LA PRIMA INDAGINE DEL COMMISSARIO SCALISI di Franco Lo Presti
AI GIARDINI PUBBLICI
Mario Puglisi era stato un bel giovane, alto e forte. Dopo aver conseguito il diploma di perito informatico, si era dato allo sport, sua grande passione. Aveva praticato lotta e judo riuscendo in quest’ultima disciplina anche a raggiungere la cintura marrone di primo grado che gli avrebbe permesso, nella tappa successiva, di indossare la cintura nera.
Ma un brutto incidente durante gli allenamenti gli aveva provocato la frattura della spalla sinistra che aveva ridotto l’articolazione del braccio e costretto ad abbandonare l’attività sportiva. La cosa lo prostrò profondamente tanto che iniziò a bere e fumare in modo esagerato, finché i medici non gli diagnosticarono un enfisema polmonare.
Dopo la morte della moglie, andò a vivere a casa di Giulia, sua unica figlia, che con amore e pazienza, riuscì a farlo smettere di bere e lo indusse a ridurre il vizio del fumo.
Con l’arrivo della primavera, la tosse, che non l’aveva lasciato tutto l’inverno, era diminuita e l’uomo sentiva di aver acquistato abbastanza forze da potersi permettere una passeggiata nel parco. Approfittando della bella giornata di sole primaverile, aveva detto alla figlia che si sarebbe recato ai giardini pubblici per respirare una bella boccata d’aria pura, promettendole che non avrebbe fumato.
«Posso fidarmi?» gli chiese Giulia prima di recarsi in ufficio. «Ne va della tua salute!»
«Te lo posso assicurare.» rispose Mario «La tosse di quest’inverno mi è bastata, stai tranquilla.»
La ragazza sorrise, baciò il padre sulla fronte e disse:
«Il tuo pranzo per mezzogiorno è già pronto, basta riscaldarlo; ci vediamo stasera. Ciao!»
L’anziano rispose al saluto, indossò il soprabito ed uscì. Si recò, quindi, nel giardino pubblico del centro storico. Attraversò un grande cancello di ferro spalancato, salì una decina di larghi gradini e si trovò davanti ad una vasca in cui nuotavano magnifici esemplari di cigni bianchi.
A ridosso della vasca, le grandi lancette di un orologio floreale, segnavano le ore.
L’uomo si fermò un attimo ad ammirare quegli splendidi animali come fosse la prima volta che li vedeva, poi proseguì, inoltrandosi in un viale alberato, costeggiato da fitte siepi, e raggiunse un’area ombreggiata del giardino in cui dietro ad un sedile di legno campeggiava, sopra un piedistallo, un’alta statua marmorea di Cerere (divinità romana delle messi) che portava sulla testa una corona di spighe e teneva con le mani un canestro ricolomo di grano.
Mario si sedette, contento di potersi godere un po’ di serenità, respirare l’aria ossigenata e leggere tranquillamente le notizie di cronaca dal suo cellulare.
Erano passati circa dieci minuti, quando, provenienti dalla piccola salita nascosta alla sua vista da una folta siepe, gli giunsero distintamente alle orecchie alcune parole pronunciate con un tono di scherno:
«Stai attento dove metti i piedi, Mirko! Non ti accorgi che inciampi dappertutto… E copriti la testa che ti riconoscono tutti.»
Poi, all’improvviso, da dietro a quella siepe, vide sbucare tre giovani che si coprivano il volto con un cappuccio per non essere riconosciuti, consapevoli che in quella zona esistevano delle telecamere di sorveglianza.
Due di loro spingevano e strattonavano il terzo ragazzo che non sembrava gradire quel trattamento e protestava timidamente.
«Ma cosa hai Mirko, che ti lamenti sempre?» disse uno dei due, ridendo fragorosamente,
Mario Puglisi comprese subito che Mirko era una vittima di bullismo e, spinto da un senso di solidarietà, aveva pensato di sgridare quei ragazzi che prendevano in giro un loro compagno. Ma non ebbe neanche il tempo di riflettere che i giovani, arrivati che furono nelle vicinanze della panchina in cui lui era seduto, gli spinsero contro il giovane Mirko che, rovinandogli addosso, gli procurò un’emorragia dal naso.
L’anziano li rimproverò aspramente, ma costoro non contenti di quanto avevano fatto, cominciarono a sbeffeggiarlo e ad urtarlo.
Il più violento fra i due, vedendo un cellulare nelle mani di Mario, esclamò:
«Che te ne fai tu di questo alla tua età, vecchiaccio maledetto! Questo è roba da giovani non di vecchi che non ci capiscono niente.»
Glielo strappò dalle mani e si allontanò rapidamente, temendo una qualche reazione.
L’uomo, infatti, sentendosi insultato a quel modo ed accortosi del sangue che gli veniva dal naso, si alzò e, per prima cosa, strappò il cappuccio dalla testa di Mirko che ancora guardava, con aria perplessa e preoccupata, lo svolgersi degli avvenimenti.
Questi, confuso e costernato da quell’atto, si rimise subito il cappuccio, mentre l’altro giovane che fino ad allora era stato a guardare divertito, riprendendo tutta la scena con il suo telefono, afferrò Mario per il bavero, gridandogli in faccia:
«Tira fuori il portafogli, se non vuoi che ti faccia nero!» E lo strattonò con forza.
Ma Mario non aveva perso del tutto i suoi riflessi e, con una vecchia mossa di judo, lo costrinse a lasciare la presa e lo mandò a gambe all’aria.
Non credendo ai loro occhi, i due teppisti gli si avventarono addosso contemporaneamente, ma trovarono pane per i loro denti, finché le forze non abbandonarono il pover’uomo che cadde per terra.
I giovinastri cominciarono ad infierire sul corpo dell’anziano, sferrandogli calci al viso e allo stomaco, malgrado Mirko, il ragazzo all’apparenza più timido, cercasse di fermarli, gridando:
«Basta!…Così lo ammazzate!»
Mario, tossendo e sputando sangue, cercava di ripararsi la faccia con le mani, ma poco dopo, vinto dalla stanchezza e dalla malattia, rimase inerte sul terreno.
Solo in quel momento, i delinquenti si fermarono, presero il malcapitato per i piedi, lo trascinarono dietro ad una siepe e fuggirono imprecando ed ingiuriando il giovane Mirko perché non aveva, a loro avviso, svolto bene la sua parte, aggiungendo:
«Te lo avevamo detto che sei una femminuccia.»
E mentre correvano, ridevano e gridavano:
«Femminuccia!… Sei una femminuccia!»
La sera Giulia tornò a casa, ma non vide il padre seduto a guardare la televisione, com’era solito fare; si accorse inoltre che il pranzo non era stato toccato e cominciò a preoccuparsi, tanto più che cominciava ad imbrunire.
Si precipitò allora verso il parco, temendo un malore del padre ed iniziò a cercarlo, chiamandolo, di tanto in tanto, con voce concitata ed allarmata, ma senza alcun risultato.
Le sembrava di impazzire; aveva cercato dappertutto.
Poi si ricordò dell’abitudine che Mario aveva di recarsi nel vialetto appartato e sedersi sul sedile a ridosso della statua di Cerere. Salì, dunque, il pendio con il cuore in gola e con voce rotta dall’angoscia, chiamò suo padre ripetutamente.
Aveva perso ormai le speranze, quando le sembrò di udire, nel silenzio della sera, un gemito; poi sentì un colpo di tosse dapprima isolata, quindi sempre più convulsa, provenire da dietro ad un cespuglio. Si precipitò in quella direzione e per terra, vide il suo povero babbo in mezzo ad una pozza di sangue.
«Papà!» gridò «Cosa ti hanno fatto? Chi è stato?»
L’uomo tossiva e non riusciva a rispondere. Giulia chiamò l’ambulanza con il cellulare e l’anziano fu portato all’ospedale in stato confusionale.
I medici constatarono la gravità della situazione, lo ricoverarono nel reparto di terapia intensiva dove gli praticarono le cure del caso e inviarono subito il referto alla polizia.
Intervennero prontamente due poliziotti che, nei momenti di lucidità del ferito, con il permesso dei medici, gli chiesero se fosse in grado di riconoscere quei giovinastri guardando alcune foto perché, da qualche giorno venivano segnalati dei casi di pestaggio ad anziani da parte di giovani incappucciati con il solo scopo di rubargli il cellulare e pochi spiccioli.
L’uomo rispose che non era in grado di conoscerli, ma che era riuscito a strappare il cappuccio ad uno di loro chiamato Mirko, dai suoi compagni.
I poliziotti si recarono sul posto descritto da Giulia, si accorsero delle telecamere di sorveglianza, sequestrarono la registrazione e la portarono al comando per esaminarla.
IL COMMISSARIO SCALISI
Rosario Scalisi, aveva partecipato al primo concorso per Commissario di polizia che si era presentato subito dopo aver conseguito la laurea in legge con il massimo dei voti,
L’aveva vinto e si era da poco insediato nell’unico Commissariato di Polizia nel catanese, che aveva un posto disponibile.
Con il suo carattere mite, ma all’occorrenza deciso ed energico, aveva subito stretto amicizia con i colleghi dell’ufficio ed, in particolare, con il dott. Enzo Modica, un uomo ormai anziano che fino ad allora aveva svolto il compito di facente funzione ed era ben contento di essere sollevato dall’incarico.
«Càpiti al momento opportuno!» disse Modica «Proprio ieri si è verificata l’ennesima aggressione a danno di un anziano, e questa mattina gli agenti hanno portato la registrazione che documenta il fatto.
Sarà forse l’occasione buona per riuscire ad incastrarli, ma questa volta dovrai farlo tu. Ti cedo volentieri l’indagine.»
Scalisi accennò ad un piccolo sorriso, diede ordine di visualizzare la foto ripresa con la telecamera e si accorse che si trattava di un giovane.
Era un ragazzo biondo dall’apparente età di 15 o 16 anni; sembrava mite e tranquillo. Fece stampare alcune foto e le consegnò al giovane ed intraprendente ispettore Pulvirenti ed altri due agenti, dicendo:
«Cercate di individuare questo ragazzo e, poiché deve trattarsi di un minorenne, convocate lui ed i suoi genitori. Voglio parlare personalmente con loro.»
I poliziotti cominciarono a visitare tutti i locali frequentati da giovani: palestre, sale da bigliardo, campi di calcio e centri sportivi. Tutto invano.
Allora cominciarono ad indagare nei rioni malfamati della città, cominciando dal quartiere di San Crisostomo in cui si svolgeva un mercato giornaliero.
Era un mercato pittoresco ed i poliziotti furono subito colpiti dalle grida dei venditori che esaltavano la loro merce. Vi si vendeva di tutto: vestiti, stoffe, frutta, verdura, pesce, carne di tutti i tipi e qualità. Si spacciavano anche sigarette di contrabbando e tanta altra merce. Cominciarono a mostrare la foto segnaletica ai vari venditori in piedi davanti al loro banco di mercanzie. Un venditore di frutta e verdura, credette di conoscere quel ragazzo.
«Mi pare di averlo già notato nei dintorni. Ora la faccio vedere a mio figlio; lui di sicuro lo conoscerà.»
Il figlio, un giovane sui venti anni, stava seduto dietro il bancone; guardò la foto ed assicurò di non averlo mai visto e che certamente non era di quelle parti.
Sembrava proprio che nessuno lo conoscesse, finché, entrati in un negozio di generi alimentari, la proprietaria disse che quel ragazzo rassomigliava al figlio di una famiglia di immigrati abitanti nella zona.
Per sicurezza chiese notizie al marito il quale confermò che il ragazzo si chiamava Mirko ed era il figlio dei coniugi Nina e Nikola, provenienti dall’ex Jugoslavia.
«Si tratta» disse la donna «di una signora che viene da noi a fare la spesa. È una donna per bene, a quanto ci risulta. Il marito lavora presso una ditta di trasporti. Sono brave persone che non hanno mai dato fastidio a nessuno ed abitano qui ormai da alcuni anni.»
I poliziotti compresero di essere sulla strada giusta e si recarono nell’abitazione indicata.
Li accolse una bella donna bionda, con un perfetto ovale del viso, gli occhi celesti, la pelle delicata ed un incarnato bianco e rosa.
Alla vista della polizia, divenne rossa in viso e cominciò a tremare dalla testa ai piedi.
I poliziotti restarono sorpresi dal comportamento della donna.
L’ispettore Pulvirenti, intuendo il suo malessere, le riferì con delicatezza, la bravata del figlio.
La donna rimase perplessa, non credeva che il figlio potesse arrivare a tanto. Poi, le venne in mente qualcosa e chiese:
«Era con altri ragazzi?»
«Sì, con altri due!» risposero gli agenti.
«Ecco… come pensavo. Quante volte ho detto a mio figlio di non frequentare quei ragazzi, ma lui niente. Vuole sentirsi grande come loro ed ecco i risultati. Quando torna, lo striglierò a dovere!»
«Fa bene, signora. Però, domani mattino alle ore 9:30, insieme a suo marito e suo figlio, si presenti al commissariato di zona. Il commissario vuole parlarvi.»
«Certamente che verremo, ma senza mio marito; non c’è, è in viaggio di lavoro per conto di una ditta di trasporti.»
L’INTERROGATORIO
Puntuale la signora Nina si presentò con il figlio al commissariato.
«C’è una signora con il figlio in sala di aspetto. Dice di chiamarsi Nina» annunciò il vigile addetto all’accettazione «Sembra mortificata ed intimorita.»
«Falla passare! La stavo aspettando!»
La signora entrò con suo figlio, ad occhi bassi, vergognandosi di trovarsi in quel posto.
«L’hai combinata bella questa volta, Mirko! Sai che quel pover’uomo sta rischiando la vita a causa tua?» osservò il commissario… «Ti chiami Mirko, non è vero?»
«Sì, ma non sono stato io a buttarmi addosso all’anziano.» rispose il ragazzo «Mi hanno spinto gli altri.»
«Gli altri chi?»
«I miei amici.»
«Begli amici che hai! Mi pare fra l’altro che non è la prima volta.» azzardò il Commissario.
«Ma sono sempre loro che mi spingono addosso a qualcuno per poi rubargli il cellulare ed i pochi soldi che hanno in tasca.»
«Dimmi i nomi.»
«Non li conosco. Non mi dicono i loro nomi. Mi vengono a prendere a scuola e mi obbligano a seguirli… E poi non sono solo loro due. Si tratta di un gruppo di otto o dieci ragazzi più grandi di me che si danno sempre il cambio senza rivelare la loro identità.»
Tacque per un po’, timoroso. Poi sollecitato dalla madre e dal commissario Scalisi, riprese a narrare:
«Devo ubbidire, altrimenti mi picchiano e mi ingiuriano. Mi dicono che non riuscirò mai a compiere le cose che fanno loro. Mi chiamano “femminuccia” perché sono biondo ed ho la carnagione bianca. Questa per me è l’offesa più grande e mi mortifica più delle botte. Devo dimostrare di essere alla loro altezza, di essere un vero uomo. Per questo li seguo.»
Intervenne la madre che disse:
«Tu dici di non conoscere i loro nomi, ma devi per forza sapere dove trovarli, perché quando telefonano, dicono che dovete incontrarvi al solito posto.»
Il ragazzo era timoroso, ma confessò di essere ormai stanco di soprusi e che era disposto a raccontare tutto, anche se temeva una brutta reazione da parte dei compagni.
Il Commissario comprese che quel ragazzo era una vittima di bullismo e lo rassicurò che se avesse indicato dove si trovavano quei suoi amici, loro non lo avrebbero mai saputo e il giudice avrebbe tenuto benevolmente conto di questa sua collaborazione.
Il ragazzo acconsentì e descrisse nei minimi particolari il posto in cui si trovava la sala di biliardo ove i giovinastri si recavano a giocare e a bere alcolici.
«Si tratta di una zona malfamata.» aggiunse «A quanto ne so, verso le ore undici solitamente si riuniscono tutti in quel locale.»
Tre agenti con l’ispettore Pulvirenti, agli ordini del commissario Scalisi, si recarono nella sala di biliardo indicata. Vi entrarono e, tra un nuvolo di fumo ed uno schiamazzo impressionante, frammisto a parolacce e bestemmie, colsero alcuni giovani, tutti maggiorenni, tra i diciotto e venti anni, che giocavano a biliardo.
«Fermi, polizia!» intimò il commissario.
Spavaldamente i giovani smisero di giocare e qualcuno chiese:
«Chi cercate? Di cosa ci accusate? Noi non abbiamo fatto niente!»
Pulvirenti si accorse che fra quei giovani c’era il figlio del fruttivendolo che aveva dichiarato di non conoscere il ragazzo della foto e lo comunicò sottovoce al commissario.
Questi diede ordine di perquisire tutti. Nessuno di loro aveva in tasca un cellulare. La cosa lo insospettì ed ordinò di condurre tutti in commissariato.
«Si tratta di un normale controllo di polizia. Non vi preoccupate!» disse Scalisi ai giovani che protestavano «Ascolterò con calma ed attenzione le vostre dichiarazioni.»
Arrivati in commissariato, Scalisi chiese a tutti di deporre le loro generalità, dispose che venissero trattenuti provvisoriamente in camera di sicurezza e cominciò a interrogarli uno ad uno, separatamente.
Mandò, quindi, i suoi uomini a perquisire le loro abitazioni, nelle quali furono trovati diversi cellulari, ma in nessuno di essi c’era traccia di aggressioni, di eventuali furti o di bullismo a danno di ragazzi più giovani o di anziani.
La cosa destò un certo stupore, ma il commissario non era convinto. Probabilmente, pensava, si trattava di un depistaggio. Per questo interrogò Mirko:
«I tuoi amici avevano l’abitudine di filmare con il cellulare le loro prodezze?
«Sempre,» rispose il ragazzo «anzi erano orgogliosi delle loro gesta e dicevano che quei filmati erano la prova della loro maturità e che non li avrebbero mai distrutti.»
«E allora come spieghi che tutti i loro cellulari erano puliti?»
Poi, preso da un sospetto, aggiunse:
«Dammi il tuo cellulare. Ne avrei certamente uno, vero?»
«Certo!» rispose il ragazzo. Mise la mano in tasca e assieme al cellulare si accorse di avere una chiave che i suoi amici gli avevano ordinato di conservare e a cui ormai non pensava più. Diede tutto al commissario, il quale esaminò il cellulare e vide che era pulito.
Il suo sospetto era quindi infondato.
Osservò, quindi, la chiave e comprese che era tipica delle cassette di sicurezza istallate nella stazione ferroviaria.
Forse era la strada giusta.
Inviò i suoi uomini a verificare; ed essi trovarono che nella cassetta corrispondente al numero impresso nella chiave, erano depositati diversi cellulari nei quali esisteva la prova delle minacce, delle malefatte e delle percosse commesse dai quei delinquenti che avevano pensato di aver ingannato la polizia con quel piccolo trucco.
Rimasero perciò sorpresi quando il commissario rivelò loro ogni cosa, contestando i seguenti capi di imputazione: bullismo nei confronti dei più deboli, maltrattamenti, minacce, furti, percosse ed aggressioni a danno di anziani e giovani.
«Resta da vedere quale sarà la sorte del povero Puglisi, perché vi si potrebbe accusare anche di omicidio!» concluse il commissario.
La prima indagine del commissario Scalisi è un racconto di Franco Lo Presti