LA LEGGENDA DEL CONDOR INNAMORATO di Carlo Bertolini (parte prima)
Genere: FORMAZIONE
CAPITOLO I
Lambito dal fumo dello spinello, che si diffondeva nell’aria come un velo di tulle, dondolavo sull’amaca, mentre le maracas dei grilli e i bonghi dei rospi riempivano di musica il cortile, dando un tocco ecologico alla mia vita… alla mia erratica esistenza intrisa di regale pigrizia e di maestoso ozio, che sono i valori inossidabile che sanciscono una sacrosanta verità: l’importanza dell’egoismo nell’epopea dell’umanità.
Erano le dieci di sera di domenica scorsa e dalla televisione del vicino arrivavano i commenti della quattordicesima giornata del campionato nazionale di calcio, lo spot di un miracoloso rimedio antinfiammatorio e la pubblicità di magici assorbenti femminili che promettevano assorbire ingenti quantità di liquido, oltre a portare, per le più giovani, molta fortuna in amore.
Erano le dieci e, senza preavviso, nel giardinetto dietro casa si sparse una folata puzzolente, che, suppongo con il senno di poi, sia stata inviata dal destino per annunciarmi l’arrivo di un desolato futuro.
Ma io, ignorando la divina premonizione, ho continuato a mantenere la missione che mi è stata affidata dall’universo, e fedele ai comandamenti e assecondando gli istinti primordiali, ho ribadito ciò che sono e che sempre sarò: un servo incondizionato del testosterone; un ambasciatore dell’orgasmo; un veliero che getta l’ancora in porti pubici, tra riccioli cocciuti e pieghe umide.
Mi presento: sono Ramón Patiño; ho trentacinque anni, sono nato in Ecuador e faccio la guida turistica; un metro e settanta senza scarpe, fronte ampia, che non dev’essere confusa con calvizia precoce, capelli neri e occhi castani. Bocca quasi perfetta e naso piccolo.
Scapolo e senza vincoli sentimentali.
Personalmente mi considero un uomo con buona predisposizione al lavoro, anche se, lo confesso, sfacchinare non è mai stata una mia predilezione, perché l’idea di produrre e produrre per il mero piacere di produrre non mi ha mai stuzzicato. E nemmeno simpatizzo con uno come Hitler, che, all’ingresso dei campi di concentramento, faceva scrivere che il lavoro rende liberi.
Ritengo ingiusto non aver trovato un impiego che mi calzi… un lavoro stabile che metta fine alle tribolazioni economiche. Perché non ho potuto trovare un’occupazione consona alle mie capacità? Sarà forse per andare in giro socializzando gli spasmi pelvici? O per voler democratizzare il piacere sessuale? O per ritenere che l’orgasmo sia un diritto umano inalienabile che dovrebbe essere contemplato nelle costituzioni di tutti i paesi del mondo?
L’elargitore di estasi non è amante per hobby o per caso; semplicemente onora il prossimo, la successiva, e così via, ben sapendo che l‘homo eroticus condivide l’intimità con ogni donna che respira.
Nonostante la mia vocazione per la vita alla giornata, non ho mai dovuto dormire sui marciapiedi dei viali o sotto gli alberi dei parchi e solo in un paio di occasioni, per qualche ora, sono finito dietro le sbarre, dove ho avuto l’opportunità di conoscere un delinquente di lusso.
Non m’incomoda ammettere le complicazioni esistenziali che mi hanno accompagnato nello scorso degli anni; a detta degli esperti rispondono a una sequenza inedita del mio genoma, che mi colloca ai margini del prevedibile processo evolutivo della specie umana. Pertanto, se si dovessero presentare imperfezioni personali, anche se mai confermate, sarebbero da considerare ereditarie e pertanto da addebitare al proprietario del vile seme e alla padrona del codardo ovulo che, irresponsabilmente, si sono uniti per procreare il sottoscritto, da allora vittima di grovigli professionali, insolvenze economiche e aborti emozionali.
Colgo l’occasione per precisare che io non ho scelto né mia madre né mio padre e sono certo che, se avessi potuto farlo, non avrei di certo scelto una simile coppia da paccottiglia.
Ricordo che quando avevo otto anni mi sbraitavano: – Sta zitto bavoso: se abbiamo dovuto vendere il podere di tuo nonno è perché trangugi come un lavello! – oppure – Vaffanculo bacucco! Se invece di dedicarti solo a cagare guadagnassi un po’ di soldi, non avremmo dovuto disfarci dell’appartamento in città! Miserabile! – mi hanno urlato il giorno che ho rotto una tazza – Sei un vertebrato con testa d’asino e mani di merda; per comprare i piatti che rompi, finiremo per spendere tutti i soldi che ci ha lasciato il tuo defunto nonno.
È chiaro che io, personalmente, lamento essere il frutto di una così esecrabile copulazione, e sono franco, cioè sono Ramón, ma sono franco, e in nessun momento mi vergogno dei fallimenti; del resto, non aver potuto fare qualcosa di buono o tutte quelle altre cose del genere, forma parte della tradizione familiare.
Gli specialisti chiamati a scoprire la mia vocazione professionale si sono dimostrati dei veri inetti; ciò non significa che io voglia accusare il sistema educativo ecuadoriano, anzi, tutto il contrario, ma nemmeno scusare i loro errori. Prima hanno detto che sarei stato un ottimo avvocato, per cui il mio vecchio, a malincuore come al solito, mi ha mandato a studiare in Messico, dove, senza infamia ne lode, ho frequentato tre anni di giurisprudenza. Poi ho cambiato e, sempre su consiglio dei supposti “esperti vocazionali”, mi sono iscritto a sociologia, per abbandonare la facoltà dopo un paio di anni, al rendermi conto che le scemenze che pretendevano inculcarmi erano più noiose che ballare con la nonna. Allora mi sono iscritto alla facoltà di agronomia, ma, al secondo anno, ho inteso che fare l’agricoltore e passare la giornata nei campi, sotto un sole cocente, era una completa perdita di tempo; oltreché nocivo per la salute.
Un giorno i genitori mi hanno informato che la mammella s’era prosciugata e che i soldi erano finiti. E così, compiuti i trent’anni, dovetti tornare a Quito, dove mi sono iscritto a un corso per operatori turistici e, pur essendo convinto che studiare sia un passatempo inutile e che la vera conoscenza si acquisisce sul campo, ho ottenuto il diploma di guida.
Poi, uno spettacolare incidente d’auto è costato la vita ai miei vecchi, che hanno lasciato questo mondo dopo aver speso fino all’ultimo centesimo dell’eredità… sono sicuro che se gli fosse rimasto qualcosa, quei due marpioni avrebbero trovato il modo di portarselo all’altro mondo.
E così, orfano e senza chiedere favori a nessuno, sono andato avanti da solo, affermandomi nel mondo del turismo. Ora, che finalmente anch’io stavo mettendo un piede sul treno dei figli di puttana che se la spassano bevendo champagne francese, ora che anch’io cominciavo a godere di una certa sicurezza alimentare, è giunta la dannata pestilenza.
-Le disgrazie non vengono mai da sole… – ammoniva padre Gaetano, il prete italiano predicando dal pulpito della chiesa di Cumbayá -, ed è nostro dovere stare attenti ai segni, perché Dio è solito usare forme insolite per rivelarci il suo disegno divino.
Io non vado mai in chiesa, anzi l’idea di partecipare a quei riti raccapriccianti non mi passa neanche per l’anticamera del cervello, perché a me non piace l’idea di adorare uno strumento di tortura e morte come la croce, o venerare le spine in testa e il sangue che sgorga per liberarci da immaginari peccati intrinsechi. A me non piacciono i dogmi della fede e, semplicemente, accompagnavo in chiesa la defunta nonna Carolina che, per portarla ad ascoltare il perdigiorno importato, mi dava qualcosa: a volte trenta dollari, altre volte cinquanta; persino cento quando mi diceva di prendere io stesso i soldi dalla sua borsetta. Mia nonna era una fuoriserie e mi amava; lei è stata l’unica donna che mi abbia veramente amato.
-Oh, mia bello-, mi rimproverava con una smorfia sufficiente, -smettila di prendertela con il povero prete: non è colpa sua se sei diventato ateo!
Nata sulla montagna attorno a Riobamba, la nonna Carolina era stata premiata dalla natura, che, senza badare a spese, l’aveva elargita di bellezza e magnetismo. La nonna Carolina si muoveva con la grazia di un cigno. Il suo viso irradiava poesia. L’irruenza indigena e l’esuberanza delle sue curve la dotavano d’infinito fascino.
-Quando ti guardo– mi diceva da piccino, -provo un sentimento di compassione che ingigantisce il mio amore per te! –ripeteva abbracciandomi.
-Ti voglio tanto tanto bene… –confessava riempiendomi di bacini– e temo che nessuno al mondo saprà capirti.
-Oh, mio tonticcino… -così mi ha chiamato sin dal primo giorno, -in una cosa ci assomigliamo: siamo l’esatto opposto e, siccome gli opposti si complementano, ti amo mio tonticcino. Cosa ti succederà dopo che me ne sarò andata all’altro mondo?-
Alla nonna piaceva stare con me e quando andavamo di passeggio nel parco o nell’”Orto Botanico”, non smetteva di dirmi che lei, a differenza delle altre creature che vengono al mondo portate dalla cicogna, lei era stata portata da un condor; un maestoso rapace che ogni giorno volava nel cielo del suo villaggio natale.
Almeno una decina di volte mi ha raccontato che da giovane, mentre camminava per la via Cile della capitale, le parve di udire che la chiamavano dalla finestra di un palazzo e alzando lo sguardo, vide il condor della sua brughiera che planava alto nel cielo, e lo vide perdere una piuma, che prese a cadere portata dal vento, girando e svolazzando verso la piazza Marín.
Senza staccarle gli occhi di dosso, la nonna scese per la ripida strada ed evitando i carretti e le macchine che intasavano la stretta via, continuava a fissare la piuma che, tra piroette e movimenti improvvisi, perdeva quota, e sorvolando i passanti che camminavano sul marciapiede, finì per posarsi sull’elegante giacca di un uomo.
Con l’entusiasmo dei suoi 18 anni, la nonna gli si avvicinò e chiedendo scusa, gli indicò la piuma caduta dal cielo.
L’uomo, che alla fine sarebbe diventato mio nonno, la guardò incantato, e in una frazione di secondo, s’infatuò perdutamente di lei, che era più bella della vita stessa. Entrambi sentirono che la gloria era entrata nelle loro vite, facendo sbocciare l’amore: l’amore che è il viale della vita; il ponte verso l’immortalità, la pietra angolare del cosmo. L’amore semplice. L’amore grande. L’amore a prima vista. L’amore per sempre.
Istintivamente si presero per mano e se ne andarono assieme, e assieme rimasero fino a quando un infarto stroncò la vita di mio nonno, all’età di cinquantasei anni.
Mentre l’accompagnavo in chiesa, la nonna Carolina mi diceva che quel condor faceva parte della nostra famiglia, e che un giorno sarebbe entrato anche nella mia vita per darmi la spinta di cui avevo tanto bisogno.
Ogni domenica, dopo averla fatta sedere nella prima fila della chiesa, me ne andavo fuori, dove pure arrivava la voce del chiacchierone, che dal pulpito. e abusando degli altoparlanti, durante la predica ripeteva che le disgrazie non vengono mai sole.
In questo, almeno in questo, il ciarlatano cattolico, apostolico e romano aveva ragione: le disgrazie non vengono mai sole… la prima tegola in testa la devo a Maria; la mia fidanzata.
Io l’adoravo e sempre cercavo di accontentarla, ma lei mi incolpava di tutto: era colpa mia se ingrassava, se si ubriacava o se non riusciva a dormire la mattina. Secondo lei tutti avrebbero dovuto saltare giù dal letto all’alba, perché se lei non riusciva a dormire, nessuno aveva il diritto di farlo.
Quando un giorno mi ha detto che Dio aiuta chi si alza presto, io le ho risposto che era meglio lasciare l’aiuto di Dio ad altri, che sicuramente ne avevano più di me. Senza contare che, se uno si alza presto… trova tutto chiuso.
Sin dall’inizio Maria non ha fatto altro che reclamare. Perché ce l’aveva tanto con me? Per permettermi un bicchierino di tanto in tanto? Che male può fare un bicchierino? Se davvero facesse male, io non potrei bere una bottiglia di rum senza battere ciglio: sì o no? Se l’alcool fosse davvero dannoso, io non potrei berne litri e poi convincere i clienti che l’odore dell’alito era per un collutorio portato dalla Kamchatka… o che il mio ritardo era dovuto a un incidente sofferto dalla zia Chiara.
–Ricordi la zia Chiara? Ricordi la foto di quella vecchietta, sulla sedia a rotelle, che sembrava Cristoforo Colombo?-
Ebbene, la zia stava andando a pagare le tasse e la sua sedia è rotolata giù per le scale del municipio andando a sbattere contro la finestra della biblioteca, che è finita in frantumi e, solo per fortuna, i vetri non hanno fatto male agli studenti che stavano preparando una ricerca sulla pianta del piede e sulla palma della mano.
Io posso inventarmi qualsiasi storia, ho scuse per tutto e non c’è bevanda che alteri il mio impeccabile modo di guidare la macchina. Anche se bevo come una spugna, io non supero mai il livello alcolico tre che, per esperienza, garantisce il completo dominio del mezzo.
Al risveglio, quando mi prendo due aspirine per gestire i postumi della sbronza, guardo se c’è la mia Land Rover e, vedendola parcheggiata, capisco che di notte non ci sono stati contrattempi e che il pilota automatico ha funzionato impeccabilmente!
Se l’alcol fosse davvero dannoso, io non avrei potuto portare in giro centinaia di turisti senza mai soffrire gravi incidenti. In anni di attività ho patito piccoli sinistri… una volta mi sono rotto una gamba e un’altra mi sono incrinato due costole, ma per i miei turisti stranieri niente di preoccupante… qualche punto di sutura sulla fronte, magari una lussazione, ma niente che desti eccessivo allarme; anzi, visto in prospettiva, sono state esperienze di grande utilità.
In Ecuador si dice che… “Dio sa perché fa le cose” e, di fatto, le disavventure sono state una scuola per persone cresciute nella bambagia.
Una volta che avevo intrapreso un tour senza portarmi appresso le bottiglie di rum, una di quelle poche volte che ero più sobrio di un bambino, mi sono perso nella giungla amazzonica con tre turisti, con cui dovemmo passare un’interminabile notte insonne, tra zanzare assetate, che ci succhiarono anche l’anima, e disgustosi pipistrelli, che mai smisero di svolazzarci attorno.
Quella volta, oltre a essere stato tristemente lucido e alle prese con le ripugnanti creature, ho dovuto pure far fronte alle cause legali interposte dai turisti nei tribunali di tre diversi continenti.
Ma io non ho fatto una piega, sapendo che presto o tardi sarebbe arrivata la prescrizione del supposto, e a tutt’oggi mai accertato, reato.
Faccio notare che, se fossi stato ubriaco, tutti avrebbero dato la colpa all’alcol, ma, siccome ero sobrio, nessuno mi ha detto:
-Se tu fossi stato ubriaco non ti saresti perso nella giungla! Nessuno me l’ha detto e nemmeno l’ha pensato.-
-Io bevo poco, perché quando bevo divento un’altra persona e.… quest’altra persona sì che beve molto!– confessa Ramón Patiño.
Ai tempi dell’università, un professore ebbe l’audacia di chiedermi se credessi che l’alcol avrebbe risolto i miei problemi e io, con la franchezza che mi caratterizza, gli ho risposte che mai e poi mai avrei potuto pensare a una simile coglionata, ma che ero altrettanto sicuro che neppure l’acqua o il latte avrebbero potuto risolverli.
Nel bar, vicino alla facoltà, dove passavo quasi tutte le sere, una ragazza che mi voleva bene, mi ha chiesto, mentre mi sbaciucchiava per benino, se non mi stancavo di bere e io, che non so mentire, le ho risposto che non mi stancavo, perché… bevevo seduto.
Pochi mesi dopo essere tornato in Ecuador, mia madre mi ha chiesto di andare a vivere altrove e l’uomo che diceva essere mio padre, ha applaudito come se l’Ecuador avesse vinto i mondiali di calcio; ed è uscito per strada con padelle, tamburellandole con l’entusiasmo di un talebano dopo l’11 settembre.
Inevitabilmente dovetti trasferirmi altrove.
Sono andato a vivere nel podere di nonna Carolina, con gli zii, i quali non smettevano di rimproverarmi per sovrane bagatelle che solamente denunciavano la bassezza dei loro istinti.
–Smettila di svuotare il frigorifero senza mai portare un cavolo!–
Personalmente non ho mai capito perché avrei dovuto portare cavoli se a nessuno piacciono i cavoli.
-Ehi stronzo–, mi insultavano –finiscila di far sparire le bottiglie di vino dalla cantina se non vuoi che ti rompa la testa!- e anche –Pezzo di merda: sono stufo che i tuoi amici ubriachi facciano la pipì nei vasi dei fiori!– oppure –Amorfo pelandrone; non portar via il giornale!– ma anche -Ladro infingardo: dammi la pianta d’erba che hai sradicato dalla serra!-
Alla fine, sono stato scacciato anche dal podere della nonna; gli zii s’infuriarono e, porca miseria, ho preferito sloggiare ed evitare che precipiti la situazione.
Io non ho mai avuto una casa mia, e penso che non l’avrò mai.
Io sono come i palestinesi che non gli lasciano avere una dimora propria; sono come i filistei e sempre me la dovrò vedere con un padrone di casa; dei ficcanaso che credono di avere il diritto di entrare e uscire dalla vita degli inquilini senza nemmeno chiedere permesso o suonare il campanello; esattamente come ha fatto Maria, che scocciava con un’infinità di lamentele.
Per lei tutto quello che facevo andava disapprovato. Mandarsi una sniffata di coca era porcheria… tornare ubriaco alle quattro del mattino era porcheria… scopare la donna di servizio era una porcheria; per lei tutto era porcheria! Come si può essere cosi? Non è un po’come sputare nel piatto dove mangia buona parte dell’umanità? La permalosa non ha ancora capito che denigrare non fa bene; peggio ancora se si pretende screditare quello che, nel mondo, viene classificato come intrattenimento giovanile.
Personalmente, io non ho mai avuto problemi con la droga e non è vero che quando mi metto una sostanza illegale divento aggressivo e ottuso. Invece, per Maria, tutto è una merda e tutto è uno spreco di denaro.
Io sono diverso e mi astengo dal mescolare le seghe morali con le analisi serie, poiché è risaputo che gli stimolanti aiutano gli uomini d’affari, gli attori e i politici ad accumulare denaro, raggiungere la fama aziendale o l’immortalità artistica. Certo: per loro che sono persone importanti, le sostanze narcotiche servono per mantenere la lucidità per scalare l’olimpo del successo, mentre che, per i comuni mortali come me, quelle cose servono solamente per ridursi a una merda.
Non nascondo che a volte il business del turismo mi è risultato controproducente, ma io, prima di demonizzare un fallimento o lasciarmi prendere dallo sconforto, preferisco rallegrarmi con le parole di quel grande poeta che ha preteso si scrivesse sulla sua lapide: “Essere sudamericano è stato un orgoglio, essere ecuadoriano un lusso.”
Io sono un ecuadoriano povero; Maria è una povera ecuadoriana. Io sono orgoglio equinoziale; lei è petulanza a latitudine zero. Io sono discepolo di Medardo Ángel Silva; lei neanche merita di essere nata nella patria di Eloy Alfaro. Io desidero la bella vita; lei è una canaglia che mi ha spennato, lasciandomi nudo come pollo nel frigorifero.
Perché mi succedono queste cose? Io ho sempre ripetuto che del domani non v’è certezza e che nessuno deve contare su di me per progetti a lungo termine, ma lei, invece, voleva che le promettesse mari e monti. Si può garantire amore vita natural durante? Diciamoci la verità: nessun essere umano può pretendere di essere amato dal proprio partner per tutta la vita, perché non si tratta di prestare l’auto o condividere il taglia erba; l’amore si prova o non si prova! E le statistiche lo dicono chiaramente: il 60% di coloro che si sposano e si giurano amore eterno, si rivelano dei bugiardini che, dopo qualche anno, si divorziano ingaggiando liti interminabili.
Nel restante 40% dei matrimoni, invece, i coniugi arrivano a uccidersi: con coltelli da cucina, martelli, cavi elettrici, buste di plastica o veleno per topi.
CAPITOLO II
Il lunedì è un giorno di merda che dovrebbe essere tolto dal calendario.
Stavo tornando a casa quando mi sono imbattuto in un pollastro che vagava sul ciglio della strada; sull’asfalto torrido e tra veicoli in movimento.
C’è chi si sbarazza del cane liberandolo in autostrada e c’è chi lascia il vecchio gatto sulla montagna. In India le mucche deambulano nei parchi e a New York i coccodrilli, quando sono grandicelli e già non possono deambulare sulla moquette dell’appartamento al ventottesimo piano, li gettano nelle fogne. Ogni paese ha i suoi difetti e qui, in Ecuador, a quanto pare, si abbandonano i galletti per strada.
Sensibile al dramma, ho salvato il piumato destinato a essere stirato dalle gomme dei camion, e ora, mentre aspettavo che si cuocesse con l’erba cipollina, la scorza di limone grattugiata e i rametti di rosmarino, mi sono svuotato le tasche, contando la miserabile somma di otto dollari.
-Cosa ci faccio con otto dollari?-
Da quando il dollaro è diventato la valuta ufficiale in Ecuador, la musica è cambiata; se prima si ascoltavano brani strappalacrime e canzoni indigene, ora si ascolta reggaeton e pop urbano; se prima si mangiava tonno, polpetta di patate e cotolette di vitello, ora si mangia fast food, hamburger e pizza, e con otto dollari ti puoi direttamente pulire, perché la carta igienica non costa molto meno.
Il pollo, a quanto pare allevato all’aria aperta e senza mangimi, è risultato squisito.
-Che lunedì superbo!– esulto bevendo il caffè –È un lunedì così speciale che sembra quasi venerdì– mi dico con inopportuno ottimismo.
Dopo aver messo in frigo i resti del bipede, passo in rassegna la mia agenda, che contiene i numeri di telefono più importanti del mondo. Che mi rubino i soldi e che mi rubino la speranza, ma che mi lascino il taccuino, che sempre mi ha permesso di trovare la persona giusta al momento giusto. Oggi cerco il numero di Consuelo, una studentessa così carina che, con la sua sola presenza, riuscirebbe a vendere sabbia agli arabi o gelati agli eschimesi.
Parlando con lei per telefono lascio che le parole fluiscano e, come un torrente che scende dalla montagna saltando di pietra in pietra, entrino nelle orecchie di Consuelo, vulnerabile alla mia verbosità carica di erotismo.
Concludo la telefonata accordando che ci saremo incontrati alle otto di sera nel parcheggio del “Bellavista”; il luogo dove le coppie vanno per portare a termine relazioni intime senza dover andare in albergo.
-Liscio come la seta!– esulto sdraiandomi sull’amaca del patio per bere un bicchiere di rum.
Mi sembra incredibile che esista un simile lunedì.
–Sia lodato il cielo e la terra– mi dico accendendo il mozzicone dello spinello.
Finalmente scende la notte e con la mia Land Rover del ’75 mi dirigo verso il luogo dell’appuntamento. La jeep, che brucia olio come una padella per fare patatine fritte, quasi non ha benzina.
-Non importa– mi dico partendo per l’appuntamento -nel serbatoio ce n’è a sufficienza… sulla via di ritorno, ormai con il “fratellino” in pace, metterò cinque dollari di benzina– riassumo arrivando al parcheggio.
Reclino gli schienali e aggiusto il materassino, stendo la coperta, metto un cd del gruppo “Maná” e aspetto. L’attesa si rivela breve; pochi minuti dopo arriva Consuelo, al volante della Mazda che le ha regalato il suo paparino e che, sul lato destro, ha già un vistoso sfregio.
La ragazza monta sulla mia jeep e io la accolgo con affetto; la guardo con estrema dolcezza, le accarezzo la guancia, appoggio le mie labbra sulle sue e in pochi minuti siamo sdraiati sul materassino. La coperta ha un buon profumo perché l’ho appena ritirata dalla lavanderia. Non so quanto sia costato il servizio perché, non avendo soldi per pagare, mi sembrava ipocrita chiedere quanto costasse. Un giorno pagherò. L’importante è che la coperta sia impeccabile: per Consuelo che è divina e per me che sono eccellente.
Nel parcheggio ci sono altre due auto con i finestrini appannati dal vapore corporeo che, attaccandosi ai vetri freddi, impedisce ai ficcanaso di effettuare… fecondazioni assistite.
Un’atmosfera libidinosa piena di romanticismo avvolge il mio Land Rover che si è trasformato in un giardino dell’Eden su ruote.
–I tuoi vestiti mi spaventano– le dico affettuosamente, –toglili che così mi passa la paura.
Come se i pedali dell’auto fossero calamite e i miei vestiti ferro; camicia, pantaloni, e tutto il resto, finiscono ammucchiati tra i pedali della frizione e dell’acceleratore.
Infine, entrambi galleggiamo in un oceano di vibrazioni, al ritmo di due cuori che battono all’unisono. Tocco il cielo con un dito, lo tocco con la mano; con entrambe le mani, che afferrano quel paio di doni che sporgono orgogliosi. Che felicità!
Le dita corrono sulla sua pelle fino a raggiungere il fior fiore della vita, che trovo bagnato da divina rugiada. Il corpo di Consuelo mi inebria.
Incapace di aspettare, imbocco il suo porto e, spingendo il veliero con diligenza, arrivo sino in fondo.
Rabbrividisco una e un’altra volta e sento le trombe degli arcangeli che squillano… in realtà le trombe, le cornette, gli archi e quant’altra melodia solamente esistirono nella mia mente, perché quello che veramente si udì fu il clacson dell’auto della mia amica Maria che, temo non tanto neanche per caso, passava di lì.
Completamente immerso nell’intimità di Consuelo, mi afferro alle meraviglie che le adornano il petto ed è come se un’infinita cascata di petali cadesse su di me. Sono sul punto di sperimentare la catarsi; pronto a morire e rinascere. Soccombendo sotto i baci di Consuelo, che squisitamente mi avvicinano alla Via Lattea.
A Maria non importò che fosse un’esperienza spirituale e, senza rispettare il significato della fusione intima che radicalizza l’amicizia eterosessuale; senza riflettere sul profondo valore antropologico che incarna la fusione tra il ramo, Ramón nel mio caso, e la donna che gode del ramo; senza importarle che fossimo sull’orlo della gloria, e complice la serratura rotta, Maria apre la portiera della Land Rover.
Quando la bestia gelosa mi vede sopra Consuelo, mi fissa con sguardo assassino, e non potendo controllare l’impeto dell’ira che l’assale, è più veloce del fulmine; raccatta i miei vestiti ammucchiati sui pedali e corre verso la sua macchina, scomparendo, con uno stridio furioso di pneumatici, che diffondono l’odore pungente di gomma bruciata.
Mentalmente mi rimprovero di essere stato fidanzato con una delinquente e sprofondo in un silenzio esistenziale, mentre il mio orgoglio maschile si è improvvisamente sgonfiato.
Consuelo non dice neanche una parola; si veste velocemente e senza nemmeno un bacio d’addio, a bordo del suo bolide s’infila tra la nebbia che avvolge la strada e svanisce nella notte.
Sono rimasto nudo in macchina. Maria s’è portata via i miei vestiti, i miei documenti e, quel che è peggio, anche gli otto dollari, che tenevo nella tasca dei pantaloni, e che sono imprescindibili per rimpinzare con due galloni di benzina il serbatoio insaziabile, ormai sul punto di rimanere asciutto.
Solamente è rimasta la giacca, appesa da giorni e bagnata dalla pioggia che ieri è infiltrata dal finestrino. Nonostante la manica destra sia molto umida, la indosso e, per proteggermi dal freddo che entra dalla fessura, mi copro anche con la coperta.
La strada è in discesa e vado a motore spento. Nelle curve mi risulta difficile frenare e devo premere il pedale con tale forza, che temo possano rompersi il sistema oleodinamico.
Finita la discesa mi tocca accendere il motore per affrontare la salita.
In cima al pendio, con grande sollievo, alzo il piede che tanto combustibile stava succhiando.
Ma la felicità dei poveri dura poco. Ratificando il famigerato proverbio, l’auto ha un sussulto e il motore tossisce un paio di volte. Poi riprende a ruggire. Cento metri, duecento, trecento, quattrocento, mezzo chilometro. Finché tutto tace: prima si spegne il motore e poi muoiono le mie speranze.
Approfittando l’inerzia, parcheggio sul lato della strada e rimango a pensare: disto quattro chilometri da casa; sono le dieci di sera e indosso i calzini, le scarpe e una giacca con la manica bagnata.
Scendo dalla Land Rover e usando la coperta come gonna mi dirigo verso la casa di un’amica di mia zia, che abita a una decina di isolati.
-Chiederò in prestito i soldi per andare a casa in taxi– mi dico camminando in un labirinto di vicoli pieni di cani che abbaiano mostrandomi le loro diaboliche zanne.
Infine scorgo, in fondo alla strada, la casa della signora; una donna che, durante le vacanze, ha perso il marito in Brasile… prima di rientrare a Quito, il marito era uscito a comprare le sigarette e la commessa, catechizzata da una di quelle situazioni che raramente si presentano nella vita, dopo avergli venduto da fumare, gli aveva anche offerto il cuore all’ecuadoriano che, fuori dal pianeta Terra, dalla clandestinità stratosferica aveva fatto sapere, ad amici e conoscenti, che non gli mancava nulla… men che meno la moglie alla quale, precautelandosi, mandava un ossequioso addio.
Nonostante siano passati trent’anni, la donna continua ad aspettare il ritorno del marito. Nel frattempo, si ubriaca con rum scadenti e ripete in continuazione che gli animali superiori, soprattutto quelli di sesso maschile, sono dei veri e propri stronzi.
Mi manca poco per arrivare a casa della signora.
Cammino sotto le luci dei lampioni e con le scarpe tengo a bada i quadrupedi di strada, che abbaiano e mi stanno dietro, digrignando i denti; scalcio a casaccio, ma i tre segugi mi stanno addosso.
Ormai alla portata del campanello la situazione precipita: uno dei cani infilza le fauci assassine nella mia coperta e non molla la presa. Mentre schiaccio incessantemente il campanello, tento dare scarpate ai cani che, ormai in due, tirano la coperta con implacabili mandibole.
Per paura che i miei attributi possano venir compromessi, lascio andare la gonna improvvisata e rimango nudo. Miracolosamente l’amica della zia apre la porta, mettendo in fuga i, falsamente definiti, migliori amici dell’uomo.
La mia salvatrice guarda con interesse le mie parti intime.
-È fame sessuale!- penso, coprendomi con le mani. Poi, mi giustifico usando un proverbio -Meglio uccello in mano che cento volando!
La donna non mostra entusiasmo, anzi, appare piuttosto delusa.
-Cosa diavolo si aspettava? – penso imbarazzato –Per caso voleva vedere?
Lei non nasconde la delusione e rende il concetto ancora più offensivo.
–Guarda tu com’è facile sbagliarsi…, – dice -ti ho sempre considerato un asino, ma ora vedo che di asino non hai niente. Tu…-, aggiunge con una risata un po’ sghemba -tu assomigli di più a un porcellino. Entra…- mi incita indicandomi la strada -entra prima di prenderti una polmonite.
Recupero la coperta abbandonata dai cani randagi ed entro in casa.
La signora fruga nell’armadio e mi porge un paio di pantaloni da donna; corti e con stampati dei vistosi fiori; sembrano i bermuda di un torero hippy.
Infine, mi passa un maglioncino di lana rosa.
-Sembro un transessuale!- esclamo scoraggiato.
Mentre le racconto le disavventure della serata, forse per vizio o forse per compassione, la signora mi serve da bere.
-La mia jeep senza benzina…– riassumo sconcertato -abbandonata per strada; senza documenti e, se Lei non mi presta qualche dollaro, non ho neanche i soldi per tornare a casa- dico terribilmente serio.
La donna mi regala una banconota da dieci dollari e mi invita a fermarmi a dormire.
Io reagisco nel modo più inappropriato e, nonostante ritenga che a una donna viva non si può negare un cazzo, dimostro mancanza di tatto e le rispondo che prima sarei tornato a casa a piedi.
La mia esteriorizzazione le risulta offensiva; mette faccia da triglia e mi racconta che, una notte, in una discoteca… ha incontrato un giovane muscoloso con cui ha passato una bella serata tra risa, cocktail e balli, finché il ragazzo l’ha portata a casa. Lei lo ha invitato a passare e dopo aver chiuso la porta, lo ha baciato appassionatamente.
–Il marcantonio s’è tolto la camicia–, ricorda la signora -e io ho esclamato: che… che braccia! Si è tolto la canottiera e io, portandomi la mano sopra la bocca, ho affermato: che… che pettorali! Ero commossa ed eccitata. Il titano ha sfilato i pantaloni e io, allibita dai suoi muscoli, ho sbottato: che… che cosce! Quando finalmente il fusto s’è tolto i boxer, ho semplicemente gridato: che… che è successo?-
La signora scoppia in una risata e mi sento alluso.
Sono a disagio e, francamente, demoralizzato. Lei nota il mio imbarazzo e m’invita a bere un altro bicchierino di rum. Poi ancora un altro. All’una di notte finiamo la prima bottiglia e alle tre la seconda. Infine, mi accomiato e, con dieci dollari in tasca, vado in cerca di un taxi.
Sono ubriaco e solco l’asfalto con le scarpe: è già martedì, ma per come vanno le cose, sembra ancora lunedì.
Raggiungo la strada principale e mi dirigo verso il piazzale dove sono parcheggiati i taxi.
Ho un passo incerto e traballo… una volta a destra, un’altra a sinistra, due passi avanti e uno indietro.
Arrivare ai taxi mi sta impiegando quattro volte più del dovuto.
Mentre fatico a mantenere la verticalità, vedo passare un’auto della polizia. Faccio finta di non averla visto e giro l’angolo: l’auto della polizia fa lo stesso. L’ufficiale abbassa il vetro del finestrino e mi dice che il carnevale è già finito.
-O c’è un altro motivo per indossare un abito così stravagante?– chiede fermando l’automezzo in mezzo alla strada –Mi faccia vedere i documenti!– ordina autoritariamente.
-Shono mortificato perché non possho eshaudire la shua richishta– ammetto incespicando. Mi rendo conto che mi risulta difficile pronunciare la esse. Come se fossi indisposto. È il freddo della notte che mi ha fatto male. -La mia fidanzhata sh’è portata i veshtiti, i documenti e i miei sholdi- dico aggrovigliando abbondantemente la lingua. -La mia ragazzha sh’è portata via tutto shignor piedipiatti.
Il poliziotto alla guida non dice niente e neanche mi degna di uno sguardo, mentre il collega scende dalla “pantera”.
-Venga con noi in Queshtura!– mi invita cordialmente –in queshtura ci shpiegherà tutto in shanta calma– ripete aiutandomi a salire in macchina.
-In queshtura lo shpiegherà a tutti, e non sholo a noi!-
-Anche voi avete bevuto?– al finire la domanda mi rendo conto che sto parlando a vanvera – Palle! Voi shiete queshturini…
-Ti avverto! – grida l’agente con voce disgustosamente militaresca -Alla prossima
idiozia che dici ti faccio ingoiare i denti!
La brusca minaccia mi fa capire che al poliziotto è passata la sbronza; gli è passata in tutta fretta e, pertanto, presumo sia stato perché si è fatto una sniffata di coca.
– E?- chiedo speranzoso –Per me non è rimashto niente?
–Occhio transessuale!– grida l’agente in tono schifosamente militare – on voglio sentire neanche un’altra parola! Inteso?– esige allungando l’indice –Neanche una!
Io prendo alla lettera l’ordine del gendarme e dormo, finché non mi scuotono e mi tirano fuori dall’auto per mettermi in una stanzetta della questura, con altri cinque individui: uno ha una cicatrice che gli attraversa la guancia; sul bicipite dell’altro c’è il tatuaggio di un uomo appeso alla forca, mentre gli altri tre detenuti sembrano ladri di galline che hanno imparato il mestiere derubando alle proprie madri.
-Non devo dormire!– mi ordino sedendomi per terra in un angolo della stanza -Devo stare sveglio perché non mi succeda niente!
Nonostante gli sforzi, prima dell’alba, non ce la faccio più; mi stendo sul pavimento e cado in un sonno profondo.
CONTINUA
LA LEGGENDA DEL CONDOR INNAMORATO di Carlo Bertolini (parte prima)
Genere: FORMAZIONE