LA SCATOLA di Francesco Arrichiello
genere: INFANZIA E ADOLESCENZA
“… né più mi occorrono
le coincidenze, le
prenotazioni,
le trappole, gli scorni di
chi crede
che la realtà sia quella
che si vede.”
E. Montale
Non sono una gran cosa ma le ho trovate, le ho raccolte e mi saranno indispensabili.
La prima è uno scatolone enorme; chi sa cosa ci avevano imballato.
L’hanno smontato strappando tutto il nastro adesivo che lo teneva dritto e ora è come un grande foglio di cartone, facile da tirar via, riverso sulla strada come un giornale vecchio.
L’altra è un plaid che qualcuno ha lasciato sui gradini di Santa Martire e ora potrò affrontare tranquillo le mie notti; se dovesse far freddo me lo potrò tirare fin sotto il mento e chi starà meglio di me?
E così, trascinando con una mano lo scatolone e con l’altra il plaid, me li sono tirati fin dietro la statua di Cavour, nascosto tra i gradini e l’alto muro che circonda la piazza. Ho rimesso in piedi lo scatolone utilizzando lo scotch che avvolgeva un foglio di plastica a bolle gettato lì vicino. Anche della plastica a bolle non mi sono sbarazzato. È impermeabile e se dovesse piovere non mi bagnerò, almeno per la parte che riesce a coprire. E ora copre la mia nuova dimora.
Già, la mia dimora.
Non che io fino ad oggi non abbia avuto una dimora, una casa, una casa vera, di quelle classiche, fatta di mattoni, con i muri, le finestre; finestre che si aprono e chiudono ogni volta che è necessario.
Certo, non era una reggia. Era piccola e ci abitavamo tutti noi: mio padre, mia madre e noi.
Noi figli eravamo tre, una femmina e due maschi, con mia sorella più grande che è arrivata fino al primo, mio fratello mediano che strillava che voleva fare il medico ma che aveva dovuto ripetere tre volte la terza e me che facevo da mascotte e che non ho concluso manco la prima superiore.
Mio padre faceva lo scambista. Non uno che dava la moglie in cambio per un’altra donna, proprio uno che curava gli scambi: quelli dei treni, per una società che aveva l’appalto di manutenzione delle ferrovie.
Gran lavoratore. Si alzava alle quattro del mattino, si metteva una tuta blu con la pettorina tirata su da due bretelline a coprire una maglia scura dai gomiti rammendati più volte. “Devo andare a lavorare mica a un pranzo di gala” diceva a mia madre che gli rimproverava questa divisa che definiva indecente.
Tornava la sera, quando era già buio, sempre tanto stanco che aveva solo il tempo di mangiare, scolarsi un bel bicchiere o anche una mezza bottiglia di vino e tuffarsi nel letto.
E con mia madre si scambiavano sì e no due parole mentre si cenava ed erano quasi sempre male parole, per i soldi che erano pochi e noi che non amavamo la scuola.
“La Tina avrebbe bisogno di ripetizioni di matematica” guaiva mia madre scatenando le sue ire.
“E che so’, milionario io? E dove li prendo i soldi per il professore? Mi devo mettere a rubare?” e giù insulti e spintoni. Sberle no, non ne ho mai viste dare ma la mamma ogni tanto ci diceva che aveva sbattuto e a noi qualche dubbio veniva.
Lei si era messa a fare le maglie. La macchina gliel’aveva venduta un tizio. Si mise a lavorare giorno e notte e la riscattò con i primi lavori. Il tizio portava le lane e ritirava le maglie fatte e le dava qualche soldo. Mai nella quantità che lei affermava le spettassero ma sempre con la promessa che se gliene dava altre, allora …
E lei si accontentava, facendo ancora di più imbestialire mio padre che diceva che a quel Toni gli doveva spaccare la faccia, ma poi spingeva mia madre.
Tutto cominciò quando mia sorella si prese una cotta per Alfonso.
A lui, lei non piaceva e ogni volta che la vedeva a scuola l’additava alle compagne e rideva.
Tina cominciò a dimagrire. Si metteva alla finestra e guardava il muro del palazzo di fronte che non aveva né finestre né balconi. Per farla mangiare ogni giorno erano storie.
“Vieni” le diceva mia madre, “Fa presto” le diceva mio padre quando c’era e poi giù tiri di braccia, spintoni, parolacce.
E lei veniva a tavola con il muso lungo e con la forchetta o col cucchiaio non faceva che giocherellare nel piatto con quello che la mamma aveva preparato strappando minuti alle sue maglie.
La mamma alla fine aveva voluto trascinarla dal medico che non aveva fatto altro che una lista con tutte le medicine che doveva prendere “assolutamente”.
“Assolutamente un piffero” sbraitò mio padre “Con tutti gli integratori alimentari che la mutua manco li passa. Sei pazza tu e lui” e si decise che di medicine non se ne sarebbero comprate.
Mia madre pianse, ma dovette rassegnarsi. Di soldi lei non ne aveva e non poteva prendere decisioni diverse da quelle del marito.
E Tina continuò a dimagrire finché un giorno sparì, non la si trovava più.
“Tina! Tina!” gridava mia madre, “Tina! Tina!” gridavamo tutti noi, in casa, dalla finestra, per strada. Niente.
Tina non si trovava finché “Ma guardala sta disgraziata!” sentimmo urlare mia madre “Guarda dove s’è messa!”.
Tina era sdraiata sopra il tetto dell’armadio in camera dei miei. Un bell’armadio grande che mia madre affermava di essere di noce massiccio e che s’era portata dalla casa paterna con sommo dispiacere di zia Maria che a quell’armadio ci teneva.
Aveva una specie di strano rosone intarsiato al centro che sembrava fatto apposta per nascondere Tina che si era sdraiata lì dietro e che ora rimaneva impassibile a tutti i nostri inviti a scendere.
“Forza! Scendi! Tira fuori le gambe! Dammi almeno una mano!”.
Niente.
Rimaneva immobile come sorda a ogni invito.
Quando a sera arrivò mio padre gli inviti si moltiplicarono e con quelli anche le minacce: “Se non scendi!”, “Non sai che ti faccio!” e le lusinghe “Guarda mamma che ti ha preparato”, “Lo vuoi un pezzo di pizza?”.
Non ci fu verso. Alla fine, si arresero e chiamarono il 112.
Arrivarono tre carabinieri che provarono anche loro a convincerla.
Niente.
Alla fine, dovettero far intervenire i pompieri e un nucleo di esperti e arrivò anche il nostro medico. Non so come fecero, dovettero andare a prenderla da lassù e portarla giù con la forza.
Non che lei facesse resistenza. Sembrava un sacco di patate, pesante e senza volontà, con la testa e le braccia molli che ciondolavano da ogni parte.
La vidi andar via messa sopra una barella e infilata in una autoambulanza da degli strani infermieri con una fascia blu sul braccio “Servizio psichiatrico di diagnosi e cura”.
Non la vidi più.
Poi fu il turno di mio fratello.
Da quando Tina se n’era andata era diventato un altro. Sempre scontroso e irascibile ora si rifiutava categoricamente di andare a scuola.
Più volte lo udii che parlava con mamma zitto zitto per non farsi sentire da me:
“Me lo dicono appena mi vedono: Matti! Siete una famiglia di matti! E io non ci voglio più andare”.
Mamma non sapeva cosa rispondergli. Si torceva le mani, si asciugava gli occhi con la manica della vestaglia che oramai non toglieva più neanche quando si andava a mangiare e si rintanava nella sua stanza a fare altre maglie.
E lui prese ad affacciarsi a quella stessa finestra che usava Tina, con l’affaccio sul muro senza balconi né finestre.
Mia madre si disperava e una volta con papà:
“Quel figlio. Sempre alla finestra. Sempre più triste. Finisce che non mi mangia più neanche lui”.
“Stai tranquilla. I maschi quando hanno fame …”.
Ma non fu così.
Neanche un paio di giorni dopo e anche Enzo non si presentò più a tavola.
All’inizio rabberciava qualche scusa. Alla fine, non rispondeva neanche più.
E alla fine sparì anche lui.
Solo che stavolta mia madre non impazzì a cercarlo.
In primo luogo, prese lo scaletto e si affacciò sull’armadio della camera. Era lì.
E ricominciò la tiritera:
“Forza! Scendi! Tira fuori le gambe! Dammi almeno una mano!”.
Niente.
Rimaneva immobile come sordo a ogni invito.
Di corsa furono chiamati carabinieri e vigili del fuoco e di nuovo vidi un mio fratello caricato come un sacco di patate inanimato su una ambulanza da strani infermieri con la fascia blu sul braccio.
Non sopportai di non vedere più neanche lui. Uscii di casa e, così come stavo, in pigiama e pantofole, presi a inseguire l’ambulanza.
Non era veloce e non aveva messo neanche la sirena e con quel poco di traffico che c’era non era difficile rincorrerla. Solo che a un certo punto girò in un vicolo in fondo al quale c’era una strada dritta che attraversava tutta la piana per scomparire in fondo dietro degli alberi e una montagna.
Allora l’autista prese una gran corsa. Dopo un centinaio di metri di una corsa sfrenata dovetti fermarmi ansimante, con la mano affondata nel fianco sinistro dove la milza mi faceva un male cane.
Rimasi così per un bel po’ di tempo senza sapere se tentare di continuare questo strano inseguimento o arrendermi.
Mi arresi.
Ma non tornai sui miei passi e non tornai a casa.
E così, in pantofole e pigiama, mi misi a cercare il mio paradiso. Un posto dove fosse possibile essere liberi e possibilmente felici anche senza fratelli.
“Che fai lì? E tutto nudo?” un vigile si era fermato e mi indicava col suo manganello coperto di una lucida pelle nera.
Fui tentato di non rispondere, ma il manganello che si alzava mi portò a più miti consigli.
“Cerco il paradiso. Sono stanco di questo inferno.”
“E il paradiso lo cerchi nudo?” mi disse lui con un sorriso di scherno sulla faccia.
“Certo” ebbi la forza di rispondergli mettendomi a sedere e cercando di essere il più convincente possibile.
“Il professore di disegno ci ha fatto vedere un sacco di quadri” dissi tentando la carta dell’istruzione e dell’arte. “Ci ha fatto vedere quadri di Michelangelo, di Wenzel o anche Il giardino delle delizie terrene di Jheronimus Bosch. Ci ha detto che erano rappresentazioni del paradiso. E sono sempre tutti nudi”.
“Troppe chiacchiere” mi disse di rimando il vigile scuotendo il manganello “Rivestiti e seguimi al comando”.
Ubbidii senza troppe storie rimettendomi i panni che avevo piegato e messo su un angolo della panchina per farmi un cuscino.
In caserma non riuscirono a farmi dire né da quale paese arrivassi né di come si chiamassero i miei genitori e neanche di come mi chiamassi io stesso.
Alla fine, il comandante, stanco di tenermi tra i piedi disse al vigile:
“Consegnalo alle monache dell’orfanotrofio. Quando si presenteranno i genitori per denunciarne la scomparsa, faremo presto a tirarlo fuori di lì”.
E così fu che passai più di sei mesi nell’orfanotrofio cittadino tra le cure talvolta amorevoli, talaltre stizzite delle monache che non riuscivano a farmi dire più che qualche ovvietà del tipo “Ho fame. Ho sonno”.
La compagnia era buona. Un sacco di ragazzini della mia età ma anche un po’ più grandi o un po’ più piccoli affollavano dormitori, aule e mensa. Quasi sempre in allegria ma molto spesso in profonda e taciturna tristezza.
Non che mi ci trovassi troppo bene e così cominciai a studiare il modo per andar via.
D’altra parte, nessuno si era presentato a reclamarmi, perché dovevo stare con gli orfani se io orfano non ero?
E così una mattina, presentandomi in portineria e approfittando che la monaca guardiana era stata chiamata dalla superiora per chi sa quale incombenza, lesto lesto aprii il portone, sgusciai fuori e lo richiusi senza far rumore.
Era una giornata splendida, con un sole che spaccava le pietre e un venticello tiepido che ti scaldava il corpo e il cuore.
E così, dopo una breve corsa, passeggiai tranquillo fino ad arrivare al centro della città. Nessuno mostrò di accorgersi di me né cercò di fermarmi.
Una signora, meravigliata del mio aspetto da bravo ragazzo con ancora su la divisa da orfanello, mi ha regalato una banconota con la quale ho potuto comprarmi un gran panino.
Evidentemente ho trovato il paradiso.
Non appena formulato il pensiero mi sono infilato nello scatolone col plaid a farmi da cuscino.
Una strana euforia si è impossessata di me. Ricordo tutte le figure del paradiso che ho visto a scuola e di cui avevo detto al vigile. Sono uscito dallo scatolone e ho iniziato a spogliarmi: prima le scarpe poi le calze; poi la giacchina nera, la camicia, la maglia; infine i pantaloni grigi e gli slip.
E così, nudo e libero, speravo non mi vedesse nessuno.
E invece: “Ehi tu. Che ci fai lì tutto nudo? Non hai freddo? Perché non ti copri?”.
Io non ho modo di spiegarmi, di dire che in paradiso si sta tutti nudi, che se questo è un inferno è solo perché ci ostiniamo a stare sempre tutti coperti, che è lapalissiano che gli animali vivono in paradiso e noi all’inferno, tranne quei pochi cani con la pelliccetta che gli mettono le padrone invidiose che vogliono che anche loro stiano all’inferno.
Non mi danno modo di spiegarmi e continuano a gridare da sopra al muro che circonda la piazza “Copriti! È scandaloso! Chiamate le guardie!”.
Mi sono infilato nello scatolone sperando andassero via.
Macché! Due minuti e sono scesi in due.
Vedo solo le grosse strisce blu sulle braccia dei loro camici bianchi.
LA SCATOLA di Francesco Arrichiello
genere: INFANZIA E ADOLESCENZA