LA COSA di Cesare Amadei
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Se lo raccontassi a chi conosco non ci crederebbe, probabilmente mi riderebbe in faccia pensando che si tratti di una delle mie opere teatrali che mai vedranno le luci del palco.
Ma, se tacessi mi esploderebbe la mente e con questa storia finirebbero in mille pezzi anche il mio cervello e il mio cuore.
A stento riesco io stesso a restar convinto che non si sia trattato di un incubo. Se dovessi dirla tutta mi piacerebbe che lo fosse stato.
Chi mi conosce sa che sono ricco di fantasia, ma estremamente logico e, sopra ad ogni cosa, odio le menzogne. Tuttavia, mi prenderebbero per bugiardo, ne sono convinto, perché probabilmente lo farò anche io.
Quindi, per scendere a un compromesso con me stesso, ho deciso di scrivermi questa lettera prima di dimenticarmi di tutta questa storia.
Sono passati solo tre giorni, forse quattro dal primo incontro con quella cosa, avvenuta poco dopo una rimpatriata amichevole.
Circa un paio di settimane fa, mi trovavo in un bar con amici.
Erano due mesi che cercavamo di organizzarci per bere una birra, in memoria dei bei tempi andati.
Luca, come al solito, ci ha dato buca un paio di volte. Ha sempre impegni all’ultimo momento (pigrizia) e, per contrappeso, trova tempo all’improvviso.
Così, dopo vari messaggi, siamo riusciti a vederci di giovedì sera.
Io sono scapolo. Per quanto mi riguarda, i due mesi che ci hanno divisi sono dipesi esclusivamente dal fatto che sono un cantante e faccio serate nei pub per portare a casa la pagnotta.
Gli altri quattro, invece, sono sposati o fidanzati. Dunque, devono chiedere il permesso alle loro compagne per la libera uscita e solitamente con largo anticipo.
Finalmente ci siamo rivisti e con l’intenzione di non tornare a casa con la strada diritta come l’avevamo percorsa sul cammino di andata, che ci divide dal nostro vecchio ritrovo.
Io e Luca vantiamo di poter tracannare alcolici come pochi, riuscendo a stare in piedi e ad animare le feste. Nicola, Stefano e Giulio invece alla quarta birra da 66cl iniziano a parlare strane lingue e ognuno la propria. Sembra di assistere alla torre di Babele perché si parlano ma non si capiscono.
Il più esilarante del gruppo, però, è Marco che alla seconda birra inizia a ridere come un ebete per ogni cosa.
Quest’ultimo è preso in giro da tutti noi. Diciamo che è la cavia di ogni scherzo che ci viene in mente. Grazie a Dio ha un grande senso dell’umorismo e sa che gli vogliamo bene, altrimenti penso che un giorno potrebbe strozzarci tutti, per quante gliene abbiamo fatte passare.
Sinceramente, però, è come se fosse il suo ruolo in questo mondo. Persino la sua ragazza ogni tanto gli fa qualche scherzo, uno dei quali, ben riuscito, tre settimane fa, quando lei ha avuto la brillante idea di farsi trovare nuda in salotto, avvinghiata a un buon amico di Marco.
Non giudicatela, lei da quel che sappiamo è la prima volta che lo tradisce, mentre lui invece conosce il listino prezzi dell’intera statale; infatti, ha un’insolita fissazione per le prostitute e i locali per scambisti. Da quello che so lui l’ha perdonata e, se ho capito bene, per pareggiare i conti psicologicamente, le ha raccontato di aver avuto anche lui una scappatella con una ragazza.
Naturalmente ha picchiato a sangue il suo amico che non lo ha denunciato, solo per paura del fatto che il padre di Marco è un avvocato rinomato di Roma.
Al bar, Marco, ha persino detto che se la sua compagna ci stesse, le vorrebbe proporre di provare uno dei locali che lui frequenta, ma secondo me il mio caro amico si prenderebbe un sano pugno sulla faccia e una cartina con le indicazioni stradali per quel paese innominabile, che dipinge volgarmente il deretano quale luogo d’arrivo.
Comunque, dicevo che finalmente ci siamo trovati al bar e dopo esserci scambiati stupidaggini sulla nuova barista che ci ha serviti, la quale devo ammettere è stato un notevole acquisto per il locale (non certo per le sue qualità da barista) abbiamo iniziato a raccontarci reciprocamente i due mesi passati lontani.
Giulio e Nicola non hanno mai tanto da dire, fanno una vita molto monotona, fabbrica e casa.
Marco ci ha raccontato i dettagli di quello che è accaduto con la sua ragazza, senza però omettere delle sue ultime serate da “toy boy” passate con una donna di cinquantotto anni che ama il fetish.
Stefano ci ha ammorbati dipingendo la sua morosa come un angelo celestiale che vive di pura luce e fotosintesi clorofilliana, dedita a lui come una thailandese e lavoratrice instancabile come un tornio.
Una noia incredibile (prima di raggiungere la seconda birra, lui è così). Tanto che, dopo mezz’ora di dipinto, si è alzato in piedi Marco esclamando:
«Facciamo un brindisi a Sara che, mentre Ste’ si sta’ ubriacando con noi, è a casa a farsi sbattere come un tappeto persiano da qualche ragazzone, il quale invece di restare incantato dai raggi di angelica luce che essa emana, la luce la spegne e la fa sentire donna!»
Siamo scoppiati tutti a ridere, nessuno se l’aspettava un’uscita simile, tanto che Giulio, che stava bevendo, è esploso sputando la birra in faccia a Ste’ e Nico.
Penso che se Lello (è il soprannome di Giulio) non stesse rischiando il soffocamento per la birra, tossendo come in preda a una broncopolmonite, Ste’ (che si è preoccupato per lui) questa volta si sarebbe letteralmente incazzato.
Dalle occhiatacce che ha mandato per qualche minuto a Marco di certo non l’aveva presa bene.
Colmo dei colmi, Luca e io, che eravamo seduti di fianco abbiamo scommesso, sottovoce, una birra: io sostenevo che da lì a due minuti Ste’ avrebbe chiamato Sara per controllare, secondo Luca invece ci avrebbe messo un po’ di più, per paura di essere preso in giro da noi.
Ho vinto io.
Dopo nemmeno un minuto, infatti, si è alzato con la scusa di andare in bagno e lo abbiamo visto, dalla vetrata che percorre tutto il bar e per la quale si vede l’intero locale, prendere il telefono dalla tasca e chiamare.
Dopo battute varie su di lui, abbiamo ripreso a scherzare in modo generale.
Nel frattempo, sono arrivati anche Tom e Giuseppe, i quali frequentano assiduamente il bar ma non bevono alcolici.
Tutte le sere o quasi vanno al “Barettino”, ordinano un caffè mentre Tom fa fuori tutte le noccioline e patatine presenti sul bancone, poi si fermano a parlare di calcio o di politica con chi trovano.
Giuseppe in particolar modo è un personaggio molto colto, con lui chiacchiero volentieri perché si può parlare di tutto, partendo da discorsi filosofici a quelli di economia.
L’unico difetto delle chiacchierate con Giuse’, è che ogni discorso si ricollega a teorie di complotti che vedono implicate le logge massoniche o la Chiesa.
Non che abbia torto, condivido molti dei suoi pensieri, ma io amo legare i discorsi generali o filosofici a qualcosa di concreto in modo da dar loro uno scopo pragmatico e non do atto a sole chiacchiere lasciate al vento.
A che serve perdere troppo tempo dove non puoi agire o credendo a libri che parlano di cose in modo deciso, quando non puoi confutare se queste sono cose vere o meno? Ho sempre pensato che il mercato delle idee sia controllato, dunque, se è così, le informazioni che diventano di dominio pubblico lo sono anch’esse. Non è difficile, tuttavia, accorgersi che non siamo altro che bestie in un allevamento; vacche che, invece di dare latte danno “spesa”, ovvero fanno girare il mercato in base a come viene indirizzato tramite bollettini della sanità, affermando quanto più o meno sano sia un cibo, o mode lanciate dai ricchi nelle quali sei una persona migliore se consumi un prodotto piuttosto che un altro.
La gente comune pensa che non ci siano i soldi in questa epoca di crisi profonda, ma è falso. I soldi ci sono. Prima venivano solamente spesi diversamente, ora sono state create necessità che tali non sono, in modo da calcolare esattamente il potere di acquisto di ognuno e limitarlo.
Avete mai visto “Kung Fu Panda”? Quel film d’animazione magnifico. Vi ricordate come Shifu decide ti tenere avvinto Po per allenarlo? Tramite la sua necessità psicofisica, ovvero il cibo. Solo quando il panda è abbastanza forte spiritualmente rinuncerà alla polpetta che vince in duello al suo maestro. A quel punto, diventerà libero e sarà pronto a combattere contro il suo nemico.
Allo stesso modo ci tengono in pugno fin dalla più giovane età.
L’unico modo per riuscire a sbilanciare l’equazione di controllo è conoscere sé stessi capendo i propri reali bisogni.
Purtroppo, la massa non accetterà mai di lavorare per la massa e il singolo di spogliarsi dei vistosi abiti sfarzosamente inutili che lo portano a somigliare a un paralume da salotto dei primi anni del Novecento. Quindi, i pochi che ci riescono vengono masticati e sputati dal sistema. Oppure, restano una minoranza accettabile, che riesce a convivere con la propria presa di coscienza e gli altri animali da allevamento.
Sono contro ogni idea politica attuale, ci chiamano comunità ma di fatto non lo siamo mai stati. La sinistra, la destra, altro non sono che facce della stessa medaglia. Il comunismo proprio come i totalitarismi di destra non pensano che al potere sulle masse. Non rispetto molto i futuristi, la maggior parte di loro erano guerra fondai razzisti, che hanno dato il via al controllo cercando di combatterlo o facendo parte di quella “élite” che ci governa, ma una cosa uno di loro l’aveva detta giusta: D’Annunzio asserì che “siamo troppi”. Secondo me aveva ragione. Mai come oggi il mondo è popolato, anche se però non condivido la sua idea per la quale il modo per ridurre il numero, era e sia una “bella” guerra.
Dopo che Tom e Giuse’ si erano seduti con noi al tavolino, io e lui ci siamo persi in discorsi riguardanti alcune leggi di mercato globale, gli altri hanno continuato a sparare cavolate.
Luca stava ad ascoltare noi due annuendo ogni tanto con la testa. Ste’, che nel frattempo era tornato dal “bagno”, parlava di partite della Juventus assieme a Tom che è un capo ultrà della squadra.
Tutto sembrava riaver preso il naturale ritmo delle cose, come se non fosse passato nemmeno un giorno dall’ultima volta che ci eravamo visti.
Qualcosa, però, stava per rendere diversa la serata.
Noi, come avrete intuito, eravamo seduti all’esterno del bar, il quale dà proprio sulla statale. La mia sedia era rivolta verso l’enorme rotonda (anche se da lì se ne vedeva solo un minuscolo spicchio) la quale permette a quel locale di essere così frequentato nelle ore di punta.
Improvvisamente, ho sentito un rumore strano.
Un rumore di freni e ruote che slittavano in lontananza.
Non che non accada mai! Su quella strada la gente corre in auto come se facesse parte di una serie TV degli anni Ottanta.
Il problema è che all’avvicinarsi di quell’auto alla nostra posizione, il motore ruggiva ed era in compagnia.
Eravamo gli unici all’esterno del locale.
Quando le auto sono state abbastanza vicine anche gli altri si sono allarmati.
Abbiamo visto due automobili che occupavano entrambe le corsie cozzando tra di loro. Poi, si sono sentiti forti rumori di spari.
Tutti si sono buttati a terra. Addirittura, un paio di noi sono entrati e osservavano da dietro il vetro (come se questo potesse difenderli in caso di un proiettile vagante!). Sciocchi!
Ma il più stupido sono stato io che, invece, me ne sono rimasto fermo lì sulla mia sedia a osservare incuriosito, con la mia birra in mano, come se fossi al cinema.
Le due auto andavano veloci e ci hanno messo poco a superare il bar.
Una volta giunti alla rotonda, c’è stato un forte schianto.
L’auto nera, che era nella corsia regolare, sembrava fosse inseguita dall’altra di colore grigio metallizzato. Spinta da questa, non è riuscita a tenere la carreggiata della curva della rotonda, e si è ritrovata con il tettuccio riverso e le ruote che giravano a vuoto.
Sembrava di vedere una tartaruga capovolta che tentava invano di rimettersi in piedi.
Lo schianto ha fatto uscire anche i tre gatti che c’erano nel bar, nonché la barista, che ha fatto rialzare da terra i miei amici.
Io sono balzato sulla sedia per poter vedere quel che accadeva.
Tutti in gruppo ci siamo avviati verso l’angolo dal quale si vede bene la rotonda.
A quel punto, abbiamo sentito il rumore di una portiera che si apriva, uno sparo e qualcuno che gridava.
Nel frattempo, la ragazza che ci aveva servito ha preso il telefono in mano, forse per chiamare i carabinieri, mentre la porta del retro del “Barettino” si è spalancata di botto.
Da quella direzione abbiamo potuto udire chiaramente le urla di Gino, il titolare del locale, che urlava qualcosa nel suo dialetto siciliano.
Poi, si sono susseguiti altri spari in successione.
Erano più vicino a noi.
Non potevano arrivare dalle auto.
Provenivano dal retro del locale posto verso la rotonda.
Io ero in testa al gruppo di curiosi e mi sono precipitato a vedere che cosa stesse succedendo.
Mentre facevo questo, dall’auto grigia, qualcuno sbraitava a gran voce:
«Andiamo! Via, via!»
«Non lo trovo! Aspetta!» ha risposto un altro.
«Ci torniamo dopo! Quello ci ammazza se restiamo qui!» ha replicato il primo.
A queste parole hanno fatto eco rumori di portiere sbattute e di ruote che mordevano l’asfalto.
Appena sono giunto sul retro del locale ho visto Gino correre verso la rotonda buttando tra i cespugli quello che mi sembrava fosse un fucile da caccia.
Quando il titolare del bar ha raggiunto la rotonda, anche gli altri, di corsa, sono andati a vedere se qualcuno avesse bisogno di aiuto nell’auto.
Io invece no.
Non perché mi mancasse la preoccupazione, ma perché sentivo di non dover andare.
Nella mia testa c’era una voce che si chiedeva cosa stessero cercando gli uomini che sono scappati.
Per rischiare così tanto e sparare a un uomo ci vuole una motivazione forte.
Ho ripercorso a ritroso, in pochi istanti, quello che ero riuscito a vedere mentre stavo seduto sulla sedia rischiando la vita.
Un particolare, che nel caos era sembrato inutile, improvvisamente era divenuto essenziale.
Poco prima che le auto in corsa avessero superato la nostra posizione, avevo visto qualcosa balzare dell’auto e finire tra l’erba che si trovava appena oltre le carreggiate. In quel momento avevo pensato che si fosse staccato lo specchietto di destra dell’auto nera. Ho deciso di andare a vedere. D’altra parte, c’era gente a sufficienza per occuparsi dei possibili feriti. Dunque, io ero libero di togliermi quella curiosità.
Luca mi aveva guardato per un attimo confuso mentre io correvo nella direzione stabilita dai ricordi.
Ho proseguito con passo svelto. Non immaginavo cosa avrei trovato. Pensavo, invece, che se fosse arrivata prima la polizia, non mi sarebbe più stato permesso di avvicinarmi. Finalmente, sono giunto nel punto da me ipotizzato. L’erba era alta, non curata e mi arrivava all’altezza del ginocchio.
Ho iniziato a rovistare con i piedi. Non vedevo altro che ortiche, vecchia immondizia abbandonata dai bravi cittadini italiani, e pietruzze.
Il suono delle sirene di una pattuglia, in lontananza, mi hanno indotto ad accelerare la ricerca.
I miei piedi hanno urtato qualcosa che sembrava una pietra. Però, era più grossa delle altre. Ho spostato con le mani l’erba, superando un senso di ripulsa.
Era una cosa di forma sferica con dei riflessi strani, violacei. Ho pensato che fossero dovuti alle luci blue che si diffondevano dal bar.
Mi sono guardato attorno per vedere se qualcuno mi stesse osservando. Non ho visto nessuno.
Infine, l’ho toccata.
Appariva viscida, ma non bagnata.
Per un istante mi ha ricordato la pelle dei serpenti. Una volta, avevo fatto uno spettacolo con dei pitoni albini. Per questo, so riconoscerne la sensazione.
L’ho presa in mano, l’ho sollevata per accertarmi che sotto non fosse cava.
Con sorpresa, ho appurato che era solamente una sfera nera. Però, cosa fosse in realtà non lo avevo ancora capito.
L’ho pulita, passando le mani sulla superficie liscia, e l’ho coperta con il giubbotto. Ho iniziato a provare una strana sensazione, come un brivido caldo nel cervello.
Sono corso al bar, dove avevo lasciato il mio zaino azzurro, e vi ho messo dentro la sfera. Infine, temendo che gli uomini in divisa avrebbero perquisito anche noi per assicurarsi che non avessimo raccolto niente dalla scena dell’incidente, sono andato in bagno per nascondere lo zaino.
Porto sempre con me il mio “borsone”, ci tengo un po’ di tutto e soprattutto il necessario per ogni evenienza.
Arrivato nel bagno sono salito sul water e ho spostato i pannelli del contro-soffitto. Ho spinto la borsa il più lontano possibile dal pertugio dal quale l’avevo inserita.
È un nascondiglio che ho appreso da un tossico che girava in paese tempo fa e che ora è morto di overdose. Pensavo che nessuno potesse conoscere quel posto. Lui ci nascondeva le sue dosi e alcune che vendeva agli amici. Lo avevo scoperto per caso anni fa. Avevo notato delle impronte di scarpa sulla tazza del gabinetto e delle ditate sul pannello che guarda sopra di esso. Incuriosito, avevo guardato all’interno e scoperto i famigerati sacchetti contenenti la “roba”.
Dopo aver depositato la mia refurtiva, sono uscito e ho raggiunto gli altri alla rotonda. Quando sono arrivato vi erano già due pattuglie, una dei vigili e una dei carabinieri. I vigili facevano rilevamenti metrici mentre i carabinieri stavano interrogando i miei amici.
Appena sono arrivato mi ha raggiunto Luca. Mi ha chiesto dove fossi stato e gli ho detto che mi ero dimenticato una cosa.
Poi mi ha raccontato cosa hanno visto quando sono arrivati alla macchina, ovvero che il tizio nell’auto era gravemente ferito ma ancora vivo. Mi ha detto che quando ha cercato di staccare la cintura di sicurezza per portarlo fuori dall’auto, l’uomo ferito ha urlato:
«Non me la porterai via! È mia! Mia!» dopo di che è svenuto.
Appena ha finito di raccontarmi la vicenda è arrivata anche l’ambulanza che ha caricato il moribondo e lo ha portato via.
Partita anche quest’ultima, un agente mi ha stretto la mano, se l’è asciugata, si è presentato, mi ha fatto alcune domande per ricostruire l’accaduto a cui ho risposto in modo molto accurato, naturalmente omettendo il dettaglio della sfera.
Pensavo che, se un uomo nel delirio prodotto da gravi ferite invocava ancora l’oggetto che era la causa del proprio grave stato fisico, quello doveva nascondere un enorme segreto e un notevole valore.
Dunque, dovevo proteggere quella cosa; capire bene a cosa servisse; se essa costituisse l’involucro di un’altra cosa.
Gli agenti ci hanno detto che potevamo andare ma non prima di averci fatto firmare le nostre dichiarazioni e di averci detto di restare reperibili per ogni eventuale chiarimento.
Essendoci di mezzo una sparatoria, ci sarebbe stato, inevitabilmente, un’indagine e un processo. E noi eravamo gli unici testimoni! Nessuno aveva visto in faccia gli uomini che erano scappati, ma io e Gino avevamo dichiarato che nella macchina grigia vi erano almeno due uomini.
Gino, comunque, aveva buttato via il fucile prima di soccorrere l’uomo dell’auto nera. Da ciò ho intuito che l’arma non fosse denunciata. Perciò, anche io come lui ho omesso questo particolare. Lui mi ha ringraziato, prima di andare a recuperarlo.
Verso fine serata Luca mi ha chiesto:
«Sam, dove è il tuo zaino?»
Gli ho risposto che l’avevo portato dentro per paura che qualcuno, approfittando della confusione, potesse rubarmelo.
Prima di andare a casa ho recuperato borsa e sfera, ho caricato tutto in macchina e poi sono partito.
Per quanto avessimo bevuto e per quanto avessimo continuato a bere dopo, l’adrenalina che avevamo in corpo bruciava letteralmente l’alcol che, per questo, non sortiva più l’effetto sperato al nostro cervello reso iperattivo.
La strada di ritorno era stata dritta come quella dell’andata.
Giunto a casa, ho posato la borsa sul tavolino di fronte al divano. Poi, mi sono seduto con le gambe incrociate fissandola.
Ho aperto lo zaino dopo cinque minuti di meditazione sul da farsi.
Stranamente ho notato nella luce soffusa del mio salotto che la sfera manteneva quegli insoliti riflessi violacei anche lì, dove non vi erano luci azzurre.
Capito che era una sua peculiarità, il mistero si faceva ancora più fitto, sia sulla sua composizione che sul suo utilizzo.
L’ho posata sul mio grembo, cercando un tasto che la facesse aprire.
Non ho trovato nulla.
Ho provato a batterci sopra con le nocche cercando di capire se l’interno fosse vuoto, ma al mio battere essa non emetteva alcun effetto acustico come se il materiale di cui la sfera era composta attutisse le vibrazioni e non permettesse all’aria circostante, o alle proprie molecole, di vibrare.
Nessun suono.
Ho battuto ripetutamente su quella cosa. Ho ottenuto sempre lo stesso risultato per quanta forza potessi imprimere al colpo.
Penso di essere rimasto a fissarla almeno una mezz’ora prima di prendere un trinciante dalla cucina e tentare di scalfirla in qualche modo.
ll risultato è stato il nulla.
Il venerdì mattina solitamente dormo profondamente perché la sera mi aspetta uno dei miei lavori da cantante da piano bar nel locale “Jungle”.
Quel venerdì, invece, mi sono alzato presto e nervoso. Non ero nemmeno andato in camera a dormire, avevo dormito sul divano. Non ricordo nemmeno quando mi sono addormentato.
Il sole penetrava attraverso la tenda del salotto e colpiva da sinistra me e la sfera posta sul tavolino. Tutta la stanza era immersa in una strana luce violacea e azzurra che veniva emessa da quella cosa.
Quando sono andato a lavarmi il viso in bagno ho notato che la mia faccia era stanca più del solito al risveglio.
Tornato in salotto ho impiegato alcuni minuti per osservare quei magnifici riflessi sui muri e sui mobili, prodotti dalla sfera.
Poi, il sole si è spostato. Il suo raggio non colpiva più l’oggetto e la magia è svanita.
Mi sono steso sul divano e ho passato la mattina intera a spostare la sfera in modo da farla colpire dai raggi del sole che si spostava fino a che, dopo mezzogiorno, quando il sole non colpiva più le finestre del mio appartamento, ho smesso forzatamente.
Ho posato la sfera in salotto, poi ho preparato la mia borsa per andare a nuotare in piscina.
Facendo il cantante, ho bisogno di mantenermi allenato, specialmente per il fiato. Oltre ad andare a correre ogni tanto, vado in piscina a nuotare in immersione per allenare la respirazione “diaframmatica”, specialmente prima di qualche serata.
Durante tutto il viaggio da casa mia alla piscina mi sono sentito osservato e agitato. Continuavo a guardare dallo specchietto retrovisore perché avevo l’impressione di essere pedinato da qualcuno.
Mi erano venuti in mente gli uomini della sera prima, quelli nella macchina grigia.
Solo che di macchine grigie era piena la strada.
Nella mia testa si contrastavano una ridda di pensieri inquietanti.
Pensavo che, se mi avessero visto raccogliere la cosa e mi stessero pedinando, difficilmente lo avrebbero fatto con la stessa auto della sera precedente. Soprattutto per non farsi riconoscere. Inoltre, l’auto, avendo ripetutamente battuto con l’altra, avrebbe dovuto essere tutta ammaccata. Poi, con le indagini in corso, quella macchina l’avrebbero sicuramente fatta sparire.
Per tutto il tragitto ho continuato a guardare a destra e a sinistra. Vedevo quelle facce grigie che mi fissavano. Potevano essere dovunque. Potevano appartenere a chiunque, visto che non conoscevo i loro volti.
Ho deciso di cambiare strada più di una volta. Vedevo una vettura dietro di me ad ogni svolta. Poi, mi rassicuravo e riprendevo il mio percorso.
Normalmente, ci vogliono dieci minuti da casa mia alla piscina.
Quel giorno ce ne ho messi venticinque per depistare i presunti inseguitori.
Il rumore del portabagagli dalla mia auto, da dove avevo prelevato la borsa con gli effetti personali, mi ha richiamato nella mente gli spari della sera prima.
Proprio allora, un brivido ghiacciato si è infiltrato in tutto il mio corpo.
Davanti a me, due persone parlavano tra di loro fissandomi alternativamente. Uno addirittura lo faceva con la coda dell’occhio, come se tentasse di non farsi vedere.
Ho cercato di dominarmi e di non far trapelare il mio turbamento.
L’allenamento è iniziato in uno stato di mia grande agitazione mentale.
Chi erano quei due?
Volevano ispezionare l’auto?
Avevo chiuso le portiere della macchina?
Dove sono le chiavi della macchina?
Sono nell’armadietto?
Avevo chiuso il lucchetto dell’armadietto?
Qualcuno avrebbe potuto derubarmi delle cose dell’armadietto?
E se quei due di fronte all’auto si fossero assicurati della mia entrata in acqua per recarsi a casa mia indisturbati e rubare la sfera?
Dopo meno di dieci minuti sono schizzato via dalla piscina. Mi sono asciugato senza nemmeno farmi la doccia e mi sono fiondato in auto.
Questa volta ho impiegato solo cinque minuti per arrivare a casa.
Sono corso nell’appartamento senza nemmeno pensare all’ascensore.
Ho saltato le tre rampe di scale.
Giunto davanti alla porta, il mio cuore pulsava a mille e faticavo a respirare.
Ho immaginato di trovare in casa, ad aspettarmi, i due figuri.
Ho preso in mano il telefono e ho chiamato Luca.
Appena mi ha risposto gli ho detto di correre a casa mia e che era urgente.
Ma non l’ho aspettato.
Ho infilato la chiave nella toppa e l’ho girata.
Non vi erano segni di forzatura. Ciò mi rassicurava. Ho pensato, però, che gente simile avrebbe potuto aprire senza che io me ne potessi accorgere.
Ho aperto la porta con cautela.
Nessun odore estraneo veniva dall’appartamento e nessun rumore se non quello di una mosca che ronzava da qualche parte sul soffitto.
Sono corso in salotto e ho trovato la sfera ad attendermi.
L’ho presa in mano e l’ho coccolata, come se fosse un cucciolo di labrador nero e giocherellone.
Quel mio modo di fare nei suoi confronti avrebbe dovuto sembrarmi strano, invece, mi appariva la cosa più normale da fare.
Mi sono steso sul divano con la sfera posta sulle mie gambe e i piedi sul tavolino.
Tutto ad un tratto mi sentivo nuovamente rilassato, in pace.
Non ricordo quanto tempo fosse passato, dal momento che ho sentito bussare con forza alla porta.
Non ho risposto subito.
Solo quando il cellulare ha iniziato a vibrarmi in tasca per l’arrivo un messaggio, ho capito che era Luca.
Ho posato nuovamente la sfera sul tavolino, coprendola con una maglietta a maniche corte che avevo lasciato sul divano, e sono andato ad aprire.
Il mio amico appariva preoccupato.
Dopo che l’ho fatto entrare si è rilassato e mi son beccato un significativo “vaffa” per lo spavento che gli avevo causato.
Ha preteso spiegazioni e io gli ho raccontando tutto quello che era successo dalla sera dell’incidente.
«Ho visto la tua auto sotto casa! L’ho controllata perché non sapevo se tu fossi lì. Aveva le portiere aperte» mia ha fatto notare Luca.
«Non ha importanza …» gli ho risposto evasivo.
Alla fine del mio racconto è subentrato un silenzio imbarazzante.
«La situazione è grave!» ha esclamato Luca dopo qualche minuto «Devi consegnare la “cosa” alla polizia.»
«No, è mia! Non me la porterà via nessuno!» ho dichiarato con impeto.
Sul volto di Luca è apparsa un’espressione strana.
«Fammela vedere!» mi ha chiesto risoluto.
Uno strano senso di possesso geloso si era formato dentro di me. Ho dovuto combattere molto per riuscire ad alzare la maglietta e mostrargli la “cosa”.
«Ecco la mia sfera!» gli ho detto.
Quando l’ha vista gli occhi del mio amico si sono improvvisamente accesi di una strana luce.
Subito, con uno scatto l’ha toccata.
Io mi sono arrabbiato. L’ho presa in mano per evitargli di toccarla nuovamente.
«Ti ho detto che puoi guardarla, non toccarla! Non me la poterai via!» ho esclamato ripetutamente.
Le parole uscivano dalla mia bocca con vemenza senza permettermi di prendere fiato.
Lui mi guardava fisso negli occhi. Percepivo il suo forte desiderio di avere quell’oggetto allo stesso mio modo.
«Sam, quella non è una sfera! Guardala bene! Quella è la scarpetta da ballo di mia mamma, che ho perso!» ha dichiarato candidamente, lasciandomi di stucco.
«Che cavolo stai dicendo? Hai sbattuto la testa nel salire? Non vedi che questa è una sfera nera? Anzi, la mia sfera nera!» ho replicato urlando.
«Dammela immediatamente!» ha strillato, dì rimando, Luca.
Dalle parole siamo passati ai fatti.
Luca si è alzato in piedi e si è attaccato alla sfera con due mani.
Mi sono alzato anche io e ho dato un forte strattone per strappargliela dalle mani.
Nella lotta quella cosa è sfuggita ad entrambi ed è caduta rimbalzando più volte.
Allora, ci siamo fermati. Un silenzio di molti minuti è subentrato tra di noi ritornati seduti sul divano.
Ho ripensato alla mamma di Luca.
Era stata una brava e bella ballerina classica. La sua carriera, però, era stata interrotta da un grave incidente d’auto. Lei aveva gettato nelle immondizie tutte le sue cose che erano servite per la danza, tranne le sue scarpette da ballo. Quelle erano l’unico ricordo della sua mamma, custodito da Luca, dopo la sua morte prematura. Una delle due scarpette, poi, fu smarrita durante un trasloco con grande disappunto e sofferenza per il suo unico figlio.
«Perché nel cadere non ha fatto alcun rumore?» ha esclamato improvvisamente il mio avversario nella contesa della sfera.
«La sfera non emette alcun suono, in nessun caso!» ho tentato di spiegargli.
Luca, improvvisamente, ha preso il cellulare e ha chiamato Marco:
«Vieni subito a casa di Sam, dobbiamo farti vedere una cosa!» ha affermato.
«Ma sei stupido? Come di permetti di invitare Marco a casa mia? Senza nemmeno chiedermelo!» ho urlato risentito.
Lui non si è scomposto.
«Dobbiamo far vedere quella cosa ad una terza persona!» ha dichiarato «Dobbiamo capire come mai tu vedi una sfera e io la scarpetta smarrita di mia madre!» ha spiegato.
Io ho, subito, pensato che volessero mettersi d’accordo per rubarmi la sfera. Poi, ho realizzato che essi erano i miei migliori amici e il timore è sparito.
Ho preso lo zaino e vi ho riposto l’oggetto, tenendo la sacca su una mia spalla.
Aspettando Marco abbiamo cercato un canale locale della TV sperando che trattasse l’accaduto della sera precedente.
Un notiziario riportava che la polizia aveva preso due malviventi che avevano quasi ucciso un ragazzo ricoverato d’urgenza all’ospedale. Asseriva che si era trattato di un regolamento di conti per il possesso di un oggetto non rinvenuto sul luogo dell’incidente e che entrambi avevano descritto in modo differente. Comunque, le analisi avevano appurato che i soggetti erano positivi ad una nuova droga sconosciuta.
Quando è suonato il campanello, Luca si è alzato in piedi ed è andato alla porta. Io, invece, ho stretto a me la borsa.
«Quindi, ragazzi cosa dovete farmi vedere? Speravo ci fosse della gnocca e che mi aveste chiamato per questo!» Esordisce Marco appena entrato scoppiando a ridere.
Io e Luca non abbiamo risposto alla sua risata.
Marco si è un po’ rattristato ma ha continuato a proferire frasi simili.
Luca mi ha invitato ad aprire lo zaino.
Io ho mostrato resistenza ma, alla fine, ho ceduto.
«Adesso, dacci spiegazioni su questa cosa» aveva chiesto Luca a Marco che, mentre io aprivo la borsa, stava continuando a parlare.
Appena la sfera è stata spogliata completamente, Marco si è interrotto.
Sul suo viso si potevano quasi vedere le vene sottopelle da quanto era sbiancato. È rimasto muto qualche istante a fissare la sfera. Ci guardava e abbassava lo sguardo a tratti. Noi eravamo in attesa di una risposta.
«Voi, … da quanto lo sapete? Come lo avete scoperto?» ha balbettato guardandoci in modo fugace e, subito, riabbassando lo sguardo.
Io e Luca ci siamo guardati non capendo di cosa stesse parlando.
«La vuoi vero? La desideri anche tu? … La vorresti toccare!… Tanto lo so che quando la vedi è una cosa che ti entra dentro! … ma io non te la do!» l’ho apostrofato io.
«Sei uno stronzo!» ha esclamato Marco «Smettila! Amici o no non son cose facili da dire!» ha aggiunto.
«Allora? … Niente da dirci? … Cosa vedi?» ha chiesto Luca.
«Cosa vuoi che veda? Infami, avete comprato un vibratore per fare ‘sta sceneggiata! … Potevate anche dirmelo in modo diverso che avete scoperto che sono gay!»
Questa volta a sbiancare siamo stati noi.
Io ho trattenuto a stento una risata che voleva esplodere.
Luca pure, ma è stato più composto di me.
Allora in quel silenzio Marco ha proseguito:
«Chi ve lo ha detto? Qualche chiacchierone del locale per scambisti? Ditemi chi è che lo faccio espellere! Facciamo una promessa di silenzio entrando in quei luoghi! Oh, ragazzi, non ditelo a nessuno … che mi piace il… il…!»
«Quindi, tu nello zaino vedi un vibratore?» gli ha chiesto Luca.
«Sì, e anche piuttosto grosso!» ha risposto Marco.
A quel punto non mi sono più trattenuto scoppiando a ridere come uno scemo, seguito a ruota da Luca.
Poi ho chiesto spiegazioni a Marco
«Come gay? Hai la morosa da tempo!» gli ho fatto rilevare.
«Sì, ma sai da quanto non ci vado a letto!» mi ha risposto lui. «Seconde te perché Giada mi ha tradito e io sono riuscito a perdonarla? Non lo facevamo da cinque mesi e lei non ce l’ha più fatta! … »
«Sì, ma le prostitute? Le paghi per far due chiacchiere?» l’ho incalzato io.
«No, …mi faccio inserire delle cose! …Dai, che hai capito! … Le pago per farmi penetrare con dita o oggetti! …»
Luca da dietro il divano rideva come se volesse morire soffocato.
«Il grande sborone, lo sciupa femmine, l’uomo a cui gettano le mutandine quando passa!» ripeteva quando riusciva a calmare il gran ridere.
Io, vedendo il volto triste di Marco, gli ho detto:
«Ma chi se ne frega! Stai sereno che non cambia nulla! Basta che non tocchi il mio culo! Ce la stiamo ridendo perché la cosa è un po’ comica, ma, almeno per me, resti Marco.!» Anche Luca lo ha rassicurato senza, tuttavia, smettere di ridere.
Poi, anche l’ilarità di Luca si è calmata.
Ci siamo seduti sul divano tutti e tre.
Io, prima di recarmi in cucina per preparare il caffè, ho serrato la porta e ho tolto chiavi. Quando sono tornato Luca aveva già raccontato tutto a Marco.
Abbiamo appurato che tutti vedevamo qualcosa di diverso nella sfera.
Abbiamo, perciò, ipotizzato che chiunque guardasse quell’oggetto avrebbe visto vede quello che più desiderava.
Questa spiegazione, però, non combaciava con quello che vedevo io, ovvero una sfera nera con riflessi violacei.
Abbiamo passato il pomeriggio a discutere di questa cosa.
Poi, è arrivata per me l’ora di andare a cantare. Ho esortato gli altri ad andare via.
Luca, prima di uscire mi ha chiesto se volessi che tenesse lui la cosa. Io ho risposto che la sfera restava con me. Alle sue insistenze l’ho cacciato fuori di casa.
Al “Jungle” la serata si è svolta come al solito in modo soddisfacente e con molta affluenza.
Ogni tanto qualcuno apriva la discussione sull’incidente e sulla sparatoria. E, ogni volta che ciò accadeva, io mettevo mano allo zaino, che mi ero portato appresso, per assicurarmi che la sfera fosse ancora lì.
A fine serata, mentre aspettavo il titolare per la consegna della busta con la mia parte dell’incasso, ho potuto vedere un servizio speciale della TV dedicato all’incidente occorso.
Il servizio riportava che, in relazione a quei fatti, era stato arrestato un carabiniere, accusato di essersi impossessato di una partita di droga che non era stata ancora trovata. Dalle analisi era risultato che avesse fatto uso, come gli altri soggetti coinvolti nella sparatoria della sostanza misteriosa.
Gli effetti della droga, continuava il servizio, comportavano allucinazioni e paranoia, anche se gli effetti sembravano sparire in poche ore e gli utilizzatori dimenticavano completamente ogni avvenimento.
L’autore del servizio riportava alcuni pareri di esperti secondo i quali gli affetti della sostanza si concretizzavano oltre con il contatto diretto con la droga, anche con la trasmissione fisica tra gli utilizzatori.
Il mio cervello ha cominciato a lavorare freneticamente.
Dunque, la sfera in mio possesso era un potente allucinogeno e io, Luca e Marco eravamo sotto l’effetto degli inganni da essa procurati per esserne stati a diretto contatto.
Il povero carabiniere, invece, era stato contagiato dalla mia stretta di mano.
Ma quale era la vera forma della sfera, dal momento che ognuno la vedeva a modo suo?
Ho chiamato Vera, la barista del “Jungle” e le ho detto che avevo necessità di mostrarle una cosa.
Con Vera ho avuto una relazione che ho interrotto poiché stava diventando troppo seria.
Le ho mostrato la sfera chiedendole cosa vedesse.
I suoi occhi sono diventati lucidi
«Vedo una foto di noi due insieme abbracciati! Io vestita di bianco, con un abito lungo, e tu in smoking, di fronte all’altare» ha esclamato mentre una lacrima le scendeva dall’occhio sinistro. «Ti sei divertito con Photoshop? Cosa dovrebbe essere questa? Una proposta dopo che mi hai abbandonata? Sei proprio uno stronzo a uscirtene così dopo un mese che quasi nemmeno mi rivolgi la parola!» ha urlato, subito dopo, mentre se ne andava sconvolta.
LA COSA è un racconto di Cesare Amadei
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