al ritmo ipnotizzante di cento clavicembali.

Erano giovani e irresistibili. La loro serica pelle color ebano era ricoperta da oli ed essenze profumate.

Pochi uomini avrebbero chinato il capo di fronte ad una simile vista e il Re dei Re non era fra questi.

Nymefra getto un’occhiataccia al regale consorte, che le rispose con un sorriso appena imbarazzato, poi volse lo sguardo ebbro sul calice appena rabboccato. Il dolce vino del Numasyr scorreva a fiumi quella sera. I problemi del regno sembravano lontanissimi in quel momento di gioia e spensieratezza. Qargon compiva quarantacinque anni e ventidue cicli di Imperio.

“Un altro brindisi a Sua Altezza Imperiale” strillò il Cerimoniere dal fondo della Sala, sovrastando le voci dei commensali.

Dietro ad una colonna di alabastro un emissario attendeva pazientemente il momento opportuno per recapitare il messaggio all’Imperatore. Un’occasione che non sembrava mai sopraggiungere.
Attese a lungo finché verso il termine della cerimonia si convinse ad avvicinarsi allo scranno del sovrano. Portava infauste nuove da Sumrat e non sapeva bene come comunicarle in un’occasione tanto lieta.

Decise di non indorare la pillola e riferire tutto d’un fiato al Re dei Re quanto appreso al diriscalo.

All’udire quelle notizie, la fronte di Qargon si corrugò e tutta l’euforia scomparve dal suo volto. Quella che gli era parsa poco più che una contingenza singolare si stava rivelando una minaccia sinistra e ben più seria. Il comandante delle guardie cittadine era caduto nelle catacombe di Sumrat e con lui molti soldati mentre il magistro Herenicus, appena ricomparso, era perito in circostanze misteriose davanti all’intera assemblea cittadina. Una doppia sciagura.

Non voleva, però, guastare la festa in suo onore; perciò, liquidò l’emissario con un cenno e si mise ad attendere che anche l’ultimo degli invitati si congedasse per ponderare quanto appena riferitogli.

Attese una manciata di minuti, ispezionò con lo sguardo stanco gli spazi tra le colonne biancastre e i drappi di seta samoana. La Sala Grande si stava svuotando lentamente, fatta eccezione per la servitù e la sua guardia personale. Persino l’amata Nimefra si era ritirata nei suoi alloggi, con un bacio sulla guancia un po’ troppo frettoloso.

Rimuginando su cosa potesse averla infastidita, Qargon notò sul fondo del salone due figure, sfocate e incappucciate di rosso che si attardavano su un uscio secondario. Ancora intorpidito dal vino, non riusciva a riconoscerle, né ricordava di aver visto simili vesti tra quelle degli invitati al convivio. Le fissò incuriosito.

I due ricambiarono lo sguardo con un’insolita fierezza.

“Chi erano quegli impudenti che lo fissavano in quel modo?” si interrogò pieno di collera.
Non erano stati invitati, né si erano presentati per fargli omaggio e ora lo fissavano in quel modo così impudente. Due intrusi? Due sicari?

 “Guardie, portatemi quei due laggiù! Li voglio qui in ginocchio al mio cospetto” comandò d’improvviso ai suoi pretoriani.

Gli armati si mossero in un lampo per eseguire il compito, ma i due uomini si stavano già avvicinando allo scranno di Qargon a passi decisi. Seguì un secondo di gelo in cui le prime guardie si fermarono in un semicerchio sfoderando le lame e sbarrando loro la via. Il sovrano d’un tratto li riconobbe e dopo un istante di esitazione ordinò di farli passare. Un brivido gli attraversò le spalle. Cosa ci facevano a quell’ora due Incantatori di Khu nella Piramide d’Oro?


La mattina del giorno seguente mezzo corpo di guardia era già stato mobilitato, radunato nelle caserme, equipaggiato e inviato a scaglioni nel sottosuolo in punti diversi della città. Un nuovo capitano delle guardie, di nome Nebukonor, era stato ordinato in tutta fretta dagli Arconti, su mandato dell’Imperatore.

Sotto il comando di Nebukonor, oltre cinquecento uomini in arme, organizzati in manipoli di venti o trenta soldati ciascuno, si trovavano ora a combattere gli orrori giunti dagli inferi nelle profondità delle catacombe. Il grosso delle truppe affollava il secondo livello, concentrandosi in trincee arrangiate attorno ai varchi, ai pozzi e alle strette scale che conducevano al terzo.

Da questi passaggi provenivano i Bui, a centinaia, in ondate che sembravano interminabili, ma che al contempo erano falcidiate dalla pioggia di frecce, dardi, proiettili o semplici pietre che arcieri e frombolieri della Guardia scatenavano contro di loro. I mostri che superavano questo sbarramento venivano poi affrontati corpo a corpo dalle lance degli astati o da semplici reclute, armate di daghe e molto coraggio.

Il secondo livello, a differenza del terzo era stato completamente mappato alcuni anni addietro dai genieri di VonHor. Per quanto questo fosse vasto e intricato, se ne conoscevano almeno i confini e ogni collegamento con il terzo strato ipogeo.

Ciò rese più facile le cose alle truppe di Sumrat, che sapevano ora dove piazzarsi, cosa trincerare e da quali passaggi attendere gli attacchi dei mostri, sebbene questi ultimi fossero in numero molto maggiore che in precedenza.

Delle nere fiamme dell’Ekkar si erano poi perse le tracce. Quasi che l’abominio fosse pago di aver conquistato il terzo piano, eppure nessun audace esploratore era sceso lì sotto per poi far ritorno.

Presto, dunque, svanì l’audacia e i ricognitori cominciarono a scarseggiare, mentre le ondate di Bui si facevano sempre più frequenti e agguerrite. Nebukonor ricorse allora a gruppi di schiavi per proseguire l’ingrato compito di perlustrare le cripte sottostanti.

Di tutti loro uno solo riemerse, da un accesso molto lontano da quello in cui era partito e con un’orda di famelici Bui alle calcagna. Il suo nome era Lotar, un giovane schiavo dogon.

Ancora boccheggiante raccontò al Capitano la sua incredibile storia.

L’intera sua squadra era stata accerchiata e sbranata appena aveva messo piede lì sotto. Lui solo era riuscito a fuggire, nascondendosi miracolosamente, in un cunicolo angusto. Nella fuga, però, aveva perduto la sua torcia, e, con essa, ogni fonte di luce. Si era perciò trovato costretto a vagabondare per ore nel buio tra macerie, corridoi infestati di topi e cripte sgretolate alla ricerca di un passaggio libero per risalire. In molte occasioni aveva percepito i passi dei Bui strascicare in lontananza.

Qualche volta, con sommo orrore, gli era persino parso che stessero camminandogli a fianco, allora si era fatto piccolo schiacciandosi negli anfratti della roccia, sperando di non essere scovato. Eppure, inspiegabilmente, nessuno si era accorto di lui: i Bui sembravano intenti ad accorrere verso certi luoghi specifici, senza nemmeno curarsi che vi fosse qualche intruso tra loro.

Ad un certo puntò, Lotar ne intuì il motivo: erano tutti diretti verso i passaggi al piano superiore, gli stessi che di sopra erano presidiati dai soldati della Guardia. Al che prese coraggio e pedinò, a debita distanza, i passi di una pattuglia di mostri. Sperava così di trovare una via d’uscita da quel labirinto oscuro. La sua sorpresa fu grande quando, dopo un lungo inseguimento, sbucò all’improvviso in un’aula immensa e caldissima, invasa da un fumo soffocante.

 Lotar stava per proseguire nel suo resoconto al Capitano, quando fu precipitosamente interrotto da Nebukonor.

“Hai dunque visto con i tuoi occhi la Fiamma che Divora? Era in quella stanza?” gli chiese scioccato.
Lotar annuì, poi aggiunse:

“Non una, mio signore…gli Dei ci proteggano…! Non era una sola!”

Due falci di luna erano trascorse, e numerosi scontri che erano costati oltre settanta caduti, quando finalmente giunsero i primi rinforzi da Hasay.

La situazione nelle cripte era ancora relativamente sotto controllo. Nessuna traccia degli Ekkar scorti da Lotar, tanto che Nebukonor giunse a dubitare della versione dello schiavo; perciò, lo fece torturare per scoprire se diceva il vero, mentiva o si era sognato tutto, ma questi confermò imperterrito la sua storia.

Ad ogni buon conto, le truppe trincerete al secondo piano, riuscivano fin qui ad avere la meglio sulle orde di Bui, ma non a penetrare il piano inferiore. I soldati in prima linea venivano fatti turnare per evitarne il logoramento eccessivo, visto che gli assalitori sembravano non finire mai.

 Alcuni pozzi e cunicoli erano stati sbarrati efficacemente e quella stessa mattina un manipolo di Hastati era persino riuscito a catturare un Buio solitario.

La bestia, stranamente, era sopraggiunta isolata da un passaggio e non era caduta nell’assalto. Era dunque stata catturata, ingabbiata e portata in superficie per esser esaminata dagli Arconti e dagli Ierofanti.

 Non appena emersa alla luce del sole di Sumrat, il suo orribile corpo aveva iniziato però a fumare e imbrunirsi per poi incenerire rapidamente come un tronco secco gettato tra le fiamme di un caminetto. A nulla era servita l’acqua che gli era stata gettata addosso; la creatura era morta in pochi minuti sotto lo sguardo impotente, ma al contempo compiaciuto dei suoi carcerieri. Ciò che restava del suo cadavere fu studiato dai magistri cittadini dopodiché venne spedito su un viman direttamente al palazzo dell’imperatore per studi più approfonditi.
Il carro volante contenente le mostruose spoglie non era ancora arrivato ad Hasay, quando nel cuore sepolto di Sumrat, decine di piedi al di sotto della Torre dello Zenit, accadde l’imponderabile.

Il giorno, prima che gli orrori del profondo facessero la loro comparsa, c’era chi giurava di averlo visto levarsi in volo dalla Torre del Vespro sul suo Viman nero pece al crepuscolo di una notte senza luna.

Eppure, le voci erano discordanti.

Alcuni dicevano che era fuggito travestito da mercante in una carovana di bufalodonti diretta a Mentheb. Altri che era semplicemente svanito nelle profondità catacombali. Pochi dubitavano che fosse estraneo al cataclisma che aveva infestato i sotterranei e ora minacciava la stessa Sumrat.

Quando VonHor giunse in vista di Mentheb, il capoluogo natale, già albeggiava. Il sole incendiava le calme acque del Belarg facendo capolino all’orizzonte. Il fuggiasco allora abbassò la fiamma del suo carro celeste e con gli occhi scrutò la terra arida e scura in cerca di un buon posto per atterrare.

Da lì in poi avrebbe proseguito a piedi.

Per raggiungere la città fece una lunga deviazione verso occidente, allo scopo di nascondere la sua provenienza a chi avesse scorto in cielo i fuochi del suo Viman.

Dopo un lungo incedere, raggiunse le rive del fiume Argento. L’acqua scrosciava fresca e cristallina dai lontani monti ferrosi.

Tra i canneti aironi e garzette si davano il buongiorno numerosi, ma fortunatamente nessun pescatore o viandante mattiniero gli si parò innanzi lungo la strada che costeggiava il rivo fino a Mentheb.

Giuntò in vista della città si infilò dietro un cespuglio e si cambiò gli abiti, indossando una tunica cenciosa che si era portato dietro da Sumrat dove aveva nascosto l’Amuleto nero. Poi varcò il Cancello del Rivo Meridionale in mezzo a una folla variegata di mercanti, schiavi rhumiani, nobildonne e rigattieri. Era quasi mezzodì e il sole splendeva ardente nel cielo, ma l’animo di VonHor era adombrato dai freschi ed oscuri ricordi di ciò che aveva compiuto nelle Catacombe.

L’odore di sangue non voleva abbandonare le sue narici, né i lampi blu dei Portali cessavano di balenargli nelle retine.

Attraversò incespicando strade e stradine che un tempo gli erano famigliari, ma che ora gli parevano ricordi di un’altra vita, passata e spensierata.

Così conciato e dopo così tanto tempo, pochi l’avrebbero riconosciuto, persino a viso aperto, forse nemmeno il suo vecchio amico Lamech. Ai più sarebbe parso un vecchio mendicante, sfatto e sfinito, e ciò in fondo era un gran bene, ma per maggior scrupolo tenne il capo chino con il sudicio turbante ben calato sopra la fronte lungo l’intero tragitto fino alla sua meta.
Imboccò il vicolo, scese le scalette in pietra e giunse di fronte ad un portone scrostato.

Bussò più volte, ma nessuno rispose, allora spinse la porta e questa con sua sorpresa si aprì senza fare alcuna resistenza. Lamech, il povero fanciullo con cui giocava sulle sponde di Foce Argento, era divenuto negli anni un mercante ricco e di successo e quella che un tempo era la misera abitazione di famiglia era stata convertita nella base segreta per le sue attività di contrabbando, avendo lui optato come dimora per una grande magione di campagna fuori Mentheb.

Il covo urbano di Lamech era come lo ricordava: piccolo e buio. Solo delle anguste finestrelle poste all’altezza del soffitto portavano un po’ di luce dalla strada polverosa, ma ciò che illuminavano non era un ambiente in ordine.

Vestiti sparsi qui e là, stoviglie ed utensili gettati a terra, mobilia ribaltata e nugoli di moscerini sui resti di quella che poche ore prima era stata una colazione. Chiari segni di un’intrusione recente si trovavano un po’ ovunque, come se qualcuno avesse fatto irruzione all’interno dell’appartamento alla ricerca di qualcosa o qualcuno, senza successo.

VonHor capì che era arrivato tardi. Ebbe appena il tempo di rendersene conto ed ecco che sentì il rumore di passi e armature accorrere lungo il vicolo.

Si precipitò senza esitazione verso la camera da letto, terrorizzato, sbarrò la porta alle sue spalle ed iniziò ad armeggiare con il pesante e bizzarro baldacchino sbrindellato che si trovava al centro della stanza, pregando in cuor suo che non ne avessero scovato il segreto.

Quando trovò la leva del marchingegno intatta, nascosta sotto gli assi e i tendaggi, tirò un sospiro di sollievo.

La spinse con tutta la forza rimastagli in corpo finché una grossa piastrella poco lontana non cedette sotto il suo stesso peso, e poi un’altra ancora e poi ancora.

Una cavità fece la sua comparsa in un angolo del pavimento: era l’ingresso del rifugio e del passaggio segreto di Lamech.

VonHor, esultò di gioia e vi si precipitò all’interno.

Un istante dopo, i soldati irruppero in armi nella stanza soprastante per acciuffare il ricercato, ma VonHor, nascosto di sotto, tirò con forza una catenella e il soffitto della camera da letto crollò loro in testa.

LA CADUTA DI SUMRAT di Michele Uberti

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