LA LUNGA CORSA DELLA MUCCA ARIETTA di Elisabetta Sinibaldi
Arietta
Il suo nome di battesimo era 64k53y e le era stato dato senza tanti riti in un giorno ventoso di qualche tempo prima quando un uomo scortese con due stivaloni di gomma verde le aveva sparato sull’apice dell’orecchio sinistro un’etichetta di plastica gialla di forma trapezoidale.
Arietta, così era chiamata, sapeva che quel giorno c’era vento al di fuori dell’enorme stalla in cui viveva perché sentiva il rumore metallico delle lamiere e perché sentiva il girare vorticoso della banderuola sul tetto.
Lo sapeva non perché avesse mai avuto occasione di conoscere la sensazione del vento sulla pelle o dell’aria fresca che penetra nelle narici, né perché sapesse che cos’è una banderuola… semplicemente Arietta conosceva per sensazioni e per sue supposizioni.
Era nata lì, in quel capannone.
Non ricordava la mamma perché le era stata strappata non appena era stata in grado di alzarsi sulle sue zampette malferme e non aveva potuto assaporare il tepore del latte materno perché quel latte serviva all’imbottigliamento.
In effetti, non sapeva che esistessero le mamme, non si era mai posta delle domande sulla sua origine e sul perché fosse lì. Infatti, questi fatti non la rendevano triste: questa era la sua vita.
Passava le sue giornate di vitellina chiusa in un compartimento rettangolare e molto angusto in cui faticava ad accucciarsi per riposare e mangiava notte e dì un mangime che alcuni distributori meccanizzati dispensavano nella mangiatoia.
Purtroppo questo continuo mangiare le provocava dei disturbi alla digestione e per questo le altre vitelline che sarebbero diventate mucche da latte le avevano dato il soprannome di Arietta; badate bene: lei le arie non se le dava… era molto gentile e mansueta… le arie le faceva!
Tutto sommato Arietta stava bene, non chiedeva nulla in più di ciò che aveva perché non aveva conoscenza del mondo al di fuori della stalla e non conosceva nessuno che da lì fosse uscito per ritornare.
Stava bene così, rassegnata, forse, a quel tipo di esistenza che le era capitata in sorte.
Le mucche mangiavano tutto il giorno e stavano in piedi sulle quattro zampe all’interno di quelle gabbie, tutte uguali.
Crescevano al loro interno e quelle sbarre si restringevano sempre di più ai loro possenti fianchi.
Una volta diventate adulte si ritrovavano mamme senza accorgersene perché i piccoli venivano subito tolti alle loro cure.
Né loro né i cuccioli si dispiacevano di ciò perché funzionava così. Sentivano le mammelle riempirsi di latte e le veniva messo loro un macchinario che le mungeva ad ogni ora. Loro mangiavano e venivano munte. Stop. Questa era la loro vita.
Quando venivano munte, ossia in tutte le ore del giorno e della notte, sentivano dolore ma resistevano con pazienza perché era quello che tutte facevano.
Se qualcuna di loro si ammalava e per la sofferenza si lamentava troppo, veniva allontanava e non faceva più ritorno.
Nessuna di loro si poneva interrogativi su ciò che vivevano o su come avrebbe potuto essere in un altro modo.
Un giorno però, qualcosa cambiò.
L’arrivo della cicogna
Un giorno piuttosto freddo ci fu un arrivo inaspettato.
Arietta sentì dei passetti sulla lamiera sopra la sua testa, graffietti metallici le facevano immaginare qualcuno indaffarato lì sopra: assistette infatti alla costruzione di un grande nido al di sopra della banderuola.
Assistette forse non è il termine adatto, poiché in realtà poteva solo immaginare dai rumori cosa stava succedendo, solo un po’ più tardi comprese che un grosso animale si stava adoprando con molto impegno a portare legnetti, paglia, muschio e quant’altro riteneva utile e costruiva la sua nuova casa.
Lo scoprì perché questa presenza sul tetto mentre lavorava, cantava stornelli in cui narrava i suoi movimenti di muratore: raccontava, musicandoli, i gesti delle ali, delle zampe, del becco per portare e sistemare il materiale, ricordava tutte le avventure che le erano capitate durante il lungo viaggio.
Arietta comprese che si trattava di un grande uccello; infatti, anche se non sapeva come si chiamasse quella bestiola, capì che non aveva la forma di una mucca e che si spostava librandosi nell’aria, con ali robuste e piumate. Dal suo canto venne a sapere che avrebbe deposto un uovo.
Arietta dedusse che l’evento era veramente importante perché l’uccello immaginava come sarebbe stato il suo piccolo e prometteva all’uccellino coccole e attenzioni.
In quel momento capitò qualcosa ad Arietta: sentì una sensazione di tristezza e si mise a pensare a lei, al suo passato.
Chi aveva deposto l’uovo dal quale era nata lei?
Perché non aveva potuto godere dell’affetto di quella mamma, delle sue attenzioni?
Si sentì triste ed anche un po’ arrabbiata.
Non sapeva bene perché, con chi era arrabbiata, poi?
La sua vita avrebbe potuto essere diversa?
Da socievole e mansueta iniziò a essere taciturna e pensierosa.
I pensieri crescevano mano mano che nella sua testa risuonavano le parole della cicogna, così si chiamava quell’uccello, venne a sapere Arietta dagli stornelli.
Allegro, il volatile musicava le sue avventure, poeticamente descriveva il volo, ricordava il mare, la neve sui monti, le grandi città viste dall’alto, le soste sui grandi alberi verdi, il mutare delle foglie in autunno, il variare delle stagioni e tutti i bellissimi luoghi da lei visitati in tutta la vita. Raccontava le sensazioni dell’acqua sulle piume e del calore del sole. Narrava gli incontri con tanti animali diversi e nelle sue canzoni ne raccontava le avventure.
Giorno dopo giorno, Arietta fantasticava sempre più e si sentiva molto scossa.
Perché lei doveva stare lì, in piedi, sempre e comunque… e senza possibilità di fare altro?
Si sentiva punita, defraudata di un tesoro che forse le sarebbe dovuto spettare di diritto, voleva anche lei uscire e vedere l’esterno.
Anche lei voleva sentire il calore del sole.
Tutta questa rabbia la spingeva a mangiare con voracità quel mangime insapore e incolore che era sempre lo stesso… e i suoi disturbi digestivi aumentavano.
Una notte, in preda a forti dolori addominali, muggendo forte chiamò l’uccello:
«Ehi, lassù… dove sono, io? Tu che vedi tutto e che tutto conosci, raccontami dove mi trovo e perché mi trovo qui.»
La cicogna che nel frattempo aveva deposto l’uovo e che con pazienza lo covava, avendo molto tempo a disposizione e annoiandosi per il dover stare ferma lì, lei che amava tanto viaggiare, iniziò a parlare con Arietta.
«Sei in un grosso, brutto, squallido capannone. Le pareti sono grigie e qui intorno non c’è nulla di interessante ma se tu potessi salire quassù, dove sono io, potresti vedere in lontananza i boschi e le montagne dove tante mucche più fortunate di voi pascolano libere, mangiando una fresca, tenera, saporita erbetta. Siete in una brutta prigione, cara mia… e purtroppo, te lo dico per esperienza, mai potrete uscire di lì, se non quando vi porteranno al mattatoio.»
Arietta a questo punto volle sapere di più, perché quasi quasi avrebbe voluto andarsene da lì, e andarci al mattatoio.
Espresse questo desiderio e la cicogna ribatté:
«Oh, no… piccola mucchetta mia! Non hai proprio capito! Quella è la fine di tutto, lì vi portano intere e ne uscite a pezzetti, in tante scatole di latta, magari. Non vedrai mai il mondo, tu… e mi dispiace molto per essere stata io a svelarti il tuo triste destino. Meglio per te sarebbe stato non sapere niente di niente, perché chi poco sa, poco soffre.»
La lunga corsa della mucca Arietta è un racconto di Elisabetta Sinibaldi