LA CASA di Silvio Nizza

Foto di pixabay

La casa si trovava in mezzo al bosco.

Non proprio nel luogo più fitto, ma ai margini di un’ampia radura.

Una lunga, tortuosa ma agevole strada portava ad essa. L’ultimo tratto era sterrato, ma molto ben tenuto e gradevole da percorrere.

Più che una casa in realtà era una villa, molto elegante e ben rifinita, preceduta da un’ampia veranda in cui nella bella stagione era piacevolissimo e confortevole pranzare all’ombra dei rami frondosi, fra cui filtravano gradevoli i raggi del sole.

Sul retro invece era stato creato un bel giardino, decorato con fiori colorati ed essenze odorose.

In una piccola dependance a lato, poi, era alloggiato il personale di servizio.

Molte stanze componevano l’edificio su due piani.

Al piano superiore era situata la zona notte con tre camere da letto, una principale molto ampia con attiguo studiolo e due minori ma ugualmente confortevoli, tutte munite di servizi completi, ma rifiniti in maniera diversa in rapporto all’importanza della stanza che servivano.

A pian terreno era la zona più vissuta con studio e biblioteca annessa, cucina, soggiorno utilizzato anche come stanza da pranzo e un gran salone.

L’edificio in origine era stato costruito in legno, ma in seguito, a metà fra le due guerre, era stato riedificato da zero integralmente in muratura con mattoni a vista.

Lo studio ed il salone di rappresentanza, però, erano stati integralmente rivestiti in legno, per cui conservavano in tutto e per tutto l’aspetto ed il fascino della costruzione originaria.

Un imponente, grande camino troneggiava nel salone, mentre uno più piccolo ma forse più caratteristico scaldava lo studio.

La costruzione, dalla sua prima edificazione, ormai si avviava verso i due secoli di vita.

Sì, di vita! Perché quell’edificio sembrava avere una vita propria, era cresciuto e si era irrobustito come un essere vivente, aveva raggiunto il massimo del vigore e dello splendore, per poi lentamente indebolirsi, invecchiare e decadere.

Il capostipite della famiglia trascorreva la maggior parte del suo tempo in casa appartato nello studio, dove si dedicava piacevolmente alle sue letture preferite o studiava attentamente l’andamento degli affari e l’incrementarsi regolare (si potrebbe dire inesorabile) delle finanze di casa.

Il capofamiglia era una persona colta, prudente, coi piedi ben piantati per terra e soprattutto molto oculata.

Veniva a volte rimproverato dagli altri componenti della famiglia o dai vicini di essere troppo tirato o addirittura tirchio del tutto, ma a questa critica era solito rispondere che la ricchezza non si crea dal nulla come niente fosse, ma solo col duro sudore della fronte o sfruttando al meglio il proprio ingegno, e che se, a volte, sembra semplice divenire ricchi o benestanti, è ancor più facile disperdere tutto e cadere in miseria in maniera rovinosa.

La moglie, nei rari momenti liberi, si dedicava al lavoro a maglia in soggiorno, ma per lo più era presa dai figli, dalla loro educazione o dalle loro monellerie.

Infatti, questi ultimi preferivano giocare in giardino o liberamente nei dintorni della casa, dove del resto non era presente alcun pericolo per la loro incolumità, a meno di imprudenze esclusivamente a loro ascrivibili.

I figli erano tre, due maschi ed una femmina.

Il primo piuttosto impulsivo ed a volte un po’ ribelle, mentre gli altri due sia il maschio che la femmina erano più tranquilli e controllabili.

Forse ciò era dovuto al fatto che ambedue i genitori, felici ed impazienti per l’arrivo del primogenito, erano stati piuttosto indulgenti verso lui e non gli avevano messo molti paletti durante la sua infanzia, per cui la sua educazione indubitabilmente ne aveva risentito.

La casa sembrava compiacersi della famiglia operosa, distinta e benestante che si onorava di ospitare e che confortevolmente accudiva.

Sì, accudiva! Come gli altri membri del personale di servizio, di cui anch’essa sembrava fare parte, si adoprava perché la vita al suo interno scorresse serena, placida, operosa.

Con le sue calde pareti assicurava sempre una temperatura gradevolmente tiepida, e quando ce n’era bisogno i due camini contribuivano ben volentieri a creare un’atmosfera intima e rilassante.

I proprietari, in origine, tenevano vita ritirata, ma poi col crescere del loro benessere economico, della loro notorietà e del prestigio che inevitabilmente apporta la ricchezza, avevano incominciato ad intrattenere rapporti con i notabili del luogo.

Così la villa aveva incominciato ad essere frequentata, inizialmente, per motivi di buon vicinato, poi, gradatamente, sia per incontri d’affari che per occasioni mondane.

La famiglia, ormai facoltosa e con conoscenze altolocate, aveva preso l’abitudine, in occasioni particolari, di organizzare delle feste che si tenevano nel grande salone.

A volte, esse erano precedute da un banchetto nel soggiorno con la tavola ben imbandita per l’occasione; altre volte si limitavano soltanto al gran ballo nel salone di rappresentanza decorato ed ingentilito da mazzi di fiori posti elegantemente negli angoli.

La casa sembrava rallegrarsi di tutto ciò ed offriva tutto il meglio che essa poteva dare in queste occasioni.

Si parla della fine del XIX secolo, quando ancora gli ospiti erano soliti arrivare con carrozze trainate da cavalli ed i saloni erano illuminati da grandi lampade a petrolio.

I figli ormai si erano fatti grandi, ampiamente in età di matrimonio, ed essi erano tutti e tre ambiti, soprattutto il maggiore, che, come d’uso, avrebbe preso possesso della parte più rilevante del patrimonio paterno alla morte del patriarca.

Anche gli altri due erano però indubitabilmente dei buoni partiti, se non altro per la stretta parentela col maggiore.

I commerci andavano bene e la ricchezza dei proprietari cresceva via più, per cui ai primi del ‘900 essi erano divenuti la famiglia di riferimento del circondario, soppiantando anche altre di più antica tradizione e di più nobile lignaggio.

Il vil denaro, a volte, è più attraente del sangue blu che scorre nelle vene, quando quest’ultimo non è corroborato da una robusta dose di bigliettoni verdi.

Nel mondo, non tutto, però, trascorreva tranquillo e sereno come in famiglia e le nazioni erano in guerra fra loro.

Il capofamiglia aveva mosso a dovere le sue conoscenze altolocate per far sì che la sua famiglia non fosse toccata per nulla dagli eventi bellici, anzi neppure sfiorata, per cui nessuno dei figli maschi era dovuto partire per il fronte. Essi erano stati destinati a prestare il loro servizio alla nazione in luoghi più che sicuri, seppure onorevoli, senza che nessuno potesse dubitare del patriottismo della famiglia o del suo attaccamento alla suprema gloria della nazione.

Anche la casa pareva trepidare per il futuro incerto, e sembrava come intristita, in essa non si tenevano più feste e ricevimenti eleganti

La pace, per fortuna, poi tornò fra i popoli, senza causare alcun danno alla famiglia, anzi si scoprì che anche la grande guerra aveva contribuito a rimpinguare le già laute casse di famiglia.

È un mistero come, a volte, le guerre possano recare morte e miseria nella quasi totalità dell’umanità, portando però di pari passo ricchezza e benessere a pochi eletti esentati da ogni sofferenza, anzi quasi ricompensati per contrappasso delle sofferenze altrui.

Sia come sia, il prestigio e la ricchezza del casato crebbe ancor più (non è oggetto di questo racconto spiegare come e perché), per cui gli eredi, defunto ormai il capostipite e la relativa amata consorte, erano soliti ormai rivestire importanti cariche pubbliche, presenziare a tutti gli eventi importanti del circondario ed il loro parere era tenuto in altissima considerazione per tutte le decisioni che concernevano la comunità.

Tutti e tre i figli, ormai, avevano contratto onorevoli matrimoni, anche se i relativi coniugi non avevano apportato rilevanti ricchezze a quelle già esistenti nel casato, né ciò sarebbe stato semplice dato che queste erano già ben più che cospicue e sarebbe stato ben difficile trovare nei dintorni qualche agiata dinastia che potesse rivaleggiare con essa per ricchezza, prestigio ed onorabilità.

I figli minori, essendosi creati le relative famiglie, si erano ormai trasferiti, il maschio non molto lontano da lì, la femmina in altra città.

Ormai nessuno frequentava lo studio con la biblioteca annessa, il figlio primogenito aveva alquanto in uggio cultura e lettura e preferiva frequentare luoghi eleganti e mondani nei dintorni ed in giro per il mondo.

Le grandi feste, divenute ormai più frequenti, richiamavano tutti quanti facevano parte del ceto più altolocato della regione, anzi il non essere invitati era segno di irrilevante peso economico, politico e sociale.

Gli ospiti non arrivavano più in carrozza, ma con sbuffanti grandi automobili ed i saloni non erano più illuminati da male odoranti lampade ad olio, ma da più asettici ed eleganti lampadari elettrici.

Questi ultimi erano stati ordinati e fatti prevenire da Murano, con grande dispendio di denaro, ma ormai da tempo non si badava più a spese in quella casa e lo sfarzo era divenuto consuetudine.

La casa era, se possibile, ancora più ricca e magnifica, ma era come se stese lentamente cambiando carattere, proprio come una persona che crescendo acquista sicurezza, ma diviene nel contempo pure più arrogante, categorica e scostante verso gli altri.

La casa scorgeva questi segni di cambiamento in sé e non ne era contenta, era consapevole dei mutamenti che erano sopraggiunti e non li apprezzava.

Essa sembrava rimpiangere i bei tempi andati, più sobri, misurati e semplici, come se si rendesse conto che il proprio carattere e la propria natura andassero pian piano alterandosi e modificandosi.

Erano, ormai, lontani i tempi in cui il capostipite mensilmente tracciava il rendiconto degli affari, per verificare il loro rendimento e stabilire le spese straordinarie in relazione agli introiti. Ormai le spese (e che spese!) andavano in automatico, sicuri che gli incassi prodotti dai commerci (certamente?) coprivano gli esborsi, anzi li sopravanzavano abbondantemente.

Anche i nuovi proprietari si erano, ormai, muniti di un’elegante automobile con autista per i loro spostamenti e lo sfarzo stava lentamente soppiantando la sobrietà dei primi tempi.

Sembrava quasi che gli affari producessero ricchezza in automatico, senza che nessuno controllasse il loro reale andamento, quasi come se una macchina, una volta avviata, procedesse all’infinito da sola senza bisogno di carburante, né di manutenzione alcuna, come se fosse del tutto ovvio e naturale che il saper fare e la ricchezza creata dagli avi fosse ereditata dai discendenti senza che questi si curassero d’altro se non di spenderla e dissiparla.

Le casse della famiglia, per quanto incredibile possa sembrare (e sembrò anche a loro) incominciarono rapidamente a svuotarsi, e questa volta neanche la Seconda Guerra Mondiale fu sufficiente a rimpinguarle, anzi gli affari andarono definitivamente in malora.

Non sempre la fortuna accompagna ed accudisce gli uomini, soprattutto, se questi sono inetti, superficiali e tronfi.

Anche la casa sembrava patire l’andazzo dei tempi ed il declinare della fortuna, come una persona leggermente ammalata, non si sa di cosa. Era sofferente come di un male incurabile, ancora agli esordi, ma che lentamente ed inesorabilmente si fa strada al suo interno, senza lasciar trasparire ancora nulla di rilevante all’esterno, ma che già ha minato il suo interno in maniera irreparabile.

Le feste ormai si erano fatte più rade e distanziate fra loro nel tempo, sia perché le ristrettezze finanziarie non consentivano più gli sfarzi di una volta, sia perché il livello dei partecipanti era sceso di parecchio rispetto ai tempi d’oro.

Ormai la famiglia era stata soppiantata da altre per ricchezze e prestigio, e queste disdegnavano di frequentare la casa, quasi fosse pericoloso e disdicevole accedervi.

Sembrava che la casa fosse afflitta da una grave malattia infettiva (il decadimento finanziario), per cui era opportuno tenersi a doverosa distanza da essa onde prevenire ed evitare ogni possibile pericoloso contagio.

Non si udivano più risa di bambini in giardino, non si vedevano più inservienti indaffarati in faccende varie all’interno e fuori, i proprietari non ricevevano più visite frequenti e prestigiose.

Al suo interno non si trattavano affari importanti, del resto gli affari ormai erano molto pochi, per lo più ci si occupava ormai esclusivamente del dissesto finanziario ormai inevitabile (si cercava esclusivamente di tenerlo lontano il più possibile o di ignorarlo del tutto se possibile).

Per il resto ci si comportava come di norma, fingendo che tutto scorresse regolarmente senza problemi, mentre questi ultimi si affastellavano e rischiavano ormai di schiacciare la casa tutta e di raderla al suolo sotto il loro peso incontenibile.

Essa cercava di opporsi con tutte le sue, ormai flebili, forze; cercava di resistere, ma sentiva ormai il peso degli anni che l’avevano lentamente corrosa dalle fondamenta.

Il dissesto finanziario inevitabilmente si concretizzò con violenza travolgente, come un fiume in piena travolse tutto: rispettabilità, onore, prestigio.

Il primogenito inevitabilmente subì l’onta del disonore del crack economico prima della sua dipartita da questa vita.

Nulla rimase, se non quella casa, ormai derelitta e sempre più bisognosa di ammodernamenti e di cure che nessuno poteva ormai prestarle.

L’unico figlio maschio del primogenito viveva lontano, in una modesta dimora, né ricco né tanto meno preso in considerazione dal resto del mondo, ma di tanto in tanto tornava a vedere la casa dell’infanzia ormai in rovina.

Erano ormai gli ultimi anni del XX secolo, i costumi erano molto cambiati, gli usi anche, la casa ancora resisteva, memore dell’antico splendore, ma era ormai quasi irriconoscibile.

I muri erano ancora solidi, ma il mobilio era alquanto deteriorato, la polvere la faceva da padrone all’interno e la vegetazione stava prendendo lentamente il sopravvento all’esterno.

Il giardino sul retro era ormai sparito, trasformato quasi in una boscaglia incolta e la veranda sul davanti era irrimediabilmente ricoperta da cumuli di erbacce e riparo consueto di miriadi di animaletti di ogni genere.

Il nipote maggiore del patriarca aveva diradato sempre più le sue rare visite alla casa, anziano com’era, ogni volta per lui era un colpo al cuore vederla ridotta in queste condizioni.

Era una casa che lui aveva tanto amata, ricordava ancora, lui bambino, i giochi sul prato, le serate passate in casa al calore del camino scoppiettante, ed ancor di più scaldate dall’affetto dei nonni ormai anziani, le grandi feste, le belle signore eleganti danzare nel salone grande addobbato per l’occasione, le visite di signori importanti ben vestiti ed il nonno che spariva con loro per ore intere nello studio, che in queste occasioni diveniva assolutamente inaccessibile per lui ancora bimbo.

Purtroppo, giovanotto fatto, ricordava anche il dolore per la morte dei nonni e le preoccupazioni dei genitori per gli affari che non andavano più bene come un tempo.

Il padre, non ostante ciò, non lo aveva mai ostacolato nei suoi desideri e nelle due spese, ed a volte lo assalivano come dei sensi di colpa, purtroppo ormai inutili e tardivi, per il tenore di vita dispendioso che aveva continuato a tenere senza mai rendersi veramente conto a qual punto le finanze di casa fossero ormai deteriorate.

Quello che era stato era stato, ed ormai o non c’era più nulla da fare se non rievocarlo gioiosamente e dolorosamente, a seconda delle circostanze, con la memoria.

Ormai il ragazzo che era stato, l’uomo che era divenuto e il vecchio che ora era non aveva che da attendere e sperare una dipartita rapida e serena.

Ciò in effetti avvenne, e fu così all’affacciarsi del terzo millennio che la casa si ritrovò su questa terra completamente abbandonata e del tutto sconosciuta ed ignorata da quanti avrebbero potuto rivendicare legittimamente il suo possesso.

Il possesso di cosa poi? Di un rudere ormai quasi integralmente ricoperto dalla boscaglia, con stanze in cui le ragnatele la facevano da padrone, col tetto semi sfondato in cui crescevano piante rigogliose e di cui era impossibile riconoscere o solo immaginare l’antica grandezza?

I pronipoti di quello che fu il capostipite quasi ignoravano l’esistenza di quella casa, ne avevano sentito solo parlare con nostalgia dal genitore, né sarebbero stati capaci, ammesso che ne avessero avuto voglia, di individuarla nella boscaglia.

La casa era ormai sparita dalla memoria di chiunque, essa però ancora viveva, mal ridotta, allo stremo, ma viveva, non più popolata da uomini, ma da mille altri esseri viventi che ne avevano preso possesso.

La casa aspettava, ascoltava lo stormire delle foglie sui rami agitate da un vento leggero, e aspettava…

La vegetazione aveva ormai preso il sopravvento sulla civiltà (era stata poi civiltà quella?), aveva inglobato la casa e l’aveva fatta propria. Quella, prima aveva cercato di resistere, con tutte le sue forze, poi si era lentamente inesorabilmente arresa a quella forza primordiale e si era lasciata trasformare in alloggio per esseri selvatici (più di quelli che l’avevano abitata in origine?), era diventata parte integrante della natura, quasi aveva perso memoria di sé stessa e dimenticato quello che era stata.

Tutto quanto sottratto alla natura va amorevolmente curato, tutelato e duramente conteso, altrimenti rapidamente decade ed inesorabilmente ritorna ad essa.

La natura è un’avversaria paziente, sorniona, letale, ostica e coriacea. Nel tempo nulla le resiste.

Si dice però che ancora oggi, passando da quelle parti si sente come una forza, come un alito di vita spirare fra le piante, come se una vita palpitasse e sopravvivesse ancora in quei luoghi. Forse sono solo favole o dicerie, ma perché escludere che una casa possa avere una vita propria; un venire alla luce; un crescere e fortificarsi; un invecchiare e poi un morire in tempi, però, certamente più lunghi di quelli di una vita umana.

Sicuramente quella casa, prima o poi sparirà, travolta dal tempo, dalle intemperie e dalla natura, ma sembra che ancora qualcosa di essa sopravviva agli eventi che ha ospitato e che ha visto verificarsi al suo interno.

Chissà se le case hanno un’anima propria (o la acquisiscono nel tempo) e gioiscono e soffrono per le alterne vicende degli esseri che ospitano, custodiscono e proteggono gelosamente con sollecitudine ed amore.

Certo è che, a volte, siamo noi ad affezionarci ad esse in maniera indissolubile, a darle un’anima, un carattere (che forse in realtà è solo il nostro), o forse ancor meglio ci formiamo e completiamo vicendevolmente senza rendercene conto.

Chissà! Non sempre tutto quello che accade sotto questi cieli ha una spiegazione e ci è del tutto comprensibile e chiaro. A volte, è meglio rinunciare a voler capire razionalmente tutto ed accettare che accada quel che deve accadere, senza incaponirsi a ritenere che noi possiamo governare ogni cosa secondo i nostri desideri ed i nostri voleri.

Chissà! …

LA CASA è un racconto di Silvio Nizza

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