LA CONCHIGLIA ROSSA di Luigino Vador
genere: AVVENTURA
PARTE PRIMA
Da molti anni le coste italiane, greche e turche, si erano trasformate in agognati approdi di umanità in cerca di speranza di vita.
Vecchi scafi di legno, gommoni e qualsiasi mezzo che galleggiasse, privi di sicurezza, erano usati per affrontare il mare aperto.
Giovani, uomini e donne, molte incinte, e bambini, spesso soli, erano imbarcati nella fiducia in un ultimo anelito di un futuro.
I bambini erano i più a rischio.
Immagini di piccoli annegati, che il mare aveva restituito sugli arenili, da tempo avevano fatto il giro del mondo, entrando nelle case, a turbare le coscienze.
Parole di circostanza, riprendevano ad ogni successiva tragedia lasciata in gestione nella confusione generale delle iniziative dei governi.
Il Mare Mediterraneo era diventata la fossa comune di bambini ai quali era stato impedito di diventare adulti.
PARTE SECONDA
Marco aveva trascorso un’altra notte di intenso lavoro.
Ma la sua era una scelta di vita che si sentiva obbligato a percorrere fino in fondo.
Solo così si sentiva in pace poiché l’umanità l’aveva dentro di sé.
Era stato un dono che aveva ricevuto, lo aveva capito, e l’aveva fatto diventare grande, trasformandolo prima in un desiderio, poi in passione e infine in uno stile di vita.
I suoi genitori, il papà medico condotto del paese e la madre insegnante elementare, erano stati vittime di un incidente d’auto quando egli aveva dodici anni. Uccisi mentre percorrevano la pista ciclabile che dal paese portava verso le vicine colline a fianco della strada statale, nell’unica curva del tracciato,
Era stato un colpo durissimo da superare per il bambino e per i suoi nonni, che da qual momento, l’avevano allevato e fatto diventare grande.
Marco aveva scelto di studiare per continuare la professione del padre che, fin da piccolo, gli aveva insegnato quanto fosse importante rendersi utile per gli altri.
Così, si era laureato in medicina e chirurgia con specializzazione in medicina d’urgenza e di primo intervento e il pronto soccorso dell’ospedale cittadino era diventato la sua ragione di vita.
Proprio lì aveva incontrato anche l’amore per Laura, anche lei medico di primo intervento con specializzazione pediatrica.
I suoi nonni se ne andarono poco dopo, sereni, portando con loro la gioia di aver visto Mauro diventare un uomo maturo e consapevole come lo era stato suo padre.
Tra le ferie rimandate per mancanza di personale in ospedale, turni di lavoro al pronto soccorso separati, Marco e Laura avevano poche occasioni di stare a lungo assieme.
Ciò, tuttavia, per loro non era un problema, decidendo di accantonare anche l’idea del matrimonio, poiché erano felici delle loro professioni che svolgevano con energia e passione.
Così, gli anni trascorrevano in pace con il modo di entrambi di concepire la vita.
Ma quegli sbarchi di profughi sulle spiagge, intrisi di morti e sofferenze, provocavano ai due turbamenti che si trasformarono, in breve, in veri tormenti.
Spesso si trovavano a concettare di impiegare l’enorme quantità di ferie non godute e accumulate per prestare la loro opera, come medici volontari, in un centro di primo soccorso dei punti di accoglienza profughi.
Il giorno 3 settembre 2015, stavano compiendo un raro turno di lavoro, dalle 12 alle 24, che li vedeva insieme.
Erano nella mensa dell’ospedale, all’ora di cena per un veloce pasto a base di pizza.
La televisione mostrò l’immagine del bimbo siriano, Aylan Kurdi, di tre anni, che era annegato durante l’affondamento della piccola imbarcazione, partita dalla costa turca di Bodrum, con cui un gruppo di persone tentava di raggiungere l’isola greca di Kos per approdare in Europa.
Marco e Laura rimasero con il loro pezzo di pizza in mano incapaci di mangiarlo.
«Che strazio!» esclamarono insieme.
Il servizio televisivo aveva questo contenuto:
“È troppo facile dimenticare la realtà di una situazione disperata che molti rifugiati devono affrontare”, commentava il conduttore, spiegando una scelta non scontata e lanciando, con una domanda, un appello:
“Se queste immagini straordinariamente potenti di un bimbo siriano morto su una spiaggia non cambiano l’atteggiamento dell’Europa nei confronti dei rifugiati, cosa può farlo?”.
Lo chiede agli inglesi terrorizzati dall’ondata di migranti nel tunnel della Manica e agli ungheresi che costruiscono muri, agli austriaci scioccati dai morti asfissiati nel camion, a tutti gli stati dell’Unione Europea che non sanno dare risposte alle centinaia di migliaia di disperati in fuga dal caos, al di là del Mediterraneo.
L’Onu: ‘Il mondo intero guardi alla crisi di rifugiati e migranti’.
L’Unicef: ‘Lo choc non basta, ora bisogna agire per evitare di dare la vita dei bambini in mano ai trafficanti’.
Nilufer Demir, era la fotoreporter che aveva scattato la foto simbolo della crisi umanitaria legata all’immigrazione.
‘Quando ho visto quel bimbo, sono rimasta pietrificata. Sulla spiaggia di Bodrum, Aylan Kurdi, giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu, piegati all’altezza della vita. L’unica cosa che potevo fare era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti.
Il fratello di Aylan, “Galip, di 5 anni, giaceva a 100 metri.
Mi sono avvicinata e ho visto che non aveva giubbetto salvagente. Immortalare quella scena era un mio dovere professionale, nella speranza che, grazie a quello scatto, qualcosa possa cambiare’.
Il padre di Aylan: ‘Ho tentato di salvare i miei ragazzi’ raccontava. ‘Li stringevo entrambi quando la barca si è capovolta, ma un’onda alta prima ha ucciso mio figlio più grande, Galip, e poi si è presa il più piccolo’.
Anche Rehan, moglie di Abdullah e mamma dei due bambini, è morta.
Abdullah ha spiegato che aveva provato a raggiungere l’Europa tante volte per scappare da Kobane, la città curda assediata lo scorso anno dagli jihadisti dello Stato islamico: ‘Stavolta ero riuscito, con l’aiuto di mia sorella e mio padre, a mettere insieme 4mila euro per fare questo viaggio. Arrivati a metà della traversata, la piccola imbarcazione di cinque metri è stata colpita da diverse onde. Improvvisamente abbiamo visto il trafficante turco saltare in mare e ci hanno lasciati soli a lottare per le nostre vite. Sono rimasto tre ore in mare, fino all’arrivo della guardia costiera turca’.
Le autorità turche hanno arrestato i quattro presunti scafisti.
Il giornale “Ottawa Citizen”, quotidiano canadese, sostiene che la zia di Ayalan, Teema Kurdi, attualmente viva nel paese nordamericano, abbia fatto diversi tentativi per far ottenere il visto a tutta la famiglia; la richiesta sarebbe stata rifiutata in giugno. Dopo quanto accaduto, il governo canadese ha offerto ad Abdullah la possibilità di andare lì.
‘Dopo quanto è accaduto, non voglio andare. Porterò i corpi prima a Suruc, poi a Kobane. Passerò lì il resto della mia vita. Voglio che il mondo intero ci ascolti dalla Turchia, dove siamo arrivati fuggendo dalla guerra. Sto soffrendo tantissimo, faccio questa dichiarazione per evitare che la stessa cosa succeda ad altri’. …
«Che strazio!» ripeterono ancora.
«Andiamo a dare una mano a queste persone che soffrono!» disse Laura, mentre due lacrime le solcavano il viso.
«Andiamo!» rispose Marco, stringendola a sé.
Dopo pochi giorni, adempiuto gli obblighi formali delle consegne e avuto il benestare dell’amministrazione dell’ospedale a usufruire di due mesi di ferie arretrate, erano a Lampedusa.
Non ci fu tempo per ambientarsi.
La situazione era di piena emergenza e furono entrambi messi subito in piena operatività.
PARTE TERZA
Marco e Laura si resero conto subito di quanto era diverso lavorare al pronto soccorso dell’ospedale rispetto all’assistenza da prestare a quelle persone che, spinte dalla disperazione salivano si qualsiasi natante, anche mezzo sfasciato, pur di conquistare ancora un filo di speranza nel futuro proprio e dei propri figli.
La mancanza di futuro priva gli occhi della luce della speranza nel domani.
Le prime due settimane furono intense di sbarchi favoriti dal bel tempo.
I due medici lavoravano senza sosta, erano distrutti dalla fatica, ma felici per essere lì.
Ogni pochi giorni, partecipavano a una riunione con gli altri medici per la programmazione dei turni.
Quella sera, Marco si era sentito particolarmente stanco e aveva detto a Laura che si concedeva un sonnellino di mezz’oretta seduto sulla poltrona, per rilassarsi e recuperare un po’ di energia, prima di andare alla riunione dei medici.
«Mi sento le palpebre come se fossero due blocchi di cemento che non riesco più a tenere aperte…» aveva detto addormentandosi di colpo, con la testa abbandonata all’indietro sullo schienale della poltrona.
PARTE QUARTA
Il suono forte, stridulo e incessante del cellulare di servizio ruppe il silenzio della stanza.
Marco ebbe un sobbalzo.
Nel display lampeggiava il codice di emergenza medica che chiedeva la presenza immediata al porto.
Laura non c’era.
Non si preoccupò.
Pensò che lo stesso richiamo di emergenza fosse arrivato anche a lei tramite il telefono di dotazione.
Partì immediatamente, correndo in direzione del porto ancora un po’ assonnato.
Al porto, un fermento di gente che correva in tutte le direzioni, ma tutti sapevano bene cosa fare.
Era arrivato un dispaccio di avvistamento di tre natanti carichi all’inverosimile di migranti siriani, che, partiti dalle coste libiche, arrivati nelle acque internazionali avevano incontrato il mare in tempesta e si erano rovesciati.
Il mare, già dal primo pomeriggio aveva iniziato a ingrossarsi, tanto che gli arrivi numerosi che li avevano impegnati per tutta la mattinata e primo pomeriggio, verso sera si erano prima attenuati e poi cessati del tutto.
Laura era arrivata subito dopo al porto e assieme si erano imbarcati su una delle sei motovedette del convoglio della Guardia Costiera, partite per raggiungere il punto del naufragio.
Era la prima volta che Marco lasciava il centro di accoglienza e affrontava un mare così grosso, ma si sentiva lo stesso felice.
Pensò che affrontare la paura, fosse il modo più giusto di concretizzare la sua opera.
La presenza di Laura, l’equipaggiamento di sicurezza, la professionalità dell’equipaggio, gli davano la tranquillità e il tempo di prepararsi a quello che avrebbero dovuto affrontare nell’area dove le imbarcazioni erano segnalate rovesciate.
Le sei motovedette navigavano distanziate per tenere un margine di sicurezza per le onde che continuavano ad ingrossarsi.
Aveva incrociato lo sguardo di Laura e si erano strette le mani in silenzio, nel frastuono del temporale e il ruggito del mare rabbioso e nero.
Poi, come facevano nelle situazioni difficili, avevano chiuso e riaperto gli occhi, accennando un sorriso, come a dirsi:
“OK. Siamo pronti. Ce la faremo anche questa volta!”
Era notte fonda quando arrivarono al punto del naufragio.
Lo scenario che si presentò a Marco era superiore al quanto lui avesse immaginato.
“C’è un limite umano a tutto e ognuno ha il suo. Chi, come me fa la vita in un pronto soccorso forse lo dovrebbe avere più forte e temprato, ma davanti a questo strazio si può solo sperare di non essere sopraffatti dall’enormità di quanto sta accadendo” pensò Marco.
La sua era più una preghiera che la considerazione della realtà che stava vivendo.
La mancanza del supporto degli elicotteri a illuminare la zona, per l’impossibilità di decollare, si dimostrò essere il problema maggiore.
Tutti gli equipaggi sapevano bene cosa fare, ma era quasi impossibile attuarlo.
Tuttavia, furono eseguite tutte le procedure previste per la grave situazione: lancio dei salvagenti, zattere autogonfiabili, cime e varo di piccoli gommoni.
Ma raggiungere i naufraghi appariva difficilissimo.
Dispersi in un’area vastissima, un attimo si vedevano vicini che sembrava di poterli afferrare, un attimo dopo erano portati in alto sopra un’onda e irraggiungibili.
Il vento mulinava incessante tutto intorno all’imbarcazione sballottolando le persone in acqua facendole ruotare su sé stesse.
Con insistenza, si riuscì ad afferrare quelli che le onde portavano vicino alla motovedetta.
I naufraghi recuperati erano tutti giovani e in gran parte donne.
Molti corpi si vedevano galleggiare senza più vita.
Il vento, che cambiava continuamente direzione, portò a vista una delle barche naufragate.
Il comandante manovrò di conseguenza per raggiungere le persone ancora aggrappate allo scafo capovolto.
Una giovane donna, appena recuperata e salita a bordo, riprese fiato e si mise a gridare in lingua inglese che sotto quello scafo capovolto c’erano delle bambine, che essendo state legate alle tavole dello scafo, al momento del capovolgimento non era stato possibile afferrarle.
Il capo squadra chiese la disponibilità di un medico per affiancarsi al gruppo per tentare di liberare le piccole creature.
Due uomini avrebbero cercato di legare con delle cime l’imbarcazione, altri due e un medico avrebbero tentato di recuperare e rianimare le persone in mare.
Marco disse di essere già pronto, diede un cenno di assenso a Laura, e l’Ok al capo squadra.
Il gruppo si tuffò in mare.
Non fu facile raggiungere l’imbarcazione alla deriva.
Il mare nero ululava rabbioso, sembrava che quegli uomini fossero immersi in un enorme pentolone in ebollizione.
Sopra di loro il cielo era nero e i lampi accecanti dei fulmini lo rendevano ancora più nero.
Una grandine fitta graffiava i visi.
Era la vera rappresentazione dell’inferno.
Pensò che quell’insieme tetro e spaventoso, diventasse da un momento all’altro un enorme buco nero che inghiottisse tutto, così da rendere di nuovo umano quel lembo di mare che stava rappresentando il culmine del dramma.
Infine, nessun naufrago era più appeso al relitto.
Intorno, vagavano corpi inermi che le onde facevano ruotare attorno allo scafo in un perverso girotondo come fossero fuscelli di paglia.
Marco arrivò per primo al bordo dello scafo rovesciato.
Entrò sotto per individuare le bimbe che la donna salvata aveva annunciato.
In un primo momento non riuscì a vedere niente. Sospettò che lo scafo potesse essere un altro.
Poi, un’improvvisa onda fece alzare la prua dello scafo e agganciato a una tavola, che fino a quel momento era nascosta, poté vedere come un piccolo pacchettino, prima che lo scafo ricadesse su sé stesso e nasconderlo nuovamente.
Marco si senti addosso una forza mai avuta; si immerse; arrivò alla prua e con un coltello recise la stoffa che legava quel corpicino allo scafo.
Mentre il sale gli bruciava gli occhi, alla luce del suo elmetto, imbacuccò quel corpo inerme con il salvagente di scorta che teneva legato alla cintura in vita.
Era sotto lo scafo, protetto dalle raffiche di vento e dalla tempesta. Questo gli permetteva di operare con relativa tranquillità rispetto all’esterno in piena burrasca.
La bimba era in una condizione di grave ipotermia.
La piccina, che potrebbe aver avuto al massimo un anno di vita, non rispondeva ai massaggi cardiaci, era gelida, era rigida. Il respiro assente, come il battito cardiaco.
«Qui ci vuole Laura! Qui ci vuole Laura!» cominciò a gridare mentre il cuore gli era salito alla gola che pareva soffocarlo.
Era terrorizzato dall’idea di essere arrivato troppo tardi e continuava a recitare come un infinito rosario:
«Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura! Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura!»
Dopo quegli attimi eterni, si accorse che la mano destra della piccina era meno gelida della sinistra e la teneva stretta al corpo con il pugno chiuso al centro del petto.
«Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura! Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura!».
Marco cercò di aprire quel pugnetto chiuso per massaggiare bene la mano, ma sembrava di gesso! Non si apriva! E in più, concentrando il fascio di luce della pila sulla manina, si accorse che racchiudeva qualcosa di piccolo, ma che emetteva anche della luce rossastra a intermittenza.
«Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura! Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura!».
Proprio in quel momento batterono tre colpi sullo scafo; era il segnale convenuto a cui doveva rispondere con tre colpi per confermare la sua presenza e la richiesta di far entrare sotto lo scafo un altro elemento della squadra; oppure doveva rispondere con un solo colpo e prepararsi a uscire per il rientro alla loro motovedetta.
«Dobbiamo fare in fretta! Dobbiamo portarla immediatamente da Laura!».
Il compagno capì al volo la gravità e aiutò Marco a coprire il corpicino con un telo termico impermeabile per proteggerla fino all’arrivo nella motovedetta.
Marco e l’altro nuotarono fino all’imbarcazione come se avessero le eliche ai piedi.
Si erano dimenticati anche della condizione del mare.
Arrivato nei pressi della motovedetta, Marco cominciò a sbracciarsi e gridare con tutta la voce che ancora riusciva a emettere:
«Laura! Laura! Preparati, questa bambina è in ipotermia! Bisogna intervenire presto!»
Tutti si adoperarono al massimo, per non perdere nemmeno un attimo.
In mezzo a quella strage di vite umane, tutti volevano salvare quella della piccina che si era appena affacciata alla vita in una situazione di morte e impotenza.
Era necessario per tutta l’Umanità.
E Laura si attivò immediatamente.
Aveva già interrogato a lungo la donna.
La bimba si chiamava Farida (perla rara). Alla partenza del barcone era stata portata da una donna che asseriva essere un’amica dei genitori, entrambi morti sotto un bombardamento, appena dopo la nascita di Farida. La madre aveva lasciato detto a questa sua amica che, se fosse successo qualcosa a loro due genitori, in mancanza di altri parenti che potessero accudirla, avrebbe dovuto fare in modo di caricarla su un barcone diretto verso l’Italia per cercare una speranza di vita per il suo avvenire.
E così era stato fatto.
PARTE QUINTA
Laura valutò che le condizioni di Farida erano disperate.
Al suo fianco, Marco non era più l’esperto medico di pronto soccorso; era posseduto da un’agitazione irrefrenabile.
A fianco di Laura, continuava a ripetere:
«Non si riprende! Mio Dio! Cos’altro possiamo fare? Dimmi Laura! Se non si riprende, non potrà resistere a lungo in queste condizioni critiche!»
Voleva accarezzare quel corpicino freddo, darle un po’ di calore, ridarle la vita.
Un pensiero gli martoriava la testa:
“Farida, nella sua breve esistenza, nell’inferno della guerra, sarà riuscita ad avere almeno una carezza dai suoi genitori?”.
Ma, nelle critiche condizioni generali, c’era un fatto strano.
La manina destra di Farida continuava a essere, con il pugnetto chiuso e rigido, assieme al braccino, posato in centro al petto.
Con delicatezza avevano provato a dischiudere quelle piccole dita, senza riuscirci.
Non si sapeva cosa fosse racchiuso in quel pugnetto che emanava dei flebili impulsi intermittenti di luce rossa, in unione con il lento e appena percepibile ritmo cardiaco rilevato dalla strumentazione.
Laura era concentratissima a interpretare qualsiasi piccolo segnale che potesse guidarla nella migliore procedura da eseguire.
Stava china sul corpicino di Farida, sembrava aver smesso anche di respirare per individuare il più piccolo segnale di speranza.
Aveva fatto un perentorio cenno a Marco di calmarsi per non disturbarla.
Improvvisamente, entrambi si accorsero che il tenue raggio di luce che filtrava dalla manina, aveva aumentato leggermente la sua intensità.
«I sensori indicano che comincia ad acquisire temperatura» dissero assieme guardandosi felici negli occhi.
Era solo un piccolo segnale, ma significativo.
«Iniziamo col massaggiare lentamente i piedi con poca pressione, solo sfiorandoli. Poi passeremo a fare altrettanto nelle mani e braccia» ordinò Laura.
Le articolazioni lentamente persero la rigidità.
Alla fine, riuscirono a massaggiare anche la manina che racchiudeva quel qualcosa che emanava quella strana luce rossa palpitante.
Con loro meraviglia scoprirono che era una piccola conchiglia rossa chiusa, che, anche dopo averla tolta dal palmo della mano di Farida, continuava ad emanare la luce e pulsare.
Non avevano mai visto una cosa simile.
Cos’era?
Un giocattolo?
Un talismano?
Nessuno dei due si sentì di formulare una spiegazione a quel mistero. Non c’era né il tempo, né il luogo adatto.
Ma stabilirono che quella stana conchiglia dovesse rimanere con Farida. Perciò la legarono con un filo e gliela misero al collo.
Farida cominciò a prendere colore in viso e a muovere mani e piedi.
Sembrava che gradisse i massaggi, forse li scambiava per carezze: le prime carezze della sua giovane vita, riottenuta all’ultimo istante.
Marco e Laura tirarono un grosso respiro di sollievo: la temperatura di Farida continuava piano a salire e le permise di iniziare a ricevere la terapia.
Era anche il momento di un abbraccio tra le lacrime di gioia che rigavano i loro volti: era una delle poche sopravvissute a un’immane tragedia che aveva sepolto in fondo al mare centinaia di vite umane.
Le condizioni della piccola Farida restavano comunque sempre critiche.
Marco fece presente al comandante che era necessario rientrare immediatamente in porto per poterla trasferire in un ospedale attrezzato.
Restava il mistero della conchiglia che emanava calore e luce pulsante.
Ma la questione fu accantonata. Era vitale per tutti salvare la piccina.
Il rientro in porto fu meno difficoltoso del previso poiché il vento spingeva a oriente la tempesta.
Erano già stati approntati un aereo e un’autoambulanza e in breve tempo Farida era già in un ospedale pediatrico.
Marco e Laura erano con lei.
Per tutto il viaggio, Farida era rimasta immobile, ma sembrava osservarli con occhi languidi, lontani, impauriti, ma che non esprimevano più terrore.
All’ospedale la piccina fu affidata all’equipe di servizio.
Marco e Laura restarono a disposizione per dare tutte le informazioni necessarie a stilare la cartella clinica.
Vollero che, accanto alla dichiarazione della donna che aveva raccolto la storia di Farida, fosse evidenziato, accertata la condizione di abbandono di Farida, la loro intenzione di adottarla.
Appena Farida fu dichiarata fuori pericolo, l’attenzione generale si concentrò sulla conchiglia che pulsava ed emetteva luce in unione con la frequenza cardiaca della piccola.
Nessuno era in grado di elaborare una risposta, né di definire una procedura di ricerca.
La presenza della conchiglia introduceva un aspetto sconosciuto e misterioso che recava due problematiche.
La prima, di natura medica poiché non si sapeva quello che sarebbe potuto succedere alla piccola togliendole di dosso la conchiglia rossa.
La seconda, investiva aspetti di sicurezza poiché non si conosceva la natura della conchiglia rossa.
Di che materiale era composta?
Erano pericolose le sue pulsazioni e le sue emanazioni di luce e calore?
La piccola paziente avrebbe dovuto essere sottoposta ad accertamenti radiologici e tac, ma avrebbero potuto interferire con le pulsazioni originate dalla conchiglia?
La direzione medica decise, intanto, che fosse opportuno spostare Farida in un reparto d’isolamento.
Furono chiamati scienziati e ricercatori per analizzare la conchiglia.
PARTE SESTA
La pratica di conferma dello stato di abbandono di Farida fu conclusa rapidamente e la domanda di adozione fu avviata per una rapida conclusione.
Le analisi della conchiglia, invece, restavano il punto fondamentale da chiarire per poter procedere alla definizione della diagnosi precisa dello stato di salute della piccola Farida e delle conseguenti terapie da attuare.
Furono effettuate numerose ricerche.
Fu appurato che aveva la composizione tipica di tutte le conchiglie costituite da carbonato di calcio o fosfato di calcio che, cristallizzandosi, generano calcite e aragonite, dove il tipo di aggregazione degli stessi cristalli ne determinano la forma e l’aspetto.
Ma quella semplice conchiglia aveva un colore rosso e un potere salvifico.
Accadde che la vicenda arrivò ai media.
La notizia fu di portata mondiale!
E si moltiplicano i ritrovamenti di conchiglie rosse, con le stesse caratteristiche, in tutte le spiagge marine.
Si formarono due opinioni: quella del pericolo imminente per l’intera umanità; e quella di una grande opportunità per la vita.
Si parlò di interventi divini.
Si parlò di interventi provenienti da altri mondi e civiltà.
Si moltiplicarono proposte e iniziative a favore e contro.
I due medici del pronto soccorso furono subissati di domande, interviste, partecipazioni ad eventi.
Ma essi continuarono a lavorare al pronto soccorso con il solito entusiasmo e applicazione.
Un giorno, Marco chiamò Laura. Le disse di essere stato invaso da una strana sensazione di serenità e pace. Le disse che tutto ciò che stava accadendo era buono poiché il destino gli aveva dato la possibilità di scoprire la conchiglia rossa.
PARTE SETTIMA
Le scoperte sulle spiagge di tutto il mondo e la raccolta delle conchiglie rosse si protraevano.
Le popolazioni di ogni nazione erano impegnate tutte nella ricerca.
Era una vera rivoluzione mondiale.
Farida migliorò e cominciò a sorridere.
Un giorno allungò lentamente una mano verso quella di Lara che prontamente la strinse.
Anche Marco vi pose la sua mano.
La conchiglia, appesa con un filo al suo piccolo collo, aumentò le pulsazioni.
Appena la piccola si addormentò provarono a sciogliere il contatto.
Farida iniziò a tremare e la conchiglia aumentò le pulsazioni.
Restarono così, entrambi con le loro mani a racchiudere quella della bimba che si addormentò profondamente.
Farida si svegliò da sola, dopo un certo tempo, sorrise, liberò la sua mano da quelle dei due suoi salvatori e protese entrambe le braccia verso di loro.
La conchiglia rossa non modificò più le pulsazioni.
Il suo compito era terminato.
PARTE OTTAVA
Si scoprì che ogni conchiglia raccolta aveva gli stessi poteri di quelli della conchiglia di Farida.
Ma esso era unico e riservato a colui che l’aveva raccolta.
Se la stessa persona avesse posseduto un’altra conchiglia, questa non avrebbe avuto alcun potere.
Ma se la conchiglia fosse stata donata ad uno che ne fosse sprovvisto essa trasferiva il proprio potere al nuovo possessore e il vecchio possessore avrebbe potuto cercare un’altra conchiglia dotata di poteri.
Uno tsunami gigantesco aveva travolto i rapporti tra le genti.
Gli egoismi personali cessarono.
Un’empatia diffusa pervase il mondo.
Tutti portavano al collo la conchiglia rossa generatrice di felicità.
PARTE NONA
Marco era ancora addormentato sulla poltrona, con la testa abbandonata all’indietro sullo schienale della poltrona, dove si era addormentato di colpo.
Era passata più di un’ora e i colleghi medici li attendevano per la riunione programmatica.
Laura gli passò la mano su una guancia e gli diede un buffetto:
«Marco svegliati, ci aspettano per la riunione!»
Marco non diede segni di reazione.
Laura ripeté l’operazione con più decisione:
«Svegliati Marco è ora di andare!»
Ancora nessuna reazione da parte del suo uomo.
Laura cominciò a preoccuparsi. Non era da lui dormire così profondamente.
Lo scosse con decisione.
Improvvisamente, lui aprì gli occhi urlando:
«La conchiglia…, la conchiglia rossa…, dobbiamo andare a raccoglierle per noi…, per te…»
«Tesoro! Hai avuto un incubo? È da tanto che tento di svegliarti! Ti ricordi che dobbiamo andare alla riunione dei medici?»
Marco sussultò, appariva turbato.
«Tesoro! Hai avuto un incubo?» ripeté Lara agitata.
Marco non rispose.
La guardò, sorrise, la abbracciò forte ed esclamò:
«Lara, amore mio! No. Non ho avuto un incubo. Ho sognato il futuro, il paradiso! È bellissimo credimi! Ma ora andiamo a fare il nostro dovere. Ti racconterò per strada…, la storia di Farida, la perla rara, la nostra vita assieme, ricomincerà con lei.»
LA CONCHIGLIA ROSSA di Luigino Vador
genere: AVVENTURA